Ipocrita, autentico, irritante: nel bene e nel male “Nomadland” racconta l’America

Dal 29 aprile nei cinema e dal 30 on demand su Disney+ esce il film di Chloé Zhao che ha trionfato all’Oscar. Racconta i nuovi nomadi prodotti dall’ultima durissima recessione. Un film controverso, ma intimamente americano

Nomadland

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L’incoronazione dei tre Oscar principali per Nomadland (film, regia e attrice protagonista) è stato l’ultimo capitolo di una cavalcata che ha visto la pellicola diretta da Chloé Zhao aggiudicarsi quasi tutti i riconoscimenti più importanti assegnati dagli addetti ai lavori, a cominciare dal Leone d’Oro della Mostra di Venezia nel settembre scorso. Di conseguenza, all’ultimo minuto la Searchlight al già annunciato lancio del film on demand, dal 30 aprile su Star di Disney+, ha aggiunto la programmazione dal 29 nelle (per ora poche) sale cinematografiche riaperte.

Che film è Nomadland e come è riuscita un’opera dalla confezione d’autore, contemplativa e senza una forte struttura narrativa a conquistare un consenso così generalizzato? Alla base del film c’è il reportage omonimo di Jessica Bruder, pubblicato in Italia dalle edizioni Clichy in cui l’autrice, come dichiarato dal sottotitolo dell’edizione originale, “Sopravvivere all’America nel ventunesimo Secolo”, indaga dall’interno il fenomeno delle tante persone in là con gli anni costrette dalla recessione del 2008, perduti lavori e risparmi nella crisi finanziaria dei mutui subprime, a ripensare le proprie vite in un’ottica di decrescita obbligata.

Persone come Halen, la protagonista del libro, che abbandona una casa che non può più permettersi, trasformandosi in una “vandweller”, vivendo in un furgone con cui attraversa le parti interne del paese, inseguendo lavori stagionali, faticosi e senza coperture previdenziali e sanitarie, che le consentono di tirare avanti. Un’esistenza nomade in cui trovare un’altra dimensione di vita, incontrando gruppi di propri simili con cui condividere saperi, cose, abitudini, attuando nuove forme di socialità e sperimentando un diverso modo di essere comunità.

Frances McDormand ha letto Nomadland e ne ha intuito le potenzialità. Ha pensato che la persona giusta per questo progetto fosse Chloé Zhao, giovane regista cinese di nascita ma di studi statunitensi. La quale nei suoi due primi lungometraggi, Songs My Brother Taught Me e The Rider, aveva già mostrato una predilezione per un’America obliqua, attraverso storie di nativi Lakota e moderni cowboy ripercorse in un stile semidocumentaristico che togliesse la buccia finzionale al racconto, alla ricerca una verità più scabra e diretta.

L’asse portante di Nomadland diviene Fern (McDormand), donna sessantenne che dopo la morte del marito e il collasso di Empire, la company town in cui viveva, decide di vivere da nomade in un furgone. A tutti ribadisce di non essere una homeless, una senzatetto o una disperata, bensì una houseless, una persona che rivendica una scelta consapevole – infatti rifiuta l’ospitalità della sorella.

Fern intraprende il suo viaggio attraverso l’America, il Nevada, il Texas, scenari anche brulli e inospitali, tra montagne e deserti, neve e pioggia, strade interminabili e un’interrogativa nuova vita da mettere alla prova. La Zhao costruisce visivamente il racconto come un percorso di semplice pragmatismo – il passaggio da un impiego all’altro, tra cui anche Amazon, vissuto in chiave puramente utilitaria –, insieme però segnato dalla curiosità umana della protagonista, che sempre si accosta alle persone e i volti che incontra. E sono, spesso, le voci degli autentici nomadi, non professionisti posti davanti a una macchina da presa che scardina programmaticamente la finzione per attingere una verità documentaria al di là dell’artificiosità della messinscena.

Chloé Zhao e Frances Mc Dormand sul set di Nomadland

Così emerge l’esistenza di una comunità nomade, persone che si offrono mutua assistenza e che sanno regalarsi momenti di autentica condivisione. Un mondo che va avanti nonostante tutto, scoprendo l’insospettabile possibilità di un diverso equilibrio, sintonizzato sul ritmo e il respiro degli spazi sconfinati, talvolta inospitali ma sempre maestosi e sublimi, di una parte del paese solitamente oscurata dalla scintillante scenografia obbligatoria dell’America rampante e vincente di metropoli velocissime e interconnesse.

L’America di Nomadland è svuotata, lenta, essenziale. È una realtà fatta di bisogni minimali ed emozioni intime. È il paese in cui si può incontrare un’anziana vedova che descrive a Fern la piccola epifania di un’esperienza panica di immersione nella natura, durante la quale, dice, “Ho sentito di aver fatto abbastanza, che la mia vita era completa. Se fossi morta esattamente in quell’istante sarebbe stato giusto”. Oppure imbattersi in Bob Wells, vero vandweller che organizza seminari sul come vivere con praticamente nulla, il quale spiega a Fern perché ama questo stile di vita. “Non c’è mai un addio finale. Ho incontrato centinaia di persone a cui non ho mai detto addio. Dico loro sempre: ‘Ci rivedremo lungo la strada’. E così è, perché dopo un mese, un anno, a volte anche anni, li incontro di nuovo”.

Nomadland racconta esistenze al rallentatore, pacificate e senza recriminazioni, ispirate a una sotterranea filosofia della decrescita economica ed esistenziale, che non si esprime attraverso dichiarazioni programmatiche ed altisonanti, ma che pure esiste. La Zhao confeziona lo stile esatto per questo tipo di storia che, in sostanza – qui il film tocca delle corde importanti per la società americana –, racconta l’elaborazione di un lutto collettivo, di cui la scomparsa del marito di Fern diventa metafora, e cioè la morte della classe media, di un modello di vita che si pensava non dovesse avere mai fine.

Eppure non c’è tragedia, e nemmeno c’è un attacco frontale al sogno americano. Zhao annega i nomadi in paesaggi grandiosi, interminabili, ritratti spesso nell’ambiguità dell’alba e del crepuscolo, quel momento in cui la luce non ci fa capire se è giorno o notte. Ma pur ridotti a una precarietà integrale, per i protagonisti quella resta l’America amata, anzi, lo diviene ancora di più, perché ne scoprono un altro volto egualmente abbagliante. La musica – questa sì – stucchevole di Ludovico Einaudi sottolinea fin troppo l’elemento sognante e misticheggiante della parabola al cuore di Nomadland. Può sembrare, a tanti ha fatto questo effetto, un racconto ipocrita e consolatorio che non ha il coraggio di criticare il migliore dei mondi possibili del modello americano. Un film che indaga gli effetti della crisi economica senza mai risalire alle cause, decantando la bellezza struggente del paese e lo spirito resiliente di chi non si arrende nonostante tutto. Nomadi i quali, sperimentando stili di vita che rimandano idealmente alla lezione dei pionieri e della frontiera, trovano altre ragioni per stare al mondo. Senza lamentarsi mai o mettere in discussione il modello economico che li ha messi in ginocchio. Motivo per cui il montaggio, col basso continuo della colonna sonora carezzevole di Einaudi, può creare un raccordo tra gli scenari naturali e i capannoni di Amazon, senza soluzione di continuità, come se appartenessero allo stesso universo.

A scelta, Nomadland può affascinare per la sua capacità di illuminare una poetica musica dell’esistenza, o irritare per l’evasività dell’analisi e la facilità di quella poetica rassicurante. Dietro il comprensibile fastidio però si deve riconoscere al film la capacità di cogliere qualcosa di autentico. Che è l’amore unilaterale, il legame non rescindibile che moltissimi americani hanno con il proprio paese. Quella che può sembrarci incapacità di comprendere le iniquità di un paradigma sociale è invece la conseguenza di un senso di appartenenza e adesione incrollabili a valori non negoziabili. Valori non di natura ideologica, ma prettamente sentimentali.

Uno dei punti simbolicamente più espliciti del film è la veglia funebre per la morte di un’anziana nomade. Gli intervenuti lanciano nel falò i sassi che lei tanto amava. È un momento intimo e comunitario che ricorda il finale de Il Cacciatore di Michael Cimino, in cui gli amici di Nick al suo funerale cantano God Bless America. Nick è morto ormai pazzo e perduto, sparandosi un colpo in testa durante una roulette russa. Si potrebbe dire che è stato il paese che l’ha mandato insensatamente in Vietnam a ucciderlo. Ma nessuno durante la veglia dice qualcosa del genere contro la nazione. Anzi, tutti si aggrappano speranzosamente ai valori inequivocabilmente americani sintetizzati da quell’inno per elaborare il dolore e andare avanti. Qui emerge la vitalità, la resilienza appunto non ideologica e sovrastrutturale ma principalmente emotiva e istintiva del popolo statunitense. Ed è quella decantata negli stessi modi da Nomadland. Un film, nel bene e nel male, potentemente identitario, capace di raccontare lo spirito del paese con una esattezza e una franchezza quasi disarmanti.