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“Goldfinger, lei si aspetta che io parli?”.
“No, mister Bond, io mi aspetto che lei muoia!”.
È il 1964 e Sean Connery si ritrova per la terza volta nei panni di James Bond in una pellicola che diventa bussola, riferimento e spartiacque per la saga più celebre dell’intera storia del cinema.
Se si dovesse scegliere una sola pellicola-simbolo dell’intero franchise bondiano, la scelta cadrebbe su “Goldfinger”. Il film è il primo a imprimere una struttura/format poi divenuta definitiva nelle seguenti pellicole, il primo a ricevere un Premio Oscar (per i migliori effetti sonori, ndr.) e il primo ad avere una canzone-guida capace di scalare le vette delle chart di mezzo mondo. “Goldfinger” è un prodotto cinematografico agilissimo, glamour, ironico ed efficace che regge l’onda d’urto del tempo con eleganza pressoché immutata. Probabilmente non è la migliore spy-story della serie, ma è la più iconica, quella senza la quale forse oggi James Bond semplicemente non esisterebbe.
Sofisticato e felino, pericoloso e sexy, il Bond di Connery diventa un ‘topos’ inscalfibile dell’immaginario di celluloide: con “Goldfinger” esplode in ogni angolo del pianeta la Bondmania, quella speciale attenzione collettiva che si è riverberata, nei decenni, anche sulle pellicole interpretate da George Lazenby, Roger Moore, Timothy Dalton, Pierce Brosnan e Daniel Craig.
Quasi sessant’anni (e oltre venti film più tardi) si è avverata la profezia del villain Auric Goldfinger del 1964, un augurio definitivo e solenne: “No, mr. Bond, io mi aspetto che lei muoia!”. Il paradosso è che 007 pone fine alla sua vita terrena al termine di un film il cui titolo suona come una beffa, “No Time To Die”, non è tempo per morire.
Dal 1962 ad oggi nessuno era riuscito a sbarazzarsi dell’agente segreto britannico, nonostante i ripetuti tentativi di Blofeld e della sua Spectre, dell’organizzazione Quantum, di narcotrafficanti, di dittatori sanguinari, di killer dalla pistola d’oro, di tycoon spietati e di villain del calibro di Dr. No, Emilio Largo, Hugo Drax, Max Zorin e Le Chiffre.
Da alcuni giorni, decine di criminali internazionali possono tirare finalmente un sospiro di sollievo: l’agente più temibile dell’MI-6, l’uomo che ha salvato una ventina di volte il pianeta da disastri atomici e conflitti militari, viene finalmente liquidato con un grappolo di bombe lanciate – e qui la faccenda rasenta il tragicomico – da una contraerea della flotta navale britannica. Proprio lui, il Comandante James Bond della Royal Navy inglese, muore per mano di Sua Maestà, figura per la quale ha prestato il suo “servizio segreto” per oltre mezzo secolo.
Presentato il 29 settembre 2021 alla Royal Albert Hall di Londra e proiettato in 54 Paesi a partire dal giorno seguente, “No Time to Die” ha scalzato ogni altro film dalla cima degli incassi cinematografici degli ultimi cinque giorni e non ha ancora debuttato negli USA e in Cina, i due mercati più imponenti.
Con poco meno di 5.000 giorni e ben quindici anni vissuti nei panni dell’agente 007, Daniel Craig è il più longevo James Bond nella storia della saga ufficiale, avendo battuto i record di Roger Moore (4.526 giorni e 12 anni) e Sean Connery (nove anni, eccezion fatta per “Mai Dire Mai”, pellicola non ufficiale del franchise).
Il quinto film con Craig nei panni della spia britannica è stato certamente il film più atteso dell’intera saga. Complice la pandemia e il desiderio di vedere l’attore vestire per l’ultima volta lo smoking di 007, la pellicola ha stimolato l’attenzione di tutto il pubblico internazionale, anche per via del fatto che è il kolossal più lungo del franchise, con una durata di oltre due ore e quaranta minuti. Per permettere al pubblico internazionale di comprendere fino in fondo il senso della fine del ciclo-Craig e della sua pentalogia iniziata nel 2006 con “Casino Royale”, i produttori Barbara Broccoli e Michael G. Wilson hanno messo in campo ogni possibile arma per liquidare il mito-007 e gli ingredienti della sua leggenda. Per essere ancor più chiari ed espliciti, in un solo colpo i producers bondiani hanno polverizzato James Bond in 007 mosse:
- 001) decimato tutti gli affiliati della Spectre (organizzazione criminale che si vantava di “avere uomini ovunque”, proprio come Amazon e Interflora) e ucciso il suo leggendario capo, l’ineffabile Ernst Stavro Blofeld;
- 002) trasformato la segretaria Moneypenny in un noiosissimo travet con stipendio fisso e buoni-pasto;
- 003) condotto alla morte Felix Leiter, agente della CIA e migliore amico di Bond;
- 004) esposto Bond a due rifiuti da parte di altrettante donne, non più Bond-girl ‘decorative’ ma frizzanti agenti dell’intelligence inglese;
- 005) trasformato Bond in un ‘family man’ con tanto di compagna/moglie con prole (proprio così: una piccola Bondina in età da primary school);
- 006) gettato un’ombra di sospetto sull’integrità di M, inossidabile figura di vertice dell’MI-6;
- 007) ucciso James Bond.
“No Time to Die” è un film spiazzante, naturalmente: solida e ben congegnata, la pellicola vanta una regia vigorosa, differenti registri narrativi (dall’horror al film d’autore francese) e, soprattutto, una quantità enorme di citazioni dei precedenti film della saga, ma – come è evidente – rappresenta anche un piccolo grande shock per il fan e per il grande pubblico. L’agente segreto inglese viene qui decostruito e ricostruito ma, a ben guardare, l’operazione condotta intorno alla figura di Daniel Craig, può essere assimilata ad una “mise en abyme”. Chi scrive, nel conversare con la professoressa Paola Villani – docente di Letteratura italiana e fondamenti di retorica per la comunicazione e di Travel Literature dell’Università degli Studi ‘Suor Orsola Benincasa’ – ha provato a dare una spiegazione ad una scelta registica, produttiva e autorale apparentemente incomprensibile. “Soprattutto nel mondo dell’arte e della letteratura europea – spiega la docente napoletana – l’espressione francese ‘mise en abyme’ indica quella speciale tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola duplicazione di sé stessa, o una sua sintesi. Quella di Craig è, cioè, una ‘saga nella saga’, una sintesi dell’intera vicenda umana e professionale di James Bond”, dalla conquista della sua licenza di uccidere in “Casino Royale” e fino al suo epilogo in “No time to die”.
“Mise en abime” o “Mise en abîme” o ancora “Mise en abysme”: l’espressione “messa in abisso” è stata adottata da André Gide per identificare un espediente che prevede la collocazione di una sequenza esemplare che condensi in sé il significato ultimo della vicenda in cui è collocata e a cui rassomiglia, come avvenuto in opere di William Shakespeare o Federico Fellini: la pentalogia di Daniel Craig definisce l’intera esistenza di 007, la sua vita, le sue origini, i suoi incontri e le sue esperienze personali. Una sorta di “effetto Droste” in cui il protagonista è 007: una immagine che include un’altra piccola immagine di sé stessa. Questa piccola immagine ne contiene una versione ancora più piccola e così via. Sulle confezioni del cacao olandese Droste è presente un’immagine elaborata nel 1904, in cui un’infermiera tiene in mano un vassoio con una tazza e una scatola della stessa marca, sulla cui etichetta c’è la stessa infermiera con un vassoio e con una tazza e una scatola di cacao Droste. Basta sostituire l’infermiera con James Bond e il gioco è fatto.
“No time to die” segna la morte di James Bond, personaggio di finzione inventato negli anni Cinquanta da Ian Fleming. Pur non avendo mai fatto morire il suo personaggio più celebre, il giornalista, scrittore ed ex-agente segreto inglese aveva già immaginato un futuro per il suo 007: Bond ritornerà perché, dopotutto, “si vive solo due volte”.