La Ragazza Di Stillwater, una tragedia americana che fa pensare al cinema di Clint Eastwood

Dal 9 settembre in sala il film ispirato al caso di Amanda Knox, diretto dal regista di “Spotlight” Tom McCarthy. Un’opera densa e matura sulla colpa e il destino, sulle impossibili seconde occasioni e l’ineluttabilità del caso. Matt Damon al suo meglio

La Ragazza Di Stillwater

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Qualcuno prima o poi dovrà prendersi la briga di scrivere un elogio di Matt Damon. La Ragazza di Stillwater (Stillwater, 2021) potrebbe essere l’occasione giusta per farlo, così da celebrare le qualità di un attore giunto a cinquant’anni nella sua piena maturità, con la sua recitazione precisa e minimale, senza i virtuosismi stilistici e camaleontici d’un Leonardo DiCaprio o un Christian Bale, assai meno appariscente, più vicino agli interpreti asciutti del cinema hollywoodiano di una volta.

E proprio per questo, diversamente da colleghi più celebrati, in grado di incarnare personaggi profondamente americani, che nei loro tratti riescono a rappresentare il carattere di un paese e a sintetizzarlo simbolicamente. Pensiamo a The Martian, in cui è il pioniere che colonizza addirittura un altro pianeta, sul quale porta l’ottimismo industrioso, il senso dell’avventura e dell’ironia che costituiscono elementi portanti di un certo modo di essere americano. Un attore che riesce a mimetizzarsi adeguatamente nel cinema di genere (la saga di Jason Bourne, in cui però non ha mai l’aria metallica di un James Bond) e, allo stesso tempo, capace di riflettere consapevolmente sulla sua stessa classicità, indagandone i limiti e muovendosi oltre di essi. In film come Hereafter di Clint Eastwood, in cui lambisce il sovrannaturale, o muovendosi nei territori apertamente sperimentali di un’opera astratta ed enigmatica come Gerry di Gus Van Sant.

La Ragazza Di Stillwater, del sempre più bravo Tom McCarthy, autore del premio Oscar Il Caso Spotlight e del sottovalutato Timmy Frana, gli offre un personaggio indimenticabile, costruito sulla misura dei suoi mezzi recitativi. Bill Baker è un uomo qualunque dell’America profonda, originario dell’Oklahoma, operaio petrolifero, una vita passata a scavare buche per il paese, vedovo, ex alcolizzato, padre assente di Allison (Abigail Breslin), con cui ha rapporti molto tesi.

Al punto che la figlia, pur di liberarsi di lui, ha preferito andare a studiare in Francia, a Marsiglia. È lì che vediamo giungere il protagonista: dopo pochissimo capiamo che questo è solo uno dei suoi tanti viaggi negli ultimi cinque anni, per visitare in carcere la figlia, condannata per l’omicidio di un’altra studentessa con cui aveva una relazione (chiare le assonanze con il caso di Amanda Knox, anche alla base di alcune polemiche dopo il passaggio al festival di Cannes del film). Abigail si è sempre dichiarata innocente. E quando Bill viene a sapere dell’esistenza di un tizio che si sarebbe vantato dell’assassinio impunito d’una ragazza, da perfetto americano intraprende un’indagine fai da te che si preannuncia difficilissima, in un paese di cui non conosce lingua, abitudini, cultura.

Fin qui La Ragazza Di Stillwater potrebbe essere il tipico thriller in cui l’eroe americano in terra straniera, mosso dalla granitica forza degli affetti, risolve un caso impossibile. Ma Tom McCarthy, autore di una sceneggiatura millimetrica con Marcus Hinchey, Noé Debré e Thomas Bidegain (usuale collaboratore di Jacques Audiard, che aiuta ad evitare qualunque rappresentazione stereotipica del “colore” locale), ha tutte altre idee.

Infatti, il film vira verso un’altra direzione. Bill, cercando qualcuno che possa aiutarlo a superare le barriere linguistiche e culturali, conosce Virginie (Camille Cottin), attrice madre di un’adorabile (e credibile) bambina di otto anni, Maya (Lilou Siauvaud). Bill resta in Francia, trova un lavoro, non perde le speranze di poter fare qualcosa per la figlia, ma allo stesso tempo, accanto a quella nuova, inattesa famiglia, riacquista il senso di sé stesso. E immagina, lui così credente, che Dio gli abbia voluto, in accordo con un fondativo mito americano, offrirgli una seconda occasione, per diventare finalmente il marito e il padre che non è mai riuscito ad essere.

Per una volta, le due ore e venti di durata de La Ragazza di Stillewater sono assolutamente necessarie, per toccare tutti i temi di un film stratificato, lineare nello stile come il suo protagonista, senza impennate formali, attento al necessario di una dizione pulita ed essenziale. Il film ricorda per certi versi il cinema migliore di Clint Eastwood, per quella capacità di scolpire personaggi segnati dal peso della colpa e dal destino, forti e decisi eppure intimamente fragili e dubbiosi. E quando, come accade in alcuni suoi film, vediamo troppe bandiere americane sventolare, capiamo che il dramma s’è ormai compiuto, in un racconto che, attraverso una storia che non può conoscere un lieto fine, dice qualcosa sulle contraddizioni, i limiti, e anche la grandezza dello spirito statunitense.

Dopo il lungo giro attraverso la storia sentimentale di Bill, che è anche il modo in cui il film racconta il confronto tra due civiltà e la capacità di un uomo di superare sé stesso, La Ragazza Di Stillwater ritrova il thriller, giungendo, diciamo così, alla soluzione del caso. Ma il thriller è problematico e decantato, e la soluzione non risolve nulla, anzi frantuma le illusioni restanti e costringe tutti i personaggi, il padre, la figlia, la nuova famiglia francese, a confrontarsi con le proprie ferite, i sogni spezzati e l’impossibile felicità.

Non puoi tornare indietro?” chiede Abigail al padre. “Non posso, ma questo non cambia le cose, è stato bello lo stesso”, risponde Bill. Con una maturità, un disincanto, la coscienza drammatica di sentirsi ormai straniero persino nella propria terra, che costituiscono la lezione, discretissima, di un film dalla vocazione adulta, che trova nel volto fiero e normale di Matt Damon l’interprete ideale.