The Mauritanian, da oggi su Prime Video, trae la sua storia dal libro di memorie 12 anni a Guantanamo di Mohamedou Ould Slahi (interpretato dall’ottimo Tahar Rahim), un musulmano arrestato nel 2002 perché sospettato di aver giocato un ruolo molto importante nell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre. Verrà rilasciato più di un decennio dopo, riconosciuto innocente alla fine di una spaventosa odissea, incarcerato senza accuse circostanziate e senza prove nel campo di prigionia di Guantanamo a Cuba, torturato dai militari americani per estorcergli una confessione.
La storia alla base di The Mauritanian è ormai nota, talmente clamorosa e sgradevole da essere stata affrontata anche dal cinema tante volte da diverse prospettive. Da un film come Camp X-Ray, che racconta il tipo di relazione che si instaura tra una soldatessa e un prigioniero presunto terrorista (una chiave intimista capace di aprire uno squarcio sulla psicologia traumatizzata di un paese democratico che ha ceduto all’uso della violenza) a un’opera come The Report, che sceglie la via del cinema civile che denuncia, prove alla mano, la sistematicità del ricorso alla tortura, frutto non dell’impazzimento dei singoli bensì di scelte da ascrivere ai massimi livelli dell’amministrazione.
The Mauritanian vuole contemperare entrambe le esigenze, e lo si percepisce anche da uno stile in cui il regista Kevin Macdonald, forte della sua formazione da documentarista (che gli fruttò un Oscar nel 2000 per Un Giorno A Settembre, sulla strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972), mescola il formato ristretto e sporco delle scene di interrogatorio e tortura a Guantanamo – che cercano la forza della autenticità e della presa diretta – a quelle delle parti da legal drama in cui il ritorno al widescreen richiama anche metaforicamente il bisogno di fare chiarezza e di ammettere apertamente la verità.
La verità è quella che cerca l’avvocato Nancy Hollander (Jodie Foster, che ha vinto il Golden Globe per questo ruolo), storica attivista e spirito critico dai tempi del Vietnam che decide di patrocinare, ovviamente invisa a tutti, il caso di Mohamedou, incrollabilmente fedele al principio secondo cui tutti hanno diritto a una difesa. Dall’altro lato della barricata c’è il procuratore responsabile dell’accusa, Stuart Couch (Benedict Cumberbatch), militare di carriera scelto dai superiori anche perché nell’attentato dell’11 settembre è morto un suo carissimo amico. Nondimeno è un legale senza pregiudizi, saldo al principio dell’onere della prova, sebbene intorno a lui tutti lo invitino a procedere velocemente e senza troppi scrupoli.
Il film, per quanto nobile e mosso dalle migliori intenzioni, è inevitabilmente ripetitivo, sia per il ricorso a stilemi narrativi da vecchio cinema anni Settanta – a cui tornano sempre gli autori e i film americani che vogliono dimostrarsi impegnati e controcorrente –, sia perché, come dicevamo, la storia narrata è stata negli ultimi vent’anni sviscerata in ogni modo possibile e dunque l’opera di Macdonald pare giungere fuori tempo massimo.
Le perplessità dipendono anche dalla curvatura data al racconto: perché entrambe le parti, difesa e accusa, sono mosse dalla fedeltà incrollabile alla certezza del diritto. E infatti procede in montaggio parallelo la sequenza in cui i due legali scoprono la verità: da un lato la Hollander che legge la memoria scritta da Mohamedou, dall’altro Couch, che dopo aver a lungo battagliato ha finalmente accesso alle trascrizioni non emendate degli interrogatori al prigioniero, restando sconcertato dalle rivelazioni e decidendo di abbandonare una causa farsesca.
Tutto ciò però produce un effetto singolare. Perché sulla carta The Mauritanian è un film che senza sconti racconta il lato oscuro dell’America. Eppure i responsabili dei crimini restano sullo sfondo, indistinti e senza volto. Come senza volto sono i torturatori, mostrati nelle sequenze in flashback delle sevizie (dure ma effettistiche e ripetitive) sempre con indosso delle maschere, come se le crudeltà fossero da ascrivere non a un sistema e a degli uomini, ma a una sorta di maligna e anonima macchina della violenza.
Lo spettatore di The Mauritanian quindi finisce per ricordare solo i volti rispettabili dei due tutori della legge, che simboleggiano appunto la forza del diritto e l’incrollabile rettitudine nonostante tutto dell’America. Persino la testimonianza finale al processo di Mohamedou è un peana ai valori dell’Occidente – ha studiato all’estero, quindi possiede una formazione cosmopolita –, che gli ha insegnato a credere nella legge e nelle persone che la incarnano. Nonostante tutto quello che ha passato, il suo discorso non è all’insegna della vendetta, ma della pacificazione e del perdono. The Mauritanian è in fondo una storia positiva di resilienza, per usare una parola fin troppo popolare oggigiorno: quella di un uomo, Mohamedou – che infatti alla fine vediamo col suo vero volto, cantare felice – e quella di un paese capace di produrre gli anticorpi ai suoi momentanei smarrimenti. Che è una morale, viste le drammatiche premesse, forse troppo conciliante.