Bentornato Artpop: con il suo album Lady Gaga ha sconfitto la sua kryptonite

L'artista americana conferma la sua rara capacità di intuizione e la bravura di usare la sua imperfezione per abbattere gli stereotipi


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Anni e anni fa c’era una band che praticava un pop-rock piuttosto ruffiano e funzionante, gli Spin Doctors. Niente di particolarmente originale, chitarre funky su incedere rock, il cantante con una buona voce a raccontarci su storie, con quella barbetta bionda e quel cappellino peruviano da hippie (o da hipster prima che qualcuno si premurasse di codificare l’hipsterismo).

In Italia se ne sapeva poco, ma ricordo che la band ci era stata presentata come uno di quei gruppi con grande seguito, alla Phish o Dave Matthews Band, tutti figli dei Grateful Dead, Dio e Jerry Garcia mi perdonino.

Probabilmente la loro canzone più nota, Two Princess, è stata anche in vetta alle nostre classifiche, quello era un periodo incredibile, uscivano decine di capolavori, ma è di un altro singolo, sempre del medesimo periodo, e praticamente identico dal punto di vista musicale, che voglio parlarvi, Jimmy Olsen’s Blues.

Jimmy Olsen, nel caso non lo conoscete, non è uno dei due fratelli Olsen che hanno reso grande la squadra di calcio della Danimarca tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, nazionale certo passata alla storia più per la presenza di altri nomi, come il quasi omonimo Jesper Olsen e soprattutto i “nostri” Preben Elkjaer Larsen e Michael Laudrup, il primo protagonista del mitologico scudetto dell’Hellas Verona di Osvaldo Bagnoli, quella dei Pierino Fanna, dei Nanu Galderisi, di Hans Peter Briegel, del portiere Garella e appunto di Elkjaer a lasciare la scarpa in campo e correre comunque verso la porta a fare goal, il secondo nelle file della Juventus, ma che poi troverà nel 1992 la propria consacrazione andando a vincere i Campionati Europei di Svezia, grazie al fratello di Michael, Brian, John Jensen e, una squadra in apparenza di gregari, a lungo li ho considerati fratelli, Morten e Jesper, in realtà erano solo omonimi, Jimmy Olsen è il fotografo del Daily Planet, il giornale di Metropolis nel quale lavora anche lo sfigatissimo Clark Kent.

Un personaggio di fantasia, quindi, della saga di Superman. Amico fraterno di Clark Kent, ignora ovviamente chi si celi dietro quei capelli pettinati e quegli occhiali da nerd, non potrebbe essere altrimenti.

Il Jimmy Olsen cui gli Spin Doctors hanno dedicato una canzone, impropriamente definita blues, è lui. E la canzone è sostanzialmente una dichiarazione del buon Jimmy a Lois Lane, storica fidanzata di Kent, un grido di dolore per il non essere cagato da chi ha gli occhi solo per l’eroe di turno. Nel ritornello, che ai tempi andava per la maggiore Jimmy dice a Lois di metterlo nei suoi piani, gli ribadisce di come lei non abbia bisogno di Superman, la invita a andare da lui quella notte e chiosa dicendo che ha una borsa piena di Kyptonite.

Ora, a parte l’enigma di come potesse mai il Jimmy Olsen della canzone degli Spin Doctors sapere che Clark Kent fosse in realtà Superman, ma magari gli autori si sono prese qualche libertà, il mondo dei supereroi nel tempo ci ha mostrato ben altre interpretazione delle solite trame e cliché, figuriamoci, resta che paventare una soluzione radicale come quella di eliminare Superman utilizzando pietre provenienti dal suo pianeta, è noto come la Kryptonite fosse la sola materia capace di fermare l’uomo di acciaio, è davvero gesto estremo, quasi straniante se associato alla voce calda del cantante del gruppo, Chris Barron.

Sia come sia, l’album del 1991 prendeva il titolo proprio da quel passaggio, Pocket Full of Kryptonite il titolo, e che a entrare in alto in classifica in America fu appunto Two pieces, oltre che Little Miss Can’t Be Wrong, altro brano che in effetti anche da noi si fece sentire.

Ora, a parte aver scoperto con sconcerto che gli Spin Doctors sono ancora in attività, credo che da noi se ne siano perse le tracce già nel 1993, suppongo spazzato via da una band che, invece, cose da dire ne aveva e ha eccome, i Counting Crows con la loro Mr Jones, a ragione, è sulla kryptonite che vorrei soffermarmi, conscio che aver iniziato un ragionamento partendo da un gruppo legato un successo effimero e momentaneo, per altro con una dissertazione fugace sul calcio danese, che diciamolo, per un po’ se l’è vista almeno a livello iconico con quello olandese, parlo dell’Olanda di Crujff, mica è un caso che alcuni dei calciatori di cui sopra, compreso proprio Jesper Olsen, si fosse fatto le ossa nelle fila dell’Ajax, per poi essere passato a parlare di fumetti e di canzoni che dai fumetti prendevano le mosse, beh, è quantomeno bizzarro, come se non fosse bizzarro buona parte di quel che scrivo, specie di questi tempi.

La kryptonite, quindi.

Se anche Superman ha un suo punto debole, un tallone d’Achille, figuriamoci noi comuni mortali. Ne siamo pieni, di punti deboli, e ci abituiamo giorno dopo giorno a conviverci, a farci i conti, a sopravvivere alla loro presenza nelle nostre vite.

È così anche per gli artisti, che in teoria dovrebbero essere un po’ meno fragili di noi, non fosse altro perché l’avere un pubblico che li segue e che si riconosce nella loro arte, così come avere il successo commerciale, quindi il potere economico che da quel successo deriva, parlo ovviamente di artisti popolari, li dovrebbe rendere in grado di affrontare la vita con più agio di quanto non capiti a noi, lì a sbattere denti e muso contro le intemperie, mica vorrete che a questo punto io tiri in ballo il noto monologo su Superman e Clark Kent che un gigantesco David Carradine fa in Kill Bill II, vero?

Le cose stanno ovviamente in tutt’altra maniera, nonostante la fama, il pubblico adorante, la popolarità e le ricchezze, gli artisti, anche quelli di grande successo, si mostrano sempre come anime in pena, fragili, ferite, incapaci di vivere senza incartarsi, cercando e quasi sempre ottenendo la solidarietà di chi, noi, in realtà se la passa assai peggio, questo anche oggi, epoca nella quale l’invidia sociale è diventata trend topic sui social.

Dico questo, sempre che tutto quello che ho detto fin qui sia riassumibile in un semplice “questo”, perché in questi ultimi giorni i social, proprio loro, hanno riportato a galla un album, e quindi un momento, particolarmente oscuro di una artista che altrimenti ha inanellato in carriera un successo dietro l’altro, Lady Gaga.

I fatti sono questi, più o meno, fresca di campagna elettorale a favore di Joe Biden, e di magistrale esibizione nel giorno del suo insediamento, con il megasuccesso portato a casa con A Star Is Born, prima, film del quale era protagonista al fianco dell’attore-regista Bradley Cooper, entrambi a intascare il premio Oscar come autori della Best Song per Shallow, e poi il ritorno ai fasti del passato, parlo di vendite ma anche di impatto sull’immaginario collettivo, con Chromatica, il suo nuovo album, il settimo in carriera, se ci mettiamo anche quello in compagnia di Tony Bennett, Cheek to Cheek, e la colonna sonora del film su citato, A Star Is Born Soundtrack, Lady Gaga, trentacinque anni compiuti a fine marzo è tornata sotto i riflettori perché sui social è iniziato a rimbalzare con sempre maggiore frequenza, fino a diventare trend topic mondo, il titolo del suo album meno fortunato, Artpop. Pubblicato nel 2013, dopo la scorpacciata di The Fame/ The Fame Monster e Born This Way/Born This Way Remix, singoli come Just Dance, Poker Face, Paparazzi, Bad Romance, Alejandro, Telephone, in coppia con Beyoncé, Born This Way, Judas, The Edge of Glory a tirarne la volata, qualcosa come quasi trenta milioni di copie vendute, comprese le riedizioni e le raccolte di remix, Artpop segna una improvvisa frenata, sia a livello di numeri che di critiche, due milioni e mezzo di copie in tutto il mondo, sempre numeri impressionanti ma assai minori che in precedenza.

Ma non è solo una faccenda di vendite a aver in qualche modo segnato il destino di Artpop, quanto piuttosto una sorta di questine karmica. Nato in un periodo particolarmente travagliato della nostra, al punto da vedere le lavorazioni interrotte per circa un anno, Lady Gaga ha caricato le quindici tracce della versione originale di suoni elettronici piuttosto spinti, accelerando, se possibile, quanto già fatto intravedere in precedenza. Oggi possiamo dire che in qualche modo ha anticipato i tempi, il grande impatto sul pubblico e sulla critica di Chromatica, che ne è fratello minore, parlo di anagrafe, un sontuoso ritorno sia a quei suoni che a quell’immaginario, le stravaganze proposte nei video finalmente tornate, dopo anni di stand-by, questo ci dice, e anche questo rinato amore da parte del pubblico, pubblico che ha lanciato una campagna di raccolta firme per chiedere l’uscita di Artpop II, per altro già annunciata ai tempi, prima che il tutto finisse in un mezzo naufragio.

A parlarne, per altro, non solo la stessa Gaga, intervenuta a più riprese sui social, per dichiarare la propria commozione, prevalentemente, ma anche Dj White Shadow, uno dei produttori che  ha lavorato con lei ai tempi, che in una serie di stories su Instagram si è detto disposto a rimettere mano a quel materiale. Perché sì, Lady Gaga ha nuovamente dichiarato di avere parecchio materiale da parte, abbastanza per un secondo album, fatto che ha ulteriormente attizzato gli ardori dei Little Monsters, i suoi adoranti fan.

Ovviamente, non poteva che essere così, Lady Gaga in questo è sempre stata molto sincera nell’intrattenere un rapporto semi-epistolare con la sua fanbase, sui social, non sono mancati riferimenti a come il periodo di genesi e di pubblicazione di Artpop, parliamo del triennio 2011-2013, è stato davvero oscuro, e l’idea di vedere ora coccolato l’oggetto di tanto dolore non ha mancato di commuoverla.

Guardando a quel che è successo dopo la pubblicazione di quel lavoro, che per altro aveva dentro delle perle mica da ridere, a partire proprio dal singolo di lancio Applause, ricordiamo che ai tempi il brano venne tirato fuori in fretta e furia, anticipando di un paio di settimane il planning, perché leakizzato online, per non dire di Do What U Want o Venus, oltre che il più incredibile artwork dei suoi lavori, lavori che hanno sempre avuto una incredibile attenzione per il lato estetico e iconografico, ricordiamo che già al suo esordio nella Haus of Gaga, il team di lavoro che la affianca nel lavoro sul tutti i fronti, c’era David LaChapelle, nello specifico un’opera dell’artista Jeff Koons, da noi tristemente famoso per essere stato il marito di Ilona Staller, in arte Cicciolina, nei fatti stimato artista di popart, opera che la rappresenta sotto forma di statua, nuda e con una enorme palla blu a coprirne i genitali, sullo sfondo una sorta di patchwork di immagini e opere d’arte che in qualche modo hanno ispirato Gaga nella scrittura dei brani, guardando quindi quel che la carriera della nostra ha affrontato dopo quel lavoro, dal lavoro sullo swing con Tony Bennet all’inizio di una fortunata carriera collaterale come attrice, American Horror Story ottimo punto di partