Leggo che Jeff Bezos e suo fratello si faranno un giretto nello spazio, proprio a partire da domani, hanno messo addirittura in premio un posto ancora vacante all’interno della navicella spaziale che li ospiterà, anche se non ho idea di chi poi alla fine abbia vinto e sarà lì con loro.
Chiaramente chiamare navicella spaziale il mezzo a bordo del quale Jeff Bezos, per capirsi Mr Amazon, anche se ormai non è più dell’azienda che ha creato e del quale è azionista di maggioranza, andrà a zonzo per lo spazio è un modo molto vintage di esprimersi, poco pertinente, anche vagamente perculatorio. Perché se uno può permettersi, economicamente, da principio, e tecnologicamente, a seguire, di pensare di volare nello spazio, uno che è del 1964, quindi è nato e cresciuto nel decennio che si è concluso con lo sbarco dell’uomo sulla Luna, il piccolo passo per un uomo e grande passo per l’umanità che tutti conosciamo, allora la cosa andrebbe forse raccontata con un po’ più di avvedutezza, di precisione, ma se questo qualcuno è l’uomo più ricco del mondo, uomo alla cui ricchezza, confesso, ho in parte contribuito anche io, irrilevante, ai suoi occhi, immagino, ma non certo ai miei occhi, beh, non se ne esce, in me, che quando è caduto il muro di Berlino avevo già compiuto vent’anni, che sono cresciuto coi racconti dei partigiani, che ho cantato in coro Bella ciao sfilando nel primo corteo contro il Governo Berlusconi a Roma, mai coi padroni, scatta un senso di rivalsa sociale che scansate, almeno un po’ di cinico sfottò mi sembra il minimo.
Leggo quindi che Jeff Bezos e suo fratello si faranno un giretto nello spazio e anche pensando a Elon Musk che si appresta a fare altrettanto, Richard Branson penso sia già da qualche parte, lassù, gli occhi puntati su Marte, non posso che pensare che forse è la volta buona che il futuro torni a occupare un ruolo di prestigio nella nostra narrazione, e che però questa narrazione è del tutto sprovvista di una idonea colonna sonora.
Andiamo con ordine.
Lo spazio, la Luna, i marziani, gli alieni, ha sempre esercito un suo fascino potentissimo nei confronti dell’uomo. Ne erano intrise le culture e tradizioni dell’antichità, sono state rinverdite e aggiornate nel dopoguerra, durante quella che è stata la guerra fredda, metafora perfetta di chi era il nemico pronto a invaderci e da rimettere a posto, fasto della frontiera da scoprire e conquistare che gli USA hanno impacchettato a beneficio del resto del mondo, dopo esserne stati in qualche modo oggetto e vittima (non gli Stati Uniti, più chi quelle terre le abitava legittimamente). La fantascienza, così come in precedenza buona parte della letteratura fantastica, quella alta come quella di serie Z, era tutta dedicata a questo tema, e l’immaginario che ne è sortito è diventato a sua volta oggetto prima di interesse popolare, poi di culto generazionale. Pensate cosa è stata la saga di Guerre Stellari per noi nati negli anni Sessanta, così come in precedenza A come Andromeda e poi Star Trek, Spazio 1999 e via discorrendo. X Files, in seguito, ha ripreso i temi cari a Ai confini della realtà, nata nel 1959, seppur in maniera più organica e con una trama consequenziale, forte di due personaggi cardine come Fox Maudler e Dana Scully. Ma soprattutto pensate a che impatto nell’immaginario collettivo ha avuto un film come E.T. l’Etraterrestre, storia che ha intenerito anche i cuori più aridi, figlio legittimo di Incontri ravvicinati del terzo tipo e del suo semplicissimo giro melodico. Di colpo gli extraterrestri, un po’ come i robot, quelli umanizzati raccontati da Asimov o quelli vagamente darkeggianti finiti dentro i romanzi di Dick e i film di Ridley Scott sono stati inclusi nella nostra vita quotidiana, se non come dati di fatto, quantomeno come possibilità simpatica e innocua, male che ci fosse andato un alieno ci avrebbe infilato un sondino nel culo, ma quello che un tempo faceva paura di colpo è diventato familiare, usuale. Del resto, di colpo, di spazio si è smesso di parlare, o allo spazio si è smesso di guardare con il medesimo interesse di prima, l’esplosione dello Shuttle forse ultimo passo verso una sorta di “fermate le macchine” in tale direzione. In pratica, mentre il mondo diventava sempre più piccolo per merito/colpa della rete, anche quella in qualche modo profetizzata dalla fantascienza, vedi alla voce cyberpunk, come dai romanzi di fantascienza le astronavi sono cominciate a uscire di scena, di pari passo sono cominciate a sparire anche dai nostri orizzonti, o dai nostri sogni. Il mondo era più praticabile, più a portata di mano, perché mai guardare alle stelle?
Ma parlavamo di musica, giusto?
Per anni anche la musica ha inseguito quel sogno, e lo ha fatto nel modo più ovvio e forse scontato possibile, facendo cioè coincidere una idea di futuro e di alienità con l’elettronica. Inutile star qui a citare i Kraftwerk, il loro aspetto robotico e da catena di montaggio, come se la replicabilità e programmazione delle macchine fosse un passare la mano dell’uomo verso un mondo alienato più che alieno, le chitarre elettriche, per la cronaca, sono macchine al pari dei computer, non sono strumenti che esulino l’utilizzo di circuiti e prese della corrente. Era quella la musica che associavamo, più o meno legittimamente al futuro, e quando il futuro, almeno quello che veniva indicato come tale nei primi romanzi, nei primi film e anche nelle prime serie tv è stato raggiunto e superato, si pensi al 1984 di Orwell, al 1997 di Jena Pliskeen, al 1999 di John Koenig e anche al 21 ottobre 2015, data indicata dal display della Delorean guidata da Marty McFly. È rimasta quella anche quando di colpo di spazio si è tornato a parlare, anche in virtù del guardare allo spazio con cupidigia da parte dei nuovi tycoon, Bezos e Mask su tutti. Una sorta di bug, verrebbe da dire, come se di colpo tornassimo a pensare che domani potrebbero arrivare i marziani verdi, con la testa grande e e il corpo da lombrico sfigato, come se i robot tornassero a essere guardati non come a qualcosa di già presente, le Intelligenze Artificiali sono presenti e vivono insieme a noi, ma come a dei trabiccoli che si muovono in maniera meccanica e che parlano con la voce di Achille Lauro quando ancora non sapeva usare bene l’autotune. Siamo a un passo dai viaggi interspaziali, è ovvio, ma la musica è sempre la stessa, strepitosa, nel caso dei Kraftwerk, è evidente, ma decisamente non futuribile, anche perché in buona parte prodotta e incisa un numero consistente di anni fa.
È vero che Kubrick, in uno dei più bei film di fantascienza di tutti i tempi (lì erano presenti sia spazio che intelligenze artificiali, va detto), 2001 Odissea nello spazio, altro anno raggiunto e superato, ha deciso che a accompagnare le scene del monolite, è ricorso a Richard Strauss e alla sua Opera 30°, l’Also sprach Zarathustra che tutti conosciamo, magari, come nel caso di certi monumenti lasciatici dai Maya e gli Aztechi, o come le teste dell’Isola di Pasqua, è proprio al passato che tocca guardare per capire il futuro.