Oggi siamo al non ritorno, al trionfo degli sboroni, degli esagerati, in missione per conto di se stessi

Viviamo in un tempo di allucinati, di esagitati che definire sopra le righe è riduttivo


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Il perbenismo borghese figlio del moralismo cattolico non sarà stato il massimo ma costituiva il collante di una società civile. Dove per civile s’intende non la continuazione della politica con altri mezzi ma il saper stare al proprio posto nel segno di un rispetto formale. Cosa di cui oggi si avverte un bisogno lancinante e patetico, risorgimentale da Libro Cuore. Funzionano gli arroganti, i tracotanti che misurano la propria consistenza a numeri da social. La crisi civile è lunga, data da lontano, si vedeva già ai tempi della Milano da bere prima che i giudici di Mani Pulite prosciugassero il bicchiere. E sarà stata anche una macchinazione, anzi lo è stata, ma non senza presupposti, non senza la cancrena dove incidere: già allora se un politico ladro finiva in galera, all’uscita i colleghi gli dicevano: la nostra stima per te è aumentata. Specie se non aveva cantato. Poi anche i magistrati si sarebbero rivelati personaggi mediocri, sensibili alle lusinghe della politica e degli intrighi e soprattutto alla strafottenza di quelli che non sbagliano mai e stanno in missione per conto di Dio. Il Paese, all’epoca, osservava esterrefatto la faida fra i truci padreterni in toga che dicevano “lo schiaffo dentro e ce lo lascio finché non l’ho sfasciato”, e l’ilare, ma feroce, cavalier Berlusconi che alle cacciatrici di dote diceva sorridendo: ascoltate il mio consiglio, sposate un miliardario. E candidava veline, escort e igieniste dentali simili a pornostar.
Da lì non fu altro che un precipizio, con i dibattiti televisivi sempre più simili a risse, i reality show come arene gladiatorie, il trionfo della volgarità da trivio, da bettola, c’è un libro di Umberto Piancatelli, uscito qualche anno fa, dal titolo programmatico “Il peggio della tivù” che mette insieme 60 anni di telespazzatura: dura 600 pagine, in caratteri minuscoli. Oggi siamo al non ritorno, al trionfo degli sboroni, degli esagerati in missione per conto di se stessi. Coi politici non si può discutere, sono invasati, minacciosi, non rappresentano il Paese, la società, i cittadini ma solo i loro personali affari, neanche del partito-cosca, e non si danno più la pena di nasconderlo. Uno, un frequentatore di salotti televisivi del PD, per la strada si sente apostrofare da una donna, torna indietro, la strattona e le sibila: ti va bene che non sei un maschio. Altri si sfogano con insulti irriferibili o messaggi social allucinanti. C’era l’altra sera a Quarta Repubblica un oscuro tipo con la crocchia, ex grillino approdato agli utilissimi Verdi europei: insomma uno di quelli “basta che ci sia posto”. In collegamento, eruttava slogan, cazzate da centro sociale, ma se qualcuno si azzardava a formulare un discorso improntato a logica si contorceva in pantomime infantili, rideva, agitava le braccia, roteava il dito alla tempia come per dire: questo è deficiente. Anche l’ex portasocial della Lega, Luca Morisi, finito nei guai per storie turpi, ha così commentato la sua disgrazia: non ho fatto del male a nessuno. Davvero non ha danneggiato, come minimo, il partito per cui agiva e il suo segretario? Ma Salvini, senza imbarazzo, gli ha mandato fraterni auguri, “resti un amico”. E tutti lo stanno esaltando, il Morisi: un ragazzo splendido, un’anima nobile, un tesoro!
A segnare un salto di qualità, una decina d’anni orsono, fu il comico Beppe Grillo che fondò una setta con le parole d’ordine: onestà, civiltà, trasparenza. E per chiarire meglio il concetto, sbraitava: “Vaffanculo, merde, stronzi, cadaveri putrefatti, vi veniamo a prendere, vi facciamo fuori”. L’hanno votato a milioni, lo trovavano simpatico, metteva una sorta di sconcia allegria. Poi a finire con un’accusa di stupro di gruppo è stato il figlio e lui ha sbroccato: giornalisti di merda, ladri, farabutti, fatevi i cazzi vostri.
I giornalisti non sono da meno, un narcisetto di seconda fila, del Fatto Quotidiano, viene sorpreso a saltare la fila per vaccinarsi, mentendo quanto a emergenze familiari ma in piena bufera non trova di meglio che commentare: rosiconi, mi invidiate perché sono famoso. Un’altra, parigrado, ex fidanzata, perché Dio sempre li accoppia, può dire dei novax che li vorrebbe ridotti “a poltiglia verde” e se le fanno notare che è una idiozia, replica: io ho un milione di follower, voi quanti? C’è un insopportabile imbecille diventato celebre per il livello becero delle sue provocazioni. A una soubrette ha detto: taci, fallita, che non hai neanche figli. Nessuno lo ha ripreso, nessuno lo ha sanzionato: con che faccia si ripresenterà, la sera, dai figli suoi? Ma probabilmente ne vanno fieri e hanno già assorbito l’educazione paterna.
Tempo di allucinati, di esagitati che definire sopra le righe è riduttivo. L’influencer medico Burioni ha detto che chi si fa il tampone invece che il vaccino puzza, certi suoi colleghi vogliono rinchiudere in manicomio gli scettici o torturarli e un sindacalista trova che vadano spazzati via a cannonate alla maniera di Bava Beccaris. Tutto apertis verbis, meglio se in diretta. L’importante è esagerare, come cantava Jannacci. Tra quelli che esagerano, l’allenatore bellimbusto Mourinho, detto “Mou”, famoso per la presunzione: appena arrivato alla Roma ha subito cominciato a dare i numeri, persa la prima partita con la Lazio si è atteggiato a genio incompreso, ostacolato dal mondo fetente. Non si salvano neppure i sindacalisti, il tempo del moralismo populista è finito anche per loro. A Firenze ce n’è uno, dei Cobas a sinistra della rivoluzione d’ottobre, di quelli che flirtano con l’estremismo nel segno della lotta di classe: di giorno ai cortei per i disoccupati, di sera rientra nella casa di un disoccupato cui non paga l’affitto da 4 anni e ai giornalisti che lo interpellano ringhia: sei uno sbirro? Vai a lavorare, coglione, ti metto le mani in faccia. Sono andati dal sindacato proletario a chiedere spiegazioni, e gli hanno sbattuto la porta in faccia.
C’è poi questa coppia di influencer, cioè affaristi digitali, per dire bravi a cavar soldi dalla fuffa della comunicazione pubblicitaria e autopubblicitaria, conosciuti come i Ferragnez: pronti a cavalcare ogni tigre, a sbandierare tutti i valori dell’agenda globalista, ma appena gli vai contropelo scoprono una aggressività volgarissima e sospetta. Pare stiano per lanciare una sitcom, i Ferragnez, come gli Addams. Anche il paparazzo dei vip Fabrizio Corona, uno che in vita sua non ha mai scattato una foto ed è finito dentro per tre condanne definitive con 73 capi d’imputazione, può dire di sé: sono un martire, sono un nuovo Cristo. Di solito lo tengono a cuocere qualche mese, poi il Tribunale di sorveglianza lo rimanda a casa, lui per ringraziamento fa il dito medio e immediatamente si rinfila nei casini, aggredisce qualcuno, minaccia qualcun altro. “Ma è un drogato” si dice “va capito, va aiutato”. Questi sono i tipi che funzionano, “creano reddito” come vuole il comandamento del postliberismo malavitoso. Del resto, le formule alla vasellina, dall’ipocrisia morbida, le aveva già sistemate proprio il nostro Berlusconi col “mi consenta”, che stava a significare: mi consenta di parlare solo io. Tronfi, spocchiosi anche nel fallimento, specialmente in quello. Il giovane conduttore Ale Cattelan viene da un flop epocale su Rai 1 e per tutta risposta fa una conferenza stampa di congedo dove non finisce di celebrarsi, attacca i giornalisti, è talmente insopportabile che una di Repubblica non resiste e gli domanda: ma lei si mette mai in discussione? Ale il giovane non ha risposto ma l’ha guardata con vago disprezzo, come a dire: ma questa chi è, chi la conosce? Come osa?