Sulla tanto discussa faccenda delle quote rosa nel settore della musica

Trovo che le cantautrici siano oggi più libere di esprimersi e, in quanto più libere, anche più interessanti dei colleghi uomini


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Se fossi uno di quelli che nella vita si dice “ma chi me lo fa fare”, credo, non avrei fatto buona parte di ciò che ho fatto. Col che non sto rivendicato l’aver fatto chissacchè, intendiamoci, sto semplicemente constatando che non mi sono mai posto in anticipo cosa il mio fare avrebbe comportato in tema di rotture di coglioni, fatto che mi ha in effetti procurato una immane quantità di suddette rotture di coglioni.

Negli ultimi tempi più che mai, perché gli ultimi tempi sono i tempi dei social, da che c’è la pandemia solo del social, per altro, e non c’è giorno in cui non ci sia un tema del giorno sul quale prendere obbligatoriamente una posizione, pena l’essere esclusi proprio dal mondo, e a prendere una posizione, se non è una posizione radicata, frutto magari di un ragionamento, di una riflessione portata avanti col tempo, con basi di supporto, è un attimo si finisca per schierarsi dalla parte sbagliata, perché è evidente che in questa polarizzazione c’è sempre una parte giusta e una parte sbagliata, e se ti schieri dalla parte sbagliata, è scritto, finisci in mezzo a un uragano di merda, la tua reputazione che cala a picco, sconosciuti che vengono da te a dirtene di tutti i colori come se ti conoscessero da tempo e fossero quindi autorizzati a esprimere opinioni non solo riguardo la tua presa di posizione, ma proprio verso tutta la tua vita, tranchant, senza possibilità di replica o di redenzione, salvo poi, il giorno dopo, come in un eterno giorno della marmotta, ripartire tutto da capo, altro argomento fondamentale del giorno, altra posizione da prendere nei due schieramenti contrapposti, magari con un po’ più di cautela, ancora sei lì che ti lecchi le ferite del giorno prima, altro giro di giostra.

Saggezza dovrebbe quindi indurci a prendere posizioni il meno possibile radicali, polarizzanti, essere grigi, ambigui, sfuggenti, nascondersi in un angolo sperando di non essere notati, anche se a ben vedere essere notati è parte del gioco stesso, chi non c’è non c’è, non esiste la possibilità di saltare un giro, come quando si finiva in prigione a Monopoli, qui la presenza è tutto, anche se poi vedi chi di giri ne salta a bizzeffe, autoconfinato in una forma di esilio, e non solo dai social, ma anche dai media tradizionali, tanto per rimanere nell’attualità, pensiamo a Caparezza, e qualche dubbio ti viene, ma sta di fatto che la saggezza resta quella, stai in un angolo, fingiti parte della massa, e spera che la giornata passi, ricevendo qualche applauso e scansando i fischi, o quantomeno augurandoti che i fischi siano molti meno degli applausi, è noto che anche un solo schizzo di fango si nota di più di quanto non spicchi una camicia perfettamente pulita.

Sta di fatto che non ho mai seguito questa linea di pensiero, e non l’ho mai seguita non per una forma di coraggio estremo, spericolato, quasi autolesionista, ma solo perché sono fatto così, non mi metto a ponderare cosa gli altri diranno per quello che ho fatto o scritto, più che altro scritto, è la scrittura il mio fare che in genera scatena dibattito sui social, che mi porta Like e mi porta odio, se avessi detto “ma chi me lo fa fare”, credo, non avrei fatto buona parte di ciò che ho fatto.

Solo che ogni tanto, dopo, mi capita di dirmi “ma chi me lo ha fatto fare”, e più passa il tempo più mi capita spesso di dirmelo, al punto che sta quasi diventando una sorta di mantra, di quelli che ti ripeti anche solo mentalmente, per farti compagnia, ritrovare una qualche pace interiore, o semplicemente quando ti senti solo e hai voglia di sentire una voce amica, la tua.

