Morrison di Federico Zampaglione, tante luci e un’ombra

Il suo film è arrivato oggi nelle sale cinematografiche e la musica non poteva non esserne protagonista


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Oggi dovrei star qui a scrivere ancora una volta di femminile. Non perché io ne sia in qualche modo ossessionato, o almeno penso e spero non sia così, ma perché ancora una volta arriva una notizia che mi ammanta di imbarazzo e disagio. Esce infatti il cartellone di quello che un tempo era il Pistoia Blues Festival, e che al momento è il primo festival a chiudere un cartellone di un certo prestigio in questa stagione malandata che ci vede uscire così, un po’ sgaruppati, dal Covid, e presenta i seguenti nomi: Fulminacci, Sunbsonica, Motta e Lucio Corsi, Ghemon, Francesco De Gregori, Frah Quintale e Venerus, Iosonouncane e infine Diodato, il tutto sotto il nome Storytellers- Suoni d’Autore. Ora, a parte l’abuso della parola storytelling e derivati, la cosa che mi agghiaccia, davvero, è la totale assenza di donne nel cast, neanche mezza. Lo faccio notare sui social e ovviamente subito è un fiorire di “non ci saranno donne in tour”, “avranno avuto altri impegni”, suppergiù le stesse parole dette dai vari direttori artistici del Festival di Sanremo, dei Primo Maggio a Roma e di tante altre occasioni in cui le donne non erano nei cast, per nulla o presenti in percentuali risibili. Avevano da fare. Probabilmente da stirare o rassettare casa, verrebbe da rispondere, ci fosse ancora voglia di scherzarci su. Invece subentra la malinconia e il disagio, e anche la voglia di chiedere ai nomi presenti in quel cartellone se non si sentano un po’ a disagio anche loro, per questa situazione. Certo, i recenti casi di Rula Jebrael a Propaganda Live potrebbe spostare il discorso altrove, ma è un fatto che una totale assenza a fronte di tanti nomi validi, nelle stesse ore per dire uscivano alcune date del Tour estivo di Cristina Donà, è davvero imbarazzante, sintomo di un sistema musica maschilista e discriminatorio, senza se e senza ma. Motta, Ghemon, Diodato, fatevi sentire, vorrei dire. Ma sono stanco, e ne ho parlato giusto tre giorni fa di femminile, non voglio farlo anche oggi, a rischio che qualcuno pensi che è una fissazione più che una causa buona e giusta.

Quindi parlo d’altro, che almeno una cosa bella è successa, nelle ultime ore.

Sono tornato al cinema. Non andavo più al cinema da novembre 2019, alla prima del film Vasco Non Stop Live 018-019, di cui sono per altro autore. Poi niente. Credo sia il lasso di tempo più lungo nel corso della mia vita che io abbia passato lontano dai cinema. Certo, per anni mi è capitato di andarci solo per vedere cartoni della Disney o della Pixar, poi episodi di Guerre Stellari e film di Marvel o Dc Comics, ma sempre cinema era. Da giovani, con mia moglie, ci andavamo tutte le settimane, quando c’erano i cicli di film d’essai, infrasettimanali, anche più volte la settimana. Poi sono arrivati i figli, e sono cambiate le abitudini. Poi è arrivata la pandemia, e tutto è imploso. Niente cinema. Ma neanche uscite dopo cena. Concerti e teatro manco a parlarne.

Ieri però sono tornato al cinema. Siamo tornati al cinema, io e mia moglie. E ci siamo tornati a fatica, perché la vita è complicata e la vita di questi tempi lo è anche di più, e perché combattere l’apatia è forse la parte più complessa della contemporaneità. Ci siamo abituati a stare a casa, la sera, e l’idea di uscire diventa pesante, seppur il non uscire sia doloroso e ci si lamenti sempre dell’impossibilità di farlo. Confesso di aver aspettato fino all’ultimo minuto buono per arrivare in tempo, dovevo attraversare tutta Milano per farlo, sperando succedesse qualcosa che mi impedisse di andare. Pronto poi a lamentarmene rumorosamente. E qualcosa in effetti è successa, mentre mi stavo preparando sono dovuto uscire di corsa a prendere i gemelli all’ultimo incontro del catechismo, perché ha iniziato a diluviare e si sarebbero bagnati. Peccato poi, il tempo di scendere e mettermi in strada, la pioggia sia finita. Di fatto ho perso circa mezz’ora e ho seriamente rischiato di non fare più in tempo.

Alla fine siamo andati, io e mia moglie, e ne siamo stati davvero felici. Perché era la prima volta che uscivamo da soli dall’estate scorsa. Perché, poi, era anche la prima volta che uscivamo dall’estate scorsa, di sera. Perché non andavamo al cinema noi due da non so quanto tempo. E perché l’occasione, per le questioni legate all’apatia figurati se io o lei avremmo mai pensato di andare al cinema se qualcuno non ci avesse invitati a farlo, saremmo stati a casa, senza ombra di dubbio, sul divano, perché l’occasione era di quelle che non possono che renderti felici, la prima del film di un regista che è anche un artista nel campo musicale, in entrambi i casi un regista e un artista che stimi molto e che, le due cose non sono necessariamente legate tra loro, è anche un amico fraterno. Un’occasione, quindi, non solo per tornare al cinema, ma per rivederlo, e per rivedere altri amici, del settore, accorsi come me per festeggiare l’occasione con lui.

Sono tornato al cinema e sono tornato al cinema alla prima del film Morrison, di Federico Zampaglione, a più distratti noto come quello dei Tiromancino.

Federico conduce da anni una duplice vita. È il titolare, ormai potremmo anche dire un one man band, del marchio Tiromancino, con la quale ha sfornato una serie impressionante di hit, al punto da essergli valso il nomignolo di Hitman, e è un regista, specie un regista nel campo horror, che ha incassato grandi riconoscimenti internazionali, fatto che regala al nomignolo Hitman un senso ulteriore, nome da serial killer di quelli che spargono sangue  e interiora in giro per la stanza.

C’è stato un periodo della sua quasi trentennale carriera nel quale è stato più un regista che un musicista, nel senso che ha dedicato la parte principale delle sue energie alla settima arte, dopo l’esordio con la commedia black Nero bifamiliare, con film quali Shadow e Tulpa-perdizioni mortali, usciti tra il 2010 e il 2012 hanno letteralmente fatto il giro del mondo, ottenendo riscontri di critica oltre che di pubblico. Del resto anche la sua carriera musicale, iniziata nel 1989, anno di nascita degli allora Tiromancino, è strettamente legato al cinema, perché il grande salto, quello tra l’essere una band di culto tra appassionati di musica e il grande pubblico, è indubbiamente arrivato grazie al singolo Due destini, parte della colonna sonora del film Le fate ignoranti, di Ferzan Ozpetek. Ma essendo Federico uomo curioso e in qualche modo ipercinetico, la musica non poteva certo rimanere troppo sottotraccia, quindi ecco il ritorno alla grande della band, ormai tutta giocata intorno al suo nome, almeno fino a oggi, giorno in cui Morrison arriverà nelle sale cinematografiche, dopo anni nei quali si è messo dietro la macchina da presa solo per dirigere videoclip suoi o di colleghi.

Ho detto, en passant, che Federico è un mio amico fraterno. L’ho fatto non tanto per vanto (mio o suo, è indifferente), quanto per onestà intellettuale, perché andrò a parlare di un’opera di un amico, provando a fare il tradizionale passo indietro, a essere cioè obiettivo, ma senza nascondere che comunque provo affetto nei suoi confronti. Ci conosciamo da ventitré anni, il primo pezzo di copertina di un magazine che io ho firmato aveva su la sua faccia, e era anche la sua prima copertina, siamo legati anche da questo, non bastasse la vita che ci è passata sotto gli occhi insieme.

Anzi, credo che proprio in virtù di questo affetto, mi è capitato in passato e non mi sono mai nascosto dietro a un dito, avrei semplicemente ignorato la cosa, nel caso mi fosse sembrata una cagata, certo, glielo avrei detto, siamo amici, tra amici ci si dicono le cose in faccia, ma avrei evitato magari di stroncarlo, del resto non sono un critico cinematografico, sono un critico musicale. Anche se, a ben vedere, la musica è la protagonista di questo film, la musica in quanto musica e l’ambiente della musica, inteso come spazio professionale nel quale si muovono i musicisti professionisti e non ancora professionisti. Un mondo che Federico conosce assai bene, frequentandolo da una vita, e che ha cristallizzato prima in un libro, Dove tutto è a metà, scritto con Giacomo Gensini, e poi in Morrison, la cui sceneggiatura porta entrambe le firme, liberamente ispirato da quell’opera.

Senza spoilerare nulla, il film narra le vicende parallele da Lodo, giovane cantante di una band che si muove per i locali romani, Morrison è il nome di uno di questi, su una chiatta sul Tevere, e una vecchia stella del panorama musicale italiano, Libero Ferri, ormai appannata e decaduta. La storia di due carriere, quindi, di una amicizia anomala, condito da amori, amicizie e affini.

Quel che ne esce è un film a doppia marcia, con un inizio leggero, da commedia, frizzante e ritmato, e una seconda parte cupa e oscura, sicuramente tragica. Libero Ferri, interpretato assai bene da Giovanni Calcagno, Lodo è interpretato da un giovane e conturbante Lorenzo Zurzolo, diventa quindi una sorta di emblema, di paradigma di tanti nomi conosciuti, da Federico, da me e anche da voi, quasi una figura retorica che mi troverò sicuramente a usare prossimamente per descrivere la caduta rovinosa di una dei tanti BIG della nostra canzone incapaci di tenere il passo coi tempi, di gestire il proprio talento, o semplicemente di riconoscerne l’esaurimento scorte.

La cosa curiosa, oltre il constatare ancora una volta come in Italia ci siano talenti multitasking, capaci di parlare lingue diverse sempre a grandi livelli, è come in fondo Federico sia, coi Tiromancino, esattamente il punto di congiunzione tra il mondo dei giovani, chiamiamoli per comodità indie o itPop, nel film si sente la bella Cerotti, scritta da lui stesso con Gazzelle, ma come dicevo parlando della sua raccolta Fino a qui, nella quale andava a duettare con protagonisti variegati della nostra scena musicale, tanti sono gli artisti che a lui devono più che qualcosa, dai vari Calcutta e Paradiso, fatto per la quale forse dovrebbe chiedere scusa, ai vari Tiziano Ferro e Negramaro, la chiusura del film affidata alla nuova bomba Er Musicista, interpretata con Franco 126 ne è prova provata.

Lui, autore delle sue canzoni, quindi a ben vedere cantautore, titolare di una band, ha saputo spostare quella che un tempo avremmo chiamato musica undeground nell’alveo del pop, prima di tutti gli altri, penso ai Subsonica, per dire, ma anche a tutta la deriva sanremese delle band di area Tora! Tora!, finendo per diventare un riconosciuto BIG del pop, decine di hit sfornate, e punto di riferimento per i giovani, che sulla falsa riga di quanto lui ha fatto e scritto si sono mossi, penso anche ai vari Canova, per dire, WrongonYou e compagnia bella. Nel raccontare quindi una duplice storia, in bilico tra musica e vita, va detto, riesce a avere uno sguardo affettuoso nei confronti dei giovani, impietoso e a tratti brutale nei confronti dei nostri coetanei, inchiodati al muro nel momento in cui provano a scimmiottare i giovani stessi, e fotografati in balia del proprio ego narcisistico. Una storia molto ben raccontata e ottimamente dosata, la musica a occupare ogni interstizio, avvolgente come lo è Roma, sullo sfondo. Però, siccome ho premesso che siamo amici fraterni, e mi rendo conto che ho detto parole troppo elogiative, a rischio di passare per uno che incensa gli amici per amicizia, appunto, ci terrei a dire anche qualcosa che rientri più precisamente nei miei soliti canoni, nel mio riconosciuto stile, nella mia lingua quotidiana.

Dovete sapere che io e Federico abbiamo una comune passione per le torture medievali, passione che lui ha in qualche modo sublimato con i suoi film horror e che in me, figlia del mio aver studiato Storia Moderna all’Università di Bologna, ha scatenato certe mie derive barbare in alcune mie recensioni divenute abbastanza iconiche. Ci scambiamo informazioni, a riguardo, immagini e video. Certo, quando poi alcuni di questi passaggi finiscono nei miei scritti Federico non manca di rimproverarmi, privatamente, da amico, perché ovviamente lo spirito solidale prevale su quello sadico, ma in cuor mio so bene che anche lui apprezza quei miei riferimenti cruenti, quel mio accostare le parole agli strumenti di tortura inquisitoria.

È stato lui, anni fa, a suggerirmi di entrare in Sala Stampa, all’Ariston, vestito da Savonarola, e non è detto che prima o poi non lo farò.

C’è un personaggio del romanzo, Marzio Cecconi, un critico musicale cattivissimo, detto l’Assassino, che risponde perfettamente a tutte queste caratteristiche, al punto che la sua recensione di una catastrofica canzone di Libero Ferri è sostanzialmente un dichiarato omaggio alla mia penna, stesso modo di parlare di qualcosa che apparentemente nulla ha a che fare con la musica per arrivare poi a lasciare solo macerie e cadaveri, nessun prigioniero o ferito.

Nel film il personaggio di Marzio Cecconi, l’Assassino, arriva al Morrison in uno dei passaggi cruciali della storia, non ve lo spoilero, né vi spoilero chi lo interpreta.

La scena, nella fase ancora da commedia del film, è girata con l’esperienza del regista de paura, si crea un climax, c’è tensione.

Poi si scopre di chi è stato chiamato a interpretare Marzio Cecconi, di chi in sostanza è stato chiamato a interpretare me.

Ecco, caro Federico, diciamocelo e diciamolo apertamente, ma come ti è venuto in mente di farlo interpretare proprio da lui?

Io sono molto più cattivo, chiedi ai tanti Libero Ferri che ben conosciamo come si sono sentiti dopo che li ho sottoposti alle mie torture, ma soprattutto, sono molto più bello di lui, e che cazzo.