Cos’è il genio, lo si sa dai tempi di Amici Miei: è fantasia, intuizione e velocità di esecuzione. Però il genio, diceva Goethe, è anche la consapevolezza di esserlo. Però il genio può essere anche una giocata magistrale su un campo di calcio. E quindi un calciatore che ti piazza la palla dove nessuno pensa, che vede il gioco come nessuno, che pensa prima degli altri, anzi non pensa proprio, fa e basta, è un genio. E dunque uno che per tutta la carriera ti combina certe giocate geniali, è un genio. Pertanto, Gianni Rivera è un genio. Lo sanno tutti, lo ricordano tutti, il Gianni da Alessandria che quindicenne sul campetto di Linate al provino col Milan stregava Schiaffino e ammaliava Liedholm, pallone d’oro nel 1969, autore di partite magistrali, marcatore eroico nel macello argentino con l’Estudiantes, risolutore maestoso nel definitivo 4-3 contro la Germania in Messico, figlio putativo del paròn Rocco che litigava con Gianni Brera per il quale era “l’abatino” (“Rivera è la nostra Stalingrado”) capitano della Stella rossonera del 1979 e un sacco di altre cose tra cui la staffetta con Mazzola, il nemico carissimo, una sorta di divismo più subito che cercato, il gossip, vissuto con fastidio, in una sorta di anticipo sui tempi: oggi gli amorazzi tra calciatori e veline non fanno più notizia, quarantacinque anni fa la storia tra la stella del Milan e la soubrette Elisabetta Viviani, che gli diede una figlia nel 1977, faceva scoppiare i rotocalchi.
Il Gianni non era come gli altri. Giocava da genio come nessuno e parlava, altro che se parlava. Polemizzava in campo con l’arbitro-dittatore Lo Bello, fuori dal campo proprio con Brera l’aruspice, del quale tutti avevano paura, si faceva intervistare in tram dal fantasmagorico Beppe Viola, rompeva i coglioni e si beccava 8 giornate di squalifica per lesa maestà del sistema. Un mandrogno che non indulgeva in isterie ma la testa non l’abbassava mai. Neanche da politico, nella sua seconda vita. Figuriamoci se poteva tacere e subire al cospetto di Bruno Vespa che, qualche sera fa, gli chiedeva insinuante gracchiante: “E tu, Gianni, il vaccino l’hai fatto?”. “Non ci penso proprio” (gelo in studio). “Ma come – incalza Vespa, scandalizzato – ma proprio tu, ma cosa dici?”. E il Gianni, serafico: “Non ci penso proprio, sto benissimo e che non faccia bene lo dicono in tanti, le cose si cominciano a sapere, lo dicono anche tanti medici, però non li fanno andare in televisione, non li fanno parlare”.
Pareva finita lì, con il sacro sdegno di Vespa e gli altri ospiti, di fronte al quale Rivera si mostrava impermeabile, la faccia di un 78enne un po’ accartocciato ma in fondo sempre lui, soavemente acuminato, una provocazione ragionata come un assist a Pierino Prati. Invece il solito Burioni, questo Robespierre dei virologi, questo logorroico da tastiera, ovviamente non poteva lasciarla cadere. Burioni, col ciuffo fremente di furore come un salice sotto la tempesta. Burioni, la cui spocchia non conosce vaccino, uno che all’inizio irrideva i paurosi perché era più facile che li cogliesse un fulmine che il Covid, e poi si è riconvertito all’allarmismo più forsennato – e vantaggioso, visto che subito diventava arredo da “Che Tempo Che Fa”, implacabile ogni settimana. Ora, le arroganze, le cadute di gusto e di stile del luminare, a volte di irritante infantilismo, sono proverbiali e a lui va bene così, si è costruito il personaggio ed è chiaro che quelli come lui sperano che duri ad libitum; l’ultima uscita è stata minacciare (chi? Lui?) un nuovo lockdown in autunno per insondabili motivi dal sapore di profezia, anzi di astrologia.
Per cui Burioni si è immediatamente ricordato di essere il personaggio pubblico che è (e ognuno la intenda come vuole) e ha tentato di entrare il tackle sul Gianni: “Babbeo” gli ha twittato “grande sportivo, piccolo uomo”. Rivera di fronte a tanta protervia non si è scomposto per niente, così come non si disuniva in campo. Poi, il giorno dopo, invitato alla Zanzara da Cruciani, ha tenuto il punto: io il vaccino non lo faccio, e mia moglie nemmeno (non risultano molestie dal comprimario Parenzo, uno che lo tengono solo per far risaltare gli altri). Poi, interpellato sull’attacco di Burioni, ha risposto con la solita classe superiore: “Burioni? Mah, io non so proprio chi sia. Non l’ho mai sentito: pensavo a un burrone o a un grosso burro. Sarà uno che ha avuto un po’ di notorietà e ne approfitta”. E fin qui, niente di speciale. Ma, subito dopo, la giocata del fuoriclasse: “Io Burioni non lo conosco, ricordo Buriani che giocava con me nel Milan”.
Cos’è il genio? È il Necchi di Amici Miei, è Goethe, è Gianni Rivera. Lo spocchioso virologo dribblato, irriso, annichilito in scioltezza: è tutto vero, noi “casciavit”, cacciavite, tifosi rossoneri insomma, noi ce lo ricordiano Buriani con la sua cabeza biondo platino imperversare sulla fascia. Più di una vita fa, ma che vuol dire? I campioni non passano, i campioni, come i geni, si ricordano di essere tali e solo il Gianni poteva mettere al suo posto, vale a dire in panchina, meglio ancora negli spogliatoi, il “grosso burro” finito irrancidito. Burioni, da laziale, è abituato a esasperare i romanisti ma stavolta se l’è presa con uno più grosso di lui. Figurarsi se il Gianni “dell’armi onusto de’ nemici uccisi” poteva lasciarsi impressionare da questo tizio “che si vede è diventato popolare e ne ha approfittato”. Notate bene: Burioni pretende la vaccinazione erga omnes dal suo inesistente pulpito, Rivera si fa gli affari suoi, lascia libertà di scelta, come è giusto, e, se interpellato, risponde. La differenza, anzi l’abisso, sta tutto qua. E questa volta, siamo sicuri che anche l’acerrimo rivale Sandrino Mazzola avrà applaudito all’ultima magia del Golden Boy.