Prendi una posizione su una faccenda inerente alla politica nazionale, o a una qualche scelta dell’amministrazione del Comune in cui abiti, peggio, decidi di dire la tua su questioni inerenti i temi caldi di questi mesi, la cancel culture, il politicamente corretto, il MeToo, il sessismo, il patriarcato, l’omofobia, Fedez e la Ferragni, e subito ti dai un colpo in fronte, come se avessi chiuso il bagagliaio ricordando che hai lasciato lì la borsa con le chiavi della macchina, anche se in quel caso più che un “ma chi me lo ha fatto fare” ti dovresti dire un più pragmatico “ma che coglione”, consapevole, però, che cancellare quel che hai scritto è sport inutile, qualcuno lo avrà già screenshottato, fatto girare via whatsapp o altra chat, ci avrà magari già fatto su un meme, insomma, quel che è scritto è scritto, come un tatuaggio, come un taguaggio che non preveda che tu poi lo possa dolorosamente cancellare col laser, o facendoci sopra un tatuaggio più grande.

Lo faccio sempre, sarebbe inutile star qui a fare esempi, anche se probabilmente, se siete tra quanti mi leggono tutti i giorni, molti avranno automaticamente pensato io stia parlando del mio pezzo sulla multa presa, fatto che mi ha in effetti portato addosso una bella valanga di merda, prevalentemente da parte di quei talebani del “vai in bici”, del “vai a piedi, che nessuno è mai morto per camminare”, del “poveri i tuoi figli a avere un padre che insegna loro a ignorare le regole”, gente che dall’alto di una autocertificata superiorità morale si sente di poterti insegnare la vita, per altro non sapendo nulla della tua medesima vita, non conoscendoti affatto, ma chiamati a raccolta da altri talebani della medesima fattura, tutta gente, in quel caso parlavo di una multa presa a Milano, che vota PD e che rende in maniera più che plastica il perché il PD perda ogni giorno consensi e soprattutto perché il sindaco Beppe Sala e i suoi seguaci, talebani con i calzini arcobaleno e il rolex, direi fossi Fedez, anche se magari qualcuno potrebbe più pensare io sia Filippo Facci, quindi mi guardo bene dal farlo, abbiano scatenato intorno alla città in cui abito e pago le tasse, anche se qualcuno di tali talebani mi ha fatto notare che io qui sono ospite e che per essere ospite gradito dovrei rispettare le regole e zitto, caspita, ospite che ha fatto la muffa, vivo qui da ventiquattro anni, dicevo, che tutto questo rende perfettamente l’idea del perché il Pd perde ogni giorno consensi e il sindaco Beppe Sala e i suoi talebani seguaci abbiano fatto sì che Milano diventasse la città che più di ogni altra sta sul culo a chiunque a Milano non ci viva, tutti ricordiamo il tifo contro subito da chi a Milano vive durante le prime fasi della pandemia, quasi compiaciute per vederla a terra, agonizzante. E non fosse appunto una città in fin di vita, le saracinesche di tanti, troppi negozi chiusi, bar e ristoranti deserti, mezzi vuoti se non nelle ore di punta, case lasciate sfitte dagli studenti universitari che non sono tornati, e da chi qui lavorava e ha scelto di andarsene, complice lo smart working, mi verrebbe quasi da augurami una implosione finale, definitiva, così che su quelle macerie si possa provare a ricostruire, in barba a chi si ostina a difendere l’indifendibile, ovvero delle istituzioni, il discorso lo si potrebbe serenamente fare anche nei confronti del Governo, che è assente e insolvente, quando si tratta di esserci e di provare a portare aiuti, si veda alle questioni dei ristori, degli aiuti, delle casse integrazioni, ma iperpresente quando si tratta di punire o battere cassa, che mesto destino il mio di uomo partito in esilio da una città chiusa per essere approdato in una città indifferente.

Ma non è per questo che son partito col discorso del “ma che me lo fa fare” e del più disperato “ma chi me lo ha fatto fare”, non essendo i talebani della bici, chiamiamoli convenzionalmente così, parte della mia bolla social, ma chiamati a adunata da una pasionaria che a sua volta di quella bolla faceva parte più che altro perché ci si è conosciuti proprio alla scuola dei nostri figli, e poi si è dedicata con una certa passione a farsi i cazzi miei nel corso degli anni, Dio benedica il tasto “blocca” e, perché no, anche quello “cancella”, quanto perché, argomento che mi sembra decisamente più interessante, e non solo per me, nelle ultime ore si è molto parlato, spesso anche a sproposito, del caso Propaganda-Rula Jebreal, e questo ha in qualche modo riposto al centro della discussione, dovrei dire delle discussioni, la questione femminile, delle quote rosa, delle discriminazioni e tutto quel che intorno a questi argomenti ruota. Stavolta a pagarne le spese, e nel dire questo so di prestare il fianco, perché nascondo neanche troppo bene una sorta di difesa d’ufficio, il mio schierarmi di cui sopra, proprio Diego Bianchi, in arte Zoro, e i ragazzi di Propaganda Live, tutti uomini, cinquantenni, etc etc.

La faccenda la conoscete tutti, non è centrale neanche questa, qui, Propaganda Live fa un post indicando gli ospiti della serata, sui social, e la giornalista Rula Jebreal, invitata per parlare della questione palestinese, dichiara sempre a mezzo social che non andrà, in quanto unica ospite donna della serata. Si apre il dibattito, parte la merda, Zoro e soci ci restano sotto. Questo nonostante loro siano loro, cioè i paladini dell’attenzione al sociale, quelli che parlando degli ultimi e degli emarginati, andando sul campo, ma senza la volontà da sceriffo di un Brumotti. O forse proprio per questo, per il loro essere incoerenti, a dire della massa informe dei social. Negli anni Settanta avrebbero detto “compagni che hanno sbagliato”.

A sua difesa, Zoro, dirà in apertura del programma che evidentemente Rula non conosce Propaganda Live, e che da sempre loro invita coloro che ritengono più competenti, non stando lì a notare il sesso. Fatto a sua volta oggetto di dibattito, perché è evidente che se chiami sempre uomini saranno poi gli uomini a risultare più competenti, perché alle donne non sarà dato modo di dimostrarlo, e magari anche perché stando in panchina si potranno allenare meno. Dirà anche che il programma nasce da un gruppo di amici, tutti uomini, e anche questo non andrà bene.

Insomma, un bel delirio.

Bel delirio infarcito dal non aver fatto menzione, Zoro, della vicenda di Roberto Angelini, anche di quella parlavo nel mio pezzo sulla multa, basandomi su quanto da lui raccontato inizialmente, faccenda che sta prendendo altre sfumature, sembra che si trattasse proprio di volontà di tenere la ragazza in nero, e sembra che lei non solo non abbia denunciato, ma sia finita in mezzo perché fermata dalla guardia di finanza durante una sua escursione notturna in coprifuoco. Si è definito coglione da solo, immagino a ragione, potrei dire altrettanto di me che gli davo la mia solidarietà, non fosse che gliela davo riguardo il suo passaggio sullo stato assente, e su quello non ho certo cambiato idea.

Un bel delirio che mi fa arrivare a parlare dell’argomento di cui, sin dall’inizio, avrei voluto parlare.

Le quote rosa in musica. Le competenze. Le discriminazioni.

Sapete quanta energia, quanto tempo, quanta fatica e quanta attenzione io abbia nel corso degli anni, anche qui, dedicato al femminile in musica, e nello specifico alle cantautrici. Non serve faccia ogni volta la carrellata, sapete di cosa parlo. E se non lo sapete, amen, girando trovate quel che vi manca.

Nei fatti sono dieci anni che mi occupo con pervicacia di cantautrici, producendo artisticamente antologie e organizzando eventi, uno dei quali, il Festivalino di Anatomia Femminile, a suo modo diventato un appuntamento importante. Questo mio fare mi ha procurato due reiterate accuse, nel corso del tempo, e arrivati a questo punto vi sarà chiaro quanto a me stiano a cuore le accuse che mi vengono rivolte, la prima è di prestare attenzione solo alle donne, in qualche modo generando una specie di discriminatoria al contrario, nei confronti quindi di chi emarginato e discriminato assolutamente non è, l’uomo e nello specifico l’uomo che fa musica, la seconda, interna, di dare attenzione alle donne in quanto donne, cioè di non praticare una selezione abbastanza radicale, al punto da inficiare in parte il mio lavoro tirando dentro artiste che non meriterebbero attenzione.

Torniamo al discorso iniziale. Le quote rosa, le competenze, la discriminazione.

Seppur poco mi tocchino le accuse, specie quelle rivolte a me o a chiunque sul web, è evidente che questi siano pensieri che mi hanno sfiorato, anche qualcosa in più che sfiorato, nel corso degli anni, con effetti assai diversi.

Perché è vero che mi occupo assai più di cantautrici che di cantautori, specie a livello di indipendenti e di emergenti. Lo faccio per una questione di gusto, decisamente, perché trovo che le cantautrici, emarginate dal mercato, siano oggi assai più libere di esprimersi dei colleghi uomini, e in quanto più libere siano anche più interessanti. Ovviamente non è un discorso generico, non tutte e non tutti, ma facendo un discorso statistico credo che nella maggior parte dei casi funzioni così, quindi su questo mi sento inattaccabile. Sono invece attaccabile sul fronte della selezione, e lo sono coscientemente. So bene che avrei potuto mettere paletti più stretti e selezionare, lasciando fuori una porzione delle cantautrici cui ho dato spazio e di cui mi sono occupato, ma siccome io mi occupo di cantautrici anche per una mera faccenda ideologica, sono contro questa forma di discriminazione involontaria, nel senso che viene fatta senza una precisa ratio dietro, perché viene naturale agli uomini che muovono le file, discografici, manager, promoter, direttori artistici, organizzatori, è evidente che lavorare sulla quantità mi è utile per indicare un sommerso tanto quanto, poi, evidenziare le eccellenze, dove ci sono, e ci sono eccome. Avessi dato spazio negli anni a venti cantautrici invece che a trecentocinquanta, per capirsi, avrei dimostrato che tra migliaia di artisti che vengono pubblicati, che suonano per locali, Festival e concorsi, ci sono alcune mosche bianche, quelle venti cantautrici. Invece credo sia necessario far notare come non ci siano solo quelle venti eccellenze, eccellenze che in un contesto normale starebbero non tra gli indipendenti e gli emergenti, ma nel gotha della musica italiana, ma anche tante cantautrici meno eccellenti, ma sicuramente degne di essere ascoltate, brave, alcune più alcune meno, sicuramente all’altezza dei tanti colleghi che non trovano altrettanta fatica a trovare spazi, spesso all’altezza anche di colleghi che di attenzione ne hanno decisamente troppa. Una faccenda di quantità, appunto, e di qualità.

Quindi io non pratico quote rosa, discrimino proprio. Non mi interesso più che tanto a emergenti o indipendenti uomini, tanto è pieno di colleghi che lo fanno, e mi occupo di chi resta quasi sempre sommerso, anche quando probabilmente meriterebbe le stesse attenzioni dei colleghi maschi che non prendo in considerazione.

Poi magari un giorno, spero, non sarà più necessario essere così radicali. O sarà il momento in cui a essere radicale diventi qualcun altro, perché questa non è una missione che ho sposato a vita, è più una contingenza che però sta andando avanti da dieci anni suonati.

Magari, a quel punto, organizzerò un Festivalone laddove oggi organizzo il Festivalino di Anatomia Femminile (no, non sto dicendo che le donne meritano un ino mentre gli uomini un one, il Festivalino si chiama così perché è davvero una cosa nata come piccola, autarchica, ino, l’one era solo per differenziare, nessun gesto figlio del patriarcato, tranquilli), o semplicemente mi occuperò di chiunque mi capiti di ascoltare, senza dovermi concentrare sul genere sessuale indicato nella sua carta di identità.

Per ora è così, sempre che alla prossima accusa di mansplaining, di patriarcato, al prossimo che mi dice invece che faccio discriminazioni in senso inverso, io non mi rompa le palle e mi metta a fare quel che fanno tutti i miei colleghi, scrivere di musica senza sbattersi troppo, che già la vita è abbastanza difficile di suo senza che uno si debba impegnare a combattere battaglie neanche direttamente sue.