Auguri a Marco Masini in concerto all’Arena di Verona, trent’anni di Malinconoia

Voglio festeggiare con lui questo traguardo e ho deciso di fare una cover di un mio vecchio pezzo, scritto per un libro


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Marco Masini sta per festeggiare all’Arena di Verona, in buona compagnia con tanti amici e colleghi, i trent’anni di carriera. Lo fa nella modalità che questi tempi balzani ci hanno in qualche modo imposto, con un paio d’anni di ritardo, era a Sanremo 2020 che aveva presentato la sua antologia con duetti e quell’anno sarebbe dovuto essere quello del suo trentennale.

Ho una stima profonda del Masini artista, uno capace di crearsi una sua personale poetica talmente riconoscibile da aver generato un aggettivo, “masiniano”, e capace anche di evolversi come pochi altri, sempre basculando nel campo del pop, ma crescendo, nelle composizioni come nei temi trattati nei testi, come in effetti un qualsiasi uomo dovrebbe fare, abbandonando quindi certi giovanilismi e abbracciando a piene mani una età matura, penso alle recenti Che giorno è, Spostato di un SecondoIl Confronto, del resto già ampiamente anticipate da brani quali L’Italia o Scimmie, rispettivamente oltre dieci e venti anni prima. Su tutto uno stile, e anche una voce, che non solo non ha perso di smalto, ma semmai è andato iconicizzandosi sempre di più, unicum in un’epoca di omologazione e omogeneizzazione.

Non sarò a Verona, seppur vorrei esserci, come cantava il suo amico e collega Raf in una non troppo celebrata Vita storie e pensieri di un alieno, “la vita non va sempre come vuoi, sempre dove vuoi”, ma ciò nonostante voglio festeggiare con lui questo traguardo, un traguardo che io avrei visto meglio celebrato allo stadio, ma siamo in pandemia, prendiamo quel che riusciamo a ottenere. Marco nel mentre l’ho conosciuto, intervistato più e più volte, siamo diventati amici, e tifando entrambi squadre di calcio con alterne fortune (dico alterne, almeno nel mio caso, come forma di augurio), rispettivamente Fiorentina, lui, e Genoa, io, ci facciamo grandi chiacchierate su quel che non va e potrebbe andar meglio, la testa nel pallone. In un mondo che è molto falso, costruito, che guarda spesso a interessi e tornaconto Marco si staglia come una persona vera, e questo mi sembra già di suo un merito incredibile, nel suo caso accompagnato da un talento cristallino, trent’anni e passa di carriera lì a dimostralo. Trent’anni da festeggiare, appunto. E per farlo ho deciso di fare una cover, o meglio di fare una cover di una cover. Quella che segue è infatti una cover di un mio vecchio pezzo, scritto per un libro, una antologia che si presentava come un dizionario di nuove parole italiane, nel quale coverizzavo, e due, Malinconoia, parola che Masini ha inventato per un suo brano, poi divenuto a sua volta titolo eponimo di un intero album, appunto Malinconoia, del 1991. Di questo mio aver scelto Malinconoia come parola della vita per un dizionario italiano lui, Marco Masini, non sa nulla. Non gliel’ho mai detto, senza per altro un motivo che non fosse che fino a oggi non ci avevo neanche io stesso più pensato. Il motivo della mia riscrittura, invece, è che i tempi son passati e passando son cambiati, e alcune cose che scrissi all’epoca oggi risulterebbero abbastanza incomprensibili. Quindi ci ho messo su mano.

Bando alle ciance. Partiamo.

“La vita non è qui, sui trampoli di un bar, in questo venerdì che sporca la città. La vita non è qui da mezzanotte in poi, nei tacchi e nei vestiti, negli occhi insonnoliti di travestiti eroi…” così parecchi anni fa blueseggiava rauco Marco Masini, ai tempi sorta di Amy Winehouse con meno capelli in testa e una sensualità tenuta lievemente più a bada, in un’epoca pre-politicamente corretto e anche pre-presa di coscienza di come a volte il politicamente scorretto possa far danni veri, se usato male, in cui si poteva tranquillamente dirgli che, con tutto quel suo cantare cupo e disperato, portava un po’ sfiga senza correre il rischio di essere giustamente  messi al bando, stavolta a ragione.

Prima anche del suo Vaffanculo, risposta diretta e perfetta a quelle malelingue, perché il politicamente scorretto, se ben usato, è davvero bello a vedersi e sentirsi, del suo conseguente ritiro, del suo ritorno con vittoria a Sanremo, anno 2004 con L’uomo Volante, del suo sodalizio con Umberto Tozzi, dei suoi altri Festival di Sanremo, dei suoi altri importanti album e di quel che è stato poi, non è mai bene riscrivere qualcosa tenendo troppo conto del futuro. Io non sono mai stato suo fan in senso stretto (fatta eccezione proprio per la breve parentesi fanculesca, arrivata, va detto, almeno dieci anni prima dell’alzata d’ingegno di Beppe Grillo, e riproposta nell’ultima antologia 30+1 in duetto con Luca Carboni, un altro artista gigantesco), e non sono neanche mai stato habitué dei trampoli dei bar il venerdì sera (dalle mie parti i bar non hanno trampoli, solo per questo…), ma da che ho sentito questa parola l’ho amata alla follia, al punto da indicarla qui, come mia parola italiana preferita. L’ho amata per tutta una serie di motivi sbagliati, che ovviamente e evidentemente ora andrò pedissequamente a elencare.

Primo, mi piaceva l’idea di una parola nuova, inventata per l’occasione e addirittura assurta a titolo dell’album di un cantante pop (massima elevazione possibile per una parola, come la santificazione stessa della parola Pop da parte degli unici dei del nostro tempo così laico, gli U2, avrebbe dimostrato di lì a qualche anno, loro che, a proposito di parole inventate, giusto nel 1993 di Vaffanculo, contenuto nell’album T’innamorerai, sforneranno quel ZooRopa, fratello minore non solo anagraficamente di Achtung Baby, che darà indicazioni piuttosto precise sul nostro futuro prossimo). Secondo, mi piaceva come suonava, così sghemba, irregolare, quasi difficile da pronunciare, forse proprio perché è una parola serie e ha il dovere di creare nel suo utilizzatore la sensazione di disagio di chi, in qualche modo, della malinconoia è vittima. Terzo, la parola malinconia è stata resa, ai miei occhi, inutilizzabile ai tempi del Romanticismo, e ai giorni nostri, con l’arrivo della depressione, è diventata quasi un taboo, la depressione è impronunciabile, diciamolo, quindi si parla di malinconia, di mal di vivere, per non parlare della parola noia, resa out dalla voce del Califfo che biascica, stonata, “tutto il resto è…”, con quel che tutti sappiamo riguardo al fraintendimento onomatopeico con gioia.

Quarto, la vedevo come una incarnazione di quel mood tutto provinciale di chi sta lì, a piangersi un po’ addosso perché non ha qualcosa, o perché ce l’aveva e l’ha perso, o perché ce l’ha ma non lo sa. All’epoca in provincia ci vivevo, e come un John Mellecampa qualsiasi sognavo di andarmene sgommando in sella a una Harley Davidson, anche solo parlarne o sentirne parlare mi creava disagio, ma disagio vero. Quinto, mi sembrava la sola traduzione italiana possibile di quella che, in effetti, è la mia parola preferita in assoluto, parola appartenente a un idioma straniero, il portoghese, nella sua versione brasiliana: saudade. Saudade ancora non giustificata, perché nel 1991, anno di uscita di Malinconoia, io ancora vivevo nel posto dove sono nato e poco conoscevo ancora del mondo circostante, per altro, quindi più una saudade in potenza che in atto, ma pur sempre saudade. O una forma preventiva di saudade, come in certi versi di Baglioni, un altro che in gioventù quanto a cupezza si dava parecchio da fare, capace di cantare la fine di un amore ancora non iniziato (“adesso che ancor prima di trovarti forse ti ho già perso”, aveva cantato solo pochi anni prima in Amori in corso), anticipazione di quella che sarebbe poi stata la mia modalità costante, senza per altro avere la mia saudade un vero luogo fisico di riferimento, scappato come ero dalla mia terra natia.

Ecco, se mai dovessi indicare una parola, una sola parola, che mi rappresenti nella nostra lingua, non potendo usare saudade, direi Malinconoia, non ho dubbi. Qualcuno potrebbe aver da ridire, perché anche Malinconoia, a voler essere pignoli, non esiste nel nostro vocabolario, ma Masini è fiorentino, e l’italiano se lo sono inventati loro, no? Malinconoia, la nostra saudade.

A dimostrare che la mia teoria non è poi così viziata di personalismi scollegati dal reale, arrivano proprio le illuminate liriche del Masini malinconico (o malincoannoiato? O malinconoioso, forse?): “La noia è come il blues ti fa pensare a Dio, leggera come un gas che penetra il tuo io, la noia è nostalgia di un posto che non c’è.” Io, per dire, quel posto di cui ho nostalgia ce l’ho addirittura, e si trova all’ombra del Monte Conero, condizione privilegiata di chi ha ben chiaro nella mente cosa voglia dire avere delle radici ben piantate per terra, anche se in riva al mare, anche senza bisogno di indossare la maglia numero dieci di una squadra di calcio durante il periodo del Carnevale, incurante di uno scandaloso conto in banca e dell’amore di milioni di fan.

Quindi la mia parola preferita è malinconoia, che il mio ottuso pc continua a correggermi automaticamente in malinconia, ignaro di cosa sia la poesia. Anche per questo, ma non solo per questo, tanti auguri, Marco, al prossimo album di duetti mi prenoto un featuring, non credo serva indicarti per che canzone.