La musica che gira intorno, Flop di Salmo è un utile fiotto di vomito caldo

Flop, lo dico subito, è un disco clamoroso, di quelli che sono destinati a rimanere nel tempo, un disco figlio della pandemia che affonda le radici nella golden age del rap


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Mi è capitato spesso, recentemente, di sentir dire che da ora in poi ragioneremo in termini di “prima del Covid” e “dopo del Covid”. Un discorso che nasconde in sé due aspetti antropologicamente interessanti. Da una parte la certezza di essere in grado in tempo reale di decifrare i passaggi della Storia, quella con la esse maiuscola, destinati a rimanere nel tempo. Lo avevamo già vissuto ai tempi dell’11 settembre, se ricordate, quando di colpo sembrava nulla sarebbe mai tornato come prima, sbagliandoci in maniera piuttosto clamorosa, direi. Dall’altra la speranza assai radicata che prima o poi il Covid in effetti finisca, discorso che ovviamente taglia fuori tutti i complottisti di vario grado in ascolto (lettura, dovrei dire), anche se a ben vedere anche loro daranno all’era Covid una loro importanza, nello specifico, semplicemente, immagino, penseranno che ci sarà un prima e un dopo di quello che Freccero ha identificato come il Grande Reset, facendolo combaciare appunto col Covid stesso.

Non sono così sicuro che in effetti questa percezione, che cioè d’ora in poi guarderemo alla nostra storia, quella con la esse minuscola, e più in generale alla contemporaneità a partire dal Covid, quindi indicando un pre e un post, come un Avanti Cristo e Dopo Cristo laico e infettivo, ma è un fatto che al momento ci troviamo esattamente in quelle acque lì, nel trattino che separa il prima dal dopo. Occupandomi io, per mestiere, di musica, la cosa mi è ancora più evidente, anche qui, per più di una valida ragione. Il mondo della musica, che che se ne dica, si è quasi totalmente fermato all’inizio febbraio 2020. Certo, ci sono stati sporadici concerti e tour, di piccola portata, gli ingressi sono diventati contingentati, questo nei brevi periodi in cui suonare di fronte a un pubblico è stato possibile, cioè quasi mai in questi diciannove mesi, c’è stata qualche uscita discografica, molte meno del solito, ovviamente, perché far uscire dischi senza poi poterli promuovere in giro coi firmacopie e senza, soprattutto, portarli poi in tour è quasi un gesto di autolesionismo compiuto in pubblico, gesto che molti artisti hanno preferito non compiere, ci sono stati un altro Festival di Sanremo, vinto dai Maneskin, cui è seguito Eurovision, sempre visto dalla band romana, che poi è andata in giro per l’Europa a suonare per Festival, a riprova che sembra questa contingenza sia più faccenda nostra che globale, ma nel mentre i grandi tour, anche quelli internazionali, sono stati rimandati, se non addirittura annullati, sorte seguita anche dai tour negli stadi e nelle grandi arene al chiuso, leggi i palasport, dei nostri BIG della canzone. Abbiamo assistito tutti alla pantomima dei concerti rimandati di anno in anno, di mese in mese. Abbiamo guardato con perplessità, nei mesi, agli annunci di nuovi tour, prontamente rimandati. Vediamo, ora, che alcuni grandi, grandissimi eventi vengono annunciati per l’estate prossima, segno che anche tra artisti e promoter c’è che guarda a un “dopo del Covid” con un certo ottimismo, o che semplicemente ha una grande voglia di far cassa, vai a capire tu il grado di buonafede del gesto. Ma dovendo o volendo tirare le fila di questi diciannove mesi, venti mesi da che il Covid, prima col nome Coronavirus, ha iniziato a dettare la nostra agenda, verrebbe da dire che il mondo della musica si è fermato in uno stato di coma farmacologico, vai a sapere se in attesa di una pronta guarigione o di un “staccate le macchine”. Non così all’estero, ripeto, ma è di casa nostra che voglio parlare, partendo proprio dall’idea di casa.

Quello che ho spesso lamentato, io che questo stato comatoso lo avevo iniziato a raccontare assai prima dell’esplosione della pandemia, additando come cause le cause reali, il Covid ha dato solo l’ultimo ferale contributo, Cassandra che guardava alla fine imminente raccontandola a gran voce, è che in questi lunghi, lentissimi mesi che abbiamo vissuto sulla nostra pelle quel che è mancato è stata la volontà da parte degli artisti di fermare il momento storico su traccia, se pensate ai tormentoni delle due estate tocca ammettere che sono stati ancora più  sciocchi del solito, e più in generale è mancato proprio chi si è preso briga di raccontare l’oggi con precisione quasi cronachistica, ma anche con suggestione poetica. Lo hanno fatto e lo stanno facendo le serie Tv, che per questioni facilmente intuibili sono diventate le nostre compagne assai più delle canzoni, Netflix ha avuto impennate incredibili di abbonamenti, poi registrando una lieve flessione, ma avendo ormai permeato ogni spazio, ma non le canzoni, perdendo, credo, un’ottima occasione. Questo in special modo guardando a due precise categorie, che con il raccontare l’oggi dovrebbero avere, per loro natura, assai a che fare: i rapper e i cantautori, senza che io poi stia qui a disquisire se i primi siano o meno gli eredi dei secondi, come sostenuto da certa narrazione. Certo, qualcuno potrebbe buttare sul panno verde, quello dove si sta metaforicamente svolgendo questa partita, il fatto che in periodi grevi come questo sia necessaria come l’aria un po’ di leggerezza, che in questi contesti l’arte che si fa intrattenimento, se non l’intrattenimento tout court, anche in assenza di arte, diventi necessaria, ma nei fatti la totale assenza di contraddittorio in questo racconto, l’univocità di lettura del presente secondo questa interpretazione lascia quantomeno spiazzati, disorientati, perché va bene lo svago e la distrazione, ma anche un qualche tentativo di decifrare il presente, a nostro beneficio, sarebbe cosa gradita, l’arte incaricata di comprendere e di aiutarci a comprendere, oltre che di aiutarci a superare. Questo mentre la filiera è sempre ferma, le promesse non vengono mantenute, la ripresa sembra riguardare un po’ tutti gli altri settori, fuorché il nostro.

Poi succede che esce Flop di Salmo, artista che avrebbe dovuto portare la sua musica a San Siro nel 2020, e che aveva più volte dichiarato di non voler far uscire la sua musica sotto pandemia, proprio per le ragioni di cui sopra. Salmo che si era reso protagonista, durante l’estate, del controverso concerto gratuito di Olbia, additato da molti come prossima Zona Rossa in Sardegna, previsione poi non verificatasi, e comunque attaccato all’unanimità da colleghi e pubblico, reo di aver detto, in effetti, quella cazzata dell’artista che è tale solo se non rispetta le regole, e comunque di aver fatto qualcosa che rischiava di compromettere il già delicato stato comatoso del sistema. Flop esce esattamente nella modalità cui Salmo ci ha abituato a guardare a lui e alla sua arte, senza filtri, arrogante, o per dirla con parole sue, antipatico. Flop, lo dico subito, è un disco clamoroso, di quelli che sono destinati a rimanere nel tempo, un disco, uso apposta una parola antica, che affonda le radici nella golden age del rap, citata a più riprese nei testi, a partire da quel “il ritorno del Salmone sulla traccia” di neffiana memoria, ma che è contemporaneissimo, attualissimo nelle liriche, prima importante opera che si confronta con quanto abbiamo vissuto senza cercare scorciatoie, e anche senza cercare rassicuranti assoluzioni. Un disco figlio della pandemia, in quanto composto in stato di costante pressione, pressione dovuta a quel che succedeva intorno, e quindi, più del solito, carico di rabbia, odio, carica distruttiva a gogo. Un disco contro, dove a beccare gli strali è in primo luogo Dio, cui è dedicata una antipreghiera praticamente perfetta come A Dio, parola di ex catechista ora in pensione, un blues sporco a alto tasso di disperazione (“Mollami. oh, è un po’ colpa tuo questo clima di merda/ ho letto il tuo libro, la Bibbia, e alla fine ho capito che parla di guerra” sono versi perfetti, come i successivi “Padre, non sono un infame/ Io che volevo trovare qualcuno che valga la pena pregare”), e via via le nostre incoerenze, dove per noi si intende la nostra società, Salmo incluso. Quel che colpisce, ma forse Salmo voleva rimettere le cose al proprio posto anche per vagheggiare una normalità che evidentemente non è più di questo mondo, la grande eterogeneità delle basi, davvero capaci di coprire tutto l’arco costituzionale dei generi frequentati fin qui dal nostro, si va dal pop, sì, il pop, soprattutto con Kumite, il titolo del brano prodotto da Takagi e Ketra, che in genere mica fanno altro, così come con La chiave, con Marracash, come Mi sento bene incentrata sul successo e l’essere ancora se stessi, L’angelo caduto, che a mio gusto personale è la meno bella anche grazie o per colpa della presenza di Shari, fino alla jazzata, quasi, Marla, al rap delle tradizioni, in questo la presenza di Noyz Narcos, in Ghigliottina, e anche di Gué Pequeno, al suo fianco in YHWH, dove ancora una volta Dio viene tirato in mezzo senza possibilità di uscirne illeso, sono una sorta di ulteriore certificazione impressa a fuoco su traccia, passando per il rock’n’roll, quasi elvisiano di Hellvisback 2, complice Alex Britti, a sua volta alla sei corde anche su A Dio, o quello di Criminale, dove il tema è quello appunto della musica e la cultura vista come un crimine, a chiudere suoni latini e un po’ di quell’hardcore che così tanto è stato associato al marchio Salmo sin dai tempi dell’underground, penso al brano che regala il titolo al tutto, Flop, o a Fuori di testa o alla conclusiva e molto ironica Aldo ritmo. A sintetizzare il tutto i neanche due minuti di Vivo, un monologo di Josafat Vagni, attore tra gli altri di Mondocane, che parla di fallimento e di fallimento oggi, nell’era degli stream, delle view e dei like. Un colpo di genio in mezzo a colpi di genio.

Impossibile stilare una classifica del meglio o del peggio, perché il peggio non è presente e perché, tra il meglio, la grande varietà dei generi non consente questo tipo di effimere operazioni. Quel che però è evidente è che a Salmo, artista, poco interessa di essere conciliante anche col suo stesso pubblico, di fargli l’occhiolino e cercare di tirarlo dalla sua parte con trucchetti che, immagino, potrebbe serenamente fare. Niente sconti alla cassa, l’ascolto di Flop prevede attenzione, buona predisposizione a farsi piegare a metà dal mal di fegato, salda volontà nel non guardare più al mondo per come lo conosciamo e ce lo hanno cantato negli ultimi mesi alla medesima maniera. Poi, è chiaro, si può sempre tornare a esaltarsi per la trap, l’itPop o quel che passa il convento, ma a volte non esiste altra soluzione che ficcarsi due dita in gola per tirare fuori tutto quello che ci opprime lo stomaco.

Male male? Tutto bene, no?

Male male? Tutto bene, no?

Male male, male male, male male, hey.