American Gigolo, il film con Richard Gere che ha inventato gli anni Ottanta

L’oggetto del desiderio Gere, i vestiti di Armani, il lusso ostentato: il film di Paul Schrader descrive un edonismo già reaganiano. Per salvarsi dal quale si affida al cinema spirituale di Bresson. Un classico

American Gigolo

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Il sex symbol Richard Gere, lo stile impeccabile di Giorgio Armani, la spiritualità di Robert Bresson. È il mix spericolato, sulla carta impossibile, di American Gigolo (1980). Un film simbolo degli anni Ottanta che ne anticipa, agli albori del decennio, il trionfo del gusto edonista, la tensione consumista, la fascinazione per il corpo e la bellezza, un’idea del mondo come regno dell’apparenza, “superficiale” nel senso che mostra e si fa incantare dal nitore delle superfici – e nessuna è più seducente della fisicità esibita nella sua scintillante nudità di Richard Gere.

Poi però è il suo personaggio apparentemente amorale – il gigolo Julian Kay, che vive un’esistenza di lusso tra location esclusive, oggetti preziosi, vestiti firmati – a ribaltare tutto quando, messo con le spalle al muro, trova il coraggio di vivere la grazia dell’amore autentico e disinteressato con Michelle (Lauren Hutton), moglie di un influente senatore.

La storia di American Gigolo è ambientata in una California luccicante e affluente. Julian si presenta come accompagnatore, guida, chauffeur, in realtà si prostituisce con donne di mezza età della buona società e naviga in sicurezza in un mondo in cui il denaro è misura di ogni cosa. L’incontro casuale con Michelle rischia di mettere in discussione la sua ordinata e asettica routine. Un giorno Leon (Bill Duke), l’uomo per cui talvolta lavora, lo indirizza da una coppia facoltosa, i Rheiman: il marito gli chiede di far l’amore con la moglie usandole una certa violenza. Dopo qualche tempo, la signora Rheiman viene uccisa. Julian diviene il primo sospettato dell’omicidio, incalzato dall’asfissiante detective Sunday (Héctor Elizondo). Probabilmente è stato incastrato. Tutti gli voltano le spalle, tranne Michelle.

Più volte in American Gigolo, Julian dice di essere stato “incastrato”, usando in originale la parola “framed”, che vuol dire anche “incorniciato”, nel frame che, appunto, in inglese indica pure il fotogramma. Schrader quindi pone esplicitamente Julian nella cornice del fotogramma, di un’immagine che esaspera il suo essere cosa, chiuso dentro una gabbia, oggetto del desiderio delle sue clienti e oggetto a disposizione della macchina da presa che lo inquadra.

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In American Gigolo, Richard Gere viene soprattutto mostrato: mentre cammina, si allena, mentre sceglie meticolosamente gli abbinamenti dei vestiti – per Giorgio Armani, che era stato suggerito alla produzione dall’entourage di John Travolta, prima ipotesi quale protagonista, questo film costituì una tappa fondamentale della carriera. Julian è un bene di lusso a servizio della sua clientela. Non un individuo ma, appunto, un oggetto con un preciso valore di mercato. Perduto il quale, naturalmente, non ha più alcuna ragion d’essere – motivo per cui viene abbandonato da tutti.

L’unica infrazione è rappresentata da Michelle. La prima volta i due si incontrano nel bar di un hotel. Sentendola esprimersi in francese, Julian le risponde nella stessa lingua. Schrader pare volerci dire che, in una realtà in cui il denaro è l’esperanto parlato da tutti quelli che contano e vogliono contare, Julian e Michelle s’esprimono in una lingua diversa, in cui i sentimenti hanno ancora valore. E non importa, moralisticamente, che lui sia un gigolo e lei tradisca il marito: la loro relazione ha un che di miracoloso, capace di riscattare per ciò stesso la bruttezza di una realtà bella soltanto nella sua buccia superficiale.

È una contraddizione in termini American Gigolo: ha la cadenza di un noir, ma il suo cuore è, come in altri film diretti e scritti da Schrader (come è noto, è stato anche sceneggiatore per Martin Scorsese, da Taxi Driver ad Al Di Là Della Vita), una storia sulla colpa e la grazia che può riscattarla. Il che si traduce, nel finale, in una citazione esplicita del capolavoro di Robert Bresson, Pickpocket. Un’opera che, nella sua ascesi figurativa, pare quanto di più lontano possa esserci dalle luci abbaglianti di una California ricca e dissoluta.

Ho messo questo finale bressoniano in American Gigolo – ha dichiarato una volta il regista – per una sorta di oltraggiosa perversione, volendo dire che sono capace di fare un film hollywoodiano trendy e consapevolmente alla moda, e rivendicando con il finale la sua autentica purezza”. Eppure questo finale non è solo una fiera dichiarazione di autorialità o un messaggio provocatorio indirizzato all’industria del cinema. È anche una scelta in linea con lo Schrader critico cinematografico. Come viene spesso ricordato, Paul Schrader è un individuo cresciuto con una rigida educazione calvinista che solo a 18 anni scopre il cinema, dal quale viene folgorato dopo la visione di un filmetto con Elvis Presley, Paese Selvaggio, decidendo di studiare cinema all’università e diventando il protégé, nei tardi anni Sessanta, della critica per eccellenza Pauline Kael.

In quegli anni, precisamente nel 1972, pubblica i suoi due studi più noti e influenti. Il primo è il volume Il Trascendente Nel Cinema, un saggio su Ozu, Bresson e Dreyer, in cui individua le caratteristiche di uno stile filmico “trascendentale”. Il quale parte dall’opulenza intrinseca del cinema, “un’arte profana perché nata col capitalismo”, scrive, e la piega, in un processo di rarefazione formale, a una povertà ed essenzialità espressiva tramite cui viene in luce il nucleo spirituale del racconto. Che appunto trascende il piano della narrazione esplicita e rimanda a una dimensione altra, più intima e, per così dire, oltremondana.

Lo stile trascendentale, precisa Schrader, non è quello dei film di estremismo sperimentale che eliminano alla radice il dispositivo spettacolare, confezionando opere immote e impassibili, prive di storia e personaggi (come nei 45 minuti del lentissimo zoom in una stanza di Wavelenght di Michael Snow, che cita). No, lo stile trascendentale è quello che parte dai “mezzi espressivi ricchi” propri del cinema, mettendo in scena “un’azione drammatica o emotiva che reclama la partecipazione del pubblico”, la sua immedesimazione emotiva. Solo a quel punto, si comincia a sottrarre tutto quanto non necessario, per raggiungere una povertà espressiva che “rifiuta la ricchezza che il medium cinematografico mette a disposizione”.

Questo accade in American Gigolo. Prima mette in scena una realtà sfarzosa che esibisce ossessivamente la sua opulenza di superficie. Poi la smantella dall’interno, se non esattamente con uno stile povero e trascendentale, almeno con un finale che, citando Bresson, rimanda a quel modello e alla sua tensione spirituale. E a quel punto lo spettatore, che grazie al dispositivo noir s’è appassionato alla vicenda di Julian e Michelle e s’è immedesimato nei loro sentimenti, viene condotto per mano in una inattesa, dolcissima dimensione di grazia.

Perché però Schrader ha scelto, tra i tanti possibili, proprio il noir come genere di riferimento? La risposta è in un secondo, influente saggio breve da lui pubblicato sempre nel 1972, Note Sul Film Noir. Nel quale sostiene, sulla scorta di altri studiosi, che il noir si definisce non tanto per i temi, ma per lo stile, per i mezzi espressivi impiegati. Il noir, insomma, è una questione di forma, non di contenuto. Esattamente come il trascendente cinematografico. Entrambi hanno preoccupazioni principalmente stilistiche, e per questa ragione possono essere intrecciati e posti in dialogo. Sino a fondersi: come in American Gigolo, singolare parabola sull’innocenza e la grazia che sopravvivono in quella terra votata all’abiezione (secondo quella forma di rappresentazione estremistica tipica del cinema di Schrader) che è la California facoltosa e immorale tratteggiata dal film.