Gelsomina Verde, un altro modo per raccontare la violenza è possibile

On demand sulla piattaforma “1895”, il film di Massimiliano Pacifico ricostruisce la storia di una vittima della Camorra. Un dispositivo ibrido tra documentario e finzione, cinema e teatro, che guarda oltre gli immaginari gomorreschi

Gelsomina Verde

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Gelsomina Verde è una vittima di camorra, uccisa a neanche 22 anni nel 2004 durante la prima faida di Scampia, la cui unica colpa era stata quella di frequentare tempo prima un affiliato alla malavita organizzata. Gelsomina lavorava in una pelletteria e partecipava a molte attività di volontariato nel quartiere: i criminali per estorcerle informazioni che pensavano avesse sull’ex fidanzato la sequestrarono, torturarono e infine diedero fuoco, probabilmente per occultare le sevizie. La sua è una storia abbastanza nota, anche per le sue modalità scioccanti. Roberto Saviano le dedicò alcune pagine del suo capo d’opera Gomorra e la vicenda trova anche spazio in una delle puntate della serie omonima.

È quanto di più lontano dall’estetica di Gomorra, però, il film di Massimiliano Pacifico Gelsomina Verde, da pochissimi giorni disponibile on demand sulla piattaforma 1895. Prodotto da Lama Film, Bartleby Film con Rai Cinema, con Gianluca Arcopinto e Daniele Gaglianone quali produttori creativi, il lavoro ha la sua cellula generativa in un precedente progetto, il corto Centoquattordici (2014), che Pacifico realizzò insieme al collettivo MINA, un laboratorio di cinema che vede impegnati i ragazzi delle Vele, col titolo a ricordare che Gelsomina è stata, appunto, la centoquattordicesima vittima della Camorra.

Il film, scritto dal regista insieme a Dario De Natale, cancella alla radice tutto l’immaginario mortifero della serie tv. La storia diventa quella della messinscena di uno spettacolo teatrale, diretto e fortemente voluto dal regista Davide Iodice, anche tra i protagonisti del film, che lavora a una densa fase laboratoriale di scrittura e definizione drammaturgica insieme al piccolo gruppo di attori, Maddalena Stornaiuolo, Pietro Casella, Giuseppe D’Ambrosio, Margherita Laterza, Francesco Lattarulo.

Isolati nel borgo marchigiano di Polverigi nella villa Nappi, cast e troupe provano per due settimane lo spettacolo che ruota intorno alla vicenda di Gelsomina Verde. C’è tutto l’essenziale, la storia, la tragedia, il conflitto, la miseria morale e umana. Ma la violenza è continuamente sottoposta a un’operazione di metaforizzazione allusiva, che non vuole ovattare o disattivare il dolore, ma al contrario, invitare lo spettatore a uno sforzo di lucidità. Invece di frastornarlo con lo choc, il ricatto emotivo e la spettacolarizzazione, il pubblico viene condotto attraverso la lentezza non adrenalinica delle prove in un territorio duro e ambiguo, spinto a ragionare intorno ai fatti e ai sentimenti autentici dei personaggi.

Da sinistra, Davide Iodice e Massimiliano Pacifico sul set-laboratorio di Gelsomina Verde

Massimiliano Pacifico, forte di una intensa esperienza di documentarista teatrale – precedentemente ha raccontato la genesi di due spettacoli di Toni Servillo nei doc 394. Trilogia Nel Mondo e Il Teatro Al Lavoro – costruisce un racconto fortemente ibridato che mescola finzione e realtà, teatro e cinema. Tra i protagonisti del film infatti c’è anche il vero fratello di Gelsomina Verde, Francesco, che rompe la quarta parete della messinscena teatrale e riporta la vicenda alla sua origine e ai suoi luoghi, talvolta rilanciando le sue stesse parole di testimonianza alle battute che gli attori vanno recitando. E la dimensione di improvvisazione su cui si fonda la pratica laboratoriale scardina anche la certezza della drammaturgia, in momenti in cui gli interpreti escono dai ruoli e tornano a essere persone che rispetto alla vicenda di Gelsomina e della sua famiglia nutrono dei dubbi, entrando in conflitto con il resto della compagnia.

Gelsomina Verde è un rispettoso atto d’amore e di verità verso una giovane donna cui è stata strappata insensatamente e tragicamente la vita. E la sua forza sta proprio nel non nascondere gli stridori e le contraddizioni della realtà, e nella capacità di usare il cinema e il teatro, inestricabilmente interconnessi, per dare spessore e concretezza a questa verità delle cose, senza semplificazioni. Pacifico attraverso la prossimità della sua macchina da presa rende palpabile il respiro e lo stile della scrittura di un uomo di teatro di valore come Iodice, che allude all’orrore tramite una scenografia spoglia fatta di latte di benzina e impalpabili veli semitrasparenti, e che sa risolvere uno dei momenti più drammatici della vicenda, quello in cui un criminale che conosce Gelsomina cerca di avere notizie sull’ex fidanzato, in un inseguimento a due in cerchio, apparentemente giocoso come un divertimento tra bambini.

Nella misura pudica di una scrittura scabra – che recupera però in alcuni monologhi tutta la durezza della vicenda, senza eufemismi –, Gelsomina Verde mostra che altri modelli di racconto della criminalità sono possibili, rifiutando l’automatismo gomorresco e indicando una direzione che punta sulla contaminazione tra linguaggi. Un film che mantiene fede alla nobiltà del suo intento – di testimonianza e memoria di una vicenda assurda e terribile – e che allo stesso tempo disattiva dispositivi narrativi che dopo oltre un decennio sono stati consumati dal loro sensazionalismo e dalla loro ripetitività.

Pacifico e con lui Iodice suggeriscono il ritorno a una sorta di grado zero dello sguardo che si sbarazza di scenografie e location spettacolari – non c’è traccia qui dei luoghi canonici dell’immaginario criminale – e che punta invece sulle parole, i volti, gli oggetti ripresi nell’intimità di una vicinanza rispettosa quali elementi essenziali per raccontare una verità che resta non di meno sfuggente e dolorosa.