Old, nel nuovo film di Shyamalan a invecchiare rapidamente è proprio il suo cinema

Un gruppo di persone è confinato su una spiaggia in cui il tempo scorre velocissimo. Il regista ha ambizioni da thriller metafisico e metacinematografico. Il risultato però è un goffo b movie horror e fantascientifico d’altri tempi

Old

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M. Night Shyamalan si è fatto affascinare dal graphic novel di Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters, Castello Di Sabbia, che ha trasposto nel suo nuovo lungometraggio, Old, cui ha modificato alcuni elementi, spostando l’azione dalla costa mediterranea della Francia a una non meglio identificata isola tropicale, aggiungendo un prologo e un epilogo che precisano la linea narrativa.

Il cuore del racconto resta il medesimo. C’è un gruppo di persone durante una vacanza da sogno in un meraviglioso resort, che viene indirizzato dall’insinuante proprietario dell’hotel verso una spiaggia segreta ed esclusiva, una piccola baia incontaminata tra le rocce. A comporlo ci sono tre famiglie: la prima è formata dai coniugi Guy e Prisca (Gael García Bernal e Vicki Krieps), che ha deciso di regalarsi un’ultima vacanza insieme ai figli Trent e Kara prima della separazione, legata a incompatibilità caratteriali insormontabili – in un dialogo sin troppo esplicito viene detto che lui è un assicuratore ossessionato dal futuro, lei una curatrice museale affascinata dal passato. Poi c’è la famigliola male assortita di un cardiochirurgo molto pieno di sé (Rufus Sewell) e la sua statuaria e ben più giovane moglie (Abbey Lee), con mamma (del medico), figlioletta e cagnolino al seguito. A chiudere la combriccola un’ultima coppia, un infermiere (Ken Leung) e una psicologa (Nikki Amuka Bird) che soffre di attacchi epilettici.

Dopo poco tutti si accorgono che in quella spiaggia c’è qualcosa di strano, reso evidente dall’improvvisa trasformazione dei tre ragazzini, che nel giro di pochissime ore crescono di parecchi anni. Il tempo in quell’angolo di paradiso scorre ad una velocità forsennata, al punto che nell’arco di poco più di ventiquattr’ore potrebbero essere tutti morti di vecchiaia. Non c’è nemmeno modo di fuggire: con un effetto da angelo sterminatore bunueliano, ma più eclatante, non appena qualcuno cerca di abbandonare la spiaggia, cozza contro una misteriosa barriera invisibile che lo tramortisce.

Old prosegue lungo la linea metacinematografica dei due precedenti film di Shyamalan, Split e Glass, che ne hanno rilanciato la carriera, anche al botteghino, dopo una fase di appannamento. Split, incentrato su un personaggio psicologicamente traumatizzato con oltre venti distinte personalità, incastona nella cornice del thriller un’analisi sul mestiere dell’attore e sui generi cinematografici corrispondenti a ogni incarnazione. Glass, d’altro canto, costituisce un’acuta riflessione sul genere per eccellenza del cinema spettacolare del nuovo millennio, quello supereroistico, e indirettamente sulle pulsioni proiettive e di identificazione degli spettatori con figure superomistiche.

Old prende di petto un tema connaturato alla natura stessa del cinema, che a partire dal dispositivo del montaggio è l’arte, come diceva Andrej Tarkovskij, di “scolpire il tempo”. E l’incredibile accelerazione del flusso temporale rende questa categoria apparentemente astratta qualcosa di palpabile, concreto, materiale. Come materiale è la crescita rapidissima e innaturale di Trent e Kara, prima bambini, poi adolescenti, infine adulti, che attraversano una incredibile mutazione non solo fisica, ma che concerne i pensieri, i desideri, le angosce, sottoposti ad una accelerazione travolgente e dolorosa. Tutto in Old comincia a correre, sconquassando vite ed equilibri emotivi di protagonisti sempre più sgomenti.

L’impostazione metacinematografica è confermata da altri elementi: la partecipazione dello stesso Shyamalan in un cameo che è ben più di un semplice vezzo, in un ruolo da osservatore che rimanda scopertamente alla sua funzione di regista e demiurgo. E poi anche il collegamento del diventare anziani all’indebolimento dei sensi, dalla vista all’udito, essenziali per la nostra esperienza cinematografica di spettatori.

Sulla carta, l’altro elemento intrigante è legato alla definizione di una paura quasi metafisica, legata alla imperscrutabilità priva di un senso umanamente comprensibile del miracolo del tempo impazzito. Un po’ come nel classico Gli Uccelli dell’amatissimo (anche da Shyamalan) Hitchcock, i protagonisti sono immersi in una situazione terribile e misteriosa, cui i personaggi sono in balia. E come gli uccelli di quel film osservavano dall’alto le piccole figure umane, come a suggerire appunto l’origine soprannaturale e inesplicabile di quella minaccia apocalittica, così in Old Shyamalan ricorre spesso allo stesso tipo di inquadrature, con i personaggi minuti, sballottati in una sorta di esperimento estremo da una divinità vendicativa.

Tutto questo però in Old resta soltanto sulla carta. Perché Shyamalan, invece di muoversi lungo la traiettoria di una narrazione allusiva e un’impaginazione visiva elegante e ambigua, punta tutto sul thriller dalle venature orrifiche, zeppo di colpi di scena esagerati, dettagli truculenti, personaggi sbozzati (e interpretati) con malagrazia, psicopatologie vistose e, in generale, una scrittura traballante (come la macchina da presa, che si muove senza posa e senza ragione). Il film non riesce a evolversi oltre la struttura di partenza, che resta quella elementare d’un b movie horror e fantascientifico degli anni Cinquanta e Sessanta, col piccolo nucleo di personaggi trascinato in un’avventura estrema e senza via di uscita, meccanismo che lo apparenta pure a un altro sottogenere fallimentare, il film catastrofico anni Settanta alla Airport.

Purtroppo nell’accumulo insistito di effettacci, rivolgimenti improbabili, colpi bassi a ripetizione, Shyamalan non riesce mai a rileggere i generi impiegati e dargli dignità formale. E l’aggiunta di una cornice dalla quale si comprende il perché dell’alterazione dello scorrere del tempo con tanto di spiegazioni parascientifiche priva Old, molto preoccupato di dover rassicurare alla fine lo spettatore, di qualunque ambiguità e ambizione da racconto metafisico.