Toy Boy di Ornella Vanoni e Colapesce e Dimartino, sarà il tormentone radical chic dell’estate?

Non so se le nuove regole del politicamente corretto mi permettano di dire che la canzone con protagonista l’ottantaseienne Ornella Vanoni mi fa profondamente tristezza


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C’è una vecchia serie con Tim Roth, scritta da Samuel Baum, che mi sono rivisto credo per la terza volta. Tre stagioni, poi più niente. E dire che Tim Roth era stato uno dei primi attori hollywoodiani a finire in una serie Tv, prima di Netflix e compagnia bella, prima che le serie diventassero la nuova letteratura, ammantata di un’hype talmente alto da essere subito venuto a noia. La serie si intitola Lie to me, e narra le vicende del dottor Cal Lightman, a capo dell’omonima azienda, specializzata in riconoscimento della sincerità attraverso lo studio della facciale e quindi nello scoprire da piccole e impercettibili modifiche della postura facciale se una determinata persona sta mentendo o dicendo la verità. Scienza singolare, questa, di cui ignoravo l’esistenza, che nella serie viene raccontata con dovizia di particolari e il tutto supportato da esempi tratti dal mondo della cronaca, della politica, dello spettacolo. Genio sgradevole nei modi e efficacissimo nella lettura dei comportanti, Cal Lightman, è ambiguo, cinico, bizzoso, una sorta di rockstar apprezzata dalle forze dell’ordine e al tempo stesso del tutto incapace di stare alle regole, quasi allergico alle istituzioni.

Ovviamente le vicende di questa serie ruotano attorno a vicende investigative, perché Lightman è davvero in grado di capire se un determinato teste o indiziato sta dicendo il vero, per questo lavora quasi sempre a supporto della polizia, anche se quasi mai è la vicenda gialla a sostenere i singoli episodi, decisamente appoggiati sulla grandezza del personaggio, e di conseguenza sulla bravura dell’interprete.

Come spesso capita in queste serie, penso a una diametralmente opposta, almeno stando alla scrittura del protagonista, Castle, scrittore di thriller assoldato a sua volta dalla polizia come consulente, a fare da contorno al protagonista ci sono i comprimari, dalla figlia, in entrambi i casi la madre/moglie è assente, nel caso di Lightman morta, i colleghi, i poliziotti con i quali sia Lightman che Castle intrattengono un rapporto amoroso. Chiaro che avere in squadra un Big come Roth aiuti e non poco, anche Tin Star, serie successiva, Lie to me è del 2009, Tin Star del 2017, si appoggiava clamorosamente sulla sua faccia da schiaffi, la capacità di apparire sempre fuori fuoco ma al tempo stesso lucidissimo, una sorta di stralunatezza conturbante, del resto la storia di Jim Worth si dimostrerà sufficientemente assurda, lungi da me fare spoiler, andatevele a recuperare entrambe, sempre che non le abbiate già viste.

Nei fatti Cal Lightman è una sorta di glamourissimo grillo parlante, incapace di empatizzare con chicchessia, almeno in apparenza, avido lettore del mondo e di chi il mondo abita, scostante e votato al vizio, oltre che a non tenere fede alle promesse, ricorre nella serie una casa editrice che lo insegue per avere un libro profumatamente pagato in anticipo, come a più riprese si parla del suo vizio del poker, sapere leggere i bluff a occhio nudo è ovviamente illegale, ma anche tentazione troppo forte da non assecondare, uno dei tanti personaggi delle serie tv, non a caso se ne parlava appunto come della nuova letteratura, talmente vividi da sembrare reali, tridimensionali, tangibili e umanissimi.

In una delle puntate della nona serie, attenzione che ahimé spoliererò, Lightman finisce rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove Tim Roth avrà modo di esprimersi a livelli magistrali, lì malinconicamente a parlare con sua madre, o a picchiare a sangue suo padre, solo verso la fine si scoprirà che le allucinazioni di cui soffre durante l’episodio, allucinazioni che gli fanno appunto vedere i genitori, ormai morti, e più in generale rendono il suo approccio borderline alla vita ancora più borderline, dipendono da un fungo allucinogeno col quale vengono preparati dei muffin, non è importante che io spieghi altri dettagli, fungo allucinogeno, l’ergot, a suo tempo al centro della storia delle Streghe di Salem, allora nelle riserve di pane di Salem, e quindi causa di quella sorta di psicosi collettiva poi scambiata per stregoneria. Una storia simile, leggevo tempo fa, è successa a a Alicudi, nelle Eolie, anche se in quel caso a creare allucinazioni è stata la segale cornuta, con cui in zona facevano il caratteristico pane nero, segale cornuta infestata dal fungo claviceps purpurea, tanto allucinogeno quanto l’LSD. Un fenomeno andato avanti per decenni e decenni, si dice che a portare la segale cornuta sull’isola siano stati gli inglesi nell’Ottocento, giunti in loco per procurarsi assenzio e malvasia, e poi terminato negli anni Sessanta, quando i turisti hanno fatto capire agli isolani che quelle che loro credevano visioni e fantasmi altro non erano che allucinazioni indotte. So che detta così viene meno molta poesia, ma tant’è.

Ora, mettete da parte la bravura di Tim Roth e la genialità di Samuel Baum, fate, cioè, finta che io non abbia parlato a lungo di Lie to Me, non prima di esservi segnati il titolo della serie in questione e esservi mentalmente preso l’impegno di spararvela a tutto volume, concentriamoci sui funghi che contaminano il pane o i muffin, invisibili e nocivi, concentriamoci sull’idea assurda che uno possa compiere un gesto quotidiano e naturale come mangiare qualcosa di consueto e ritrovarsi a guardare le streghe o parlare con parenti morti da tempo, in casi estremi finendo poi arsi vivi nei boschi di Salem o entrando in una sorta di leggenda oscura come quella che aleggia da sempre su Alicudi.

Deve essere sicuramente stato così, mi dico, e me lo dico sicuramente perché fa caldo, sono a Milano e magari anche io, senza fughi e segale cornuta, sto perdendo di lucidità, altrimenti non si spiega come, volendo inserire Alicudi nel testo di una canzone, due autori stimati e stimabili come Colapesce e Dimartino siano finiti per scrivere Toy Boy, dove Alicudi e Filicudi fa rima con “tutti nudi”, cioè la mise che i due sopra e Ornella Vanoni, titolare coi due del brano in questione, destinato a seguire le orme di Musica Leggerissima e diventare quindi il tormentone radical chic dell’estate. Cioè, capisco il richiamo sirenesco del Dio denaro, vai di spot di Sky, della Regione Romagna, vai di ospitate a Propaganda Live, vai di singolo scritto per Rovazzi, Rovazzi santo Dio, ma senza funghi pronti a contaminare muffin e pane, mi chiedo, come può essere che due artisti con una carriera alle spalle possano pensare che basti essere ironici per far passare la qualsiasi come se niente fosse, poi inforcare la chitarra e ai concerti, i tanti concerti frutto proprio di questa nuova popolarità, eseguire il vecchio repertorio, decisamente di altro spessore e altra poetica? Ok, si scherza, si è leggeri, autoironici, ma non è che fare a gara con Orietta Berti in coppia con Fedez e Achille Lauro, a questo è destinato Toy Boy, Mille più nazional popolare, quest’ultimo più colto e raffinato, a quale canzone spopolerà nell’estate ci si guadagni molto, in termini di credibilità. Mi spiego, ognuno fa quel che gli pare, e ci mancherebbe pure altro, ma se stai troppo a guardare nell’abisso, non l’ho detta io per primo, sarà poi l’abisso a guardare te, e temo che ormai l’abisso è lì pronto per proporti una bella collaborazione.

Non so se le nuove regole del politicamente corretto mi permettano di dire che la canzone che ha per protagonista l’ottantaseienne Ornella Vanoni mi fa profondamente tristezza, e non certo per quelle sonorità brasiliane, la saudade e quella roba lì, di fatto credo che non andrei a vedere uno show del duo Colapesce e Dimartino neanche se come alternativa ci fosse lo spararmi un concerto dei Boomdabash, quello almeno non fa finta di essere altro che quel che è, un sicuro concerto nel quale la scaletta è composta di canzoni di merda.

Ora vado a riascoltarmi Unknown Pleasures dei Joy Division, almeno sarò triste perché questo voleva chi ha scritto quelle canzoni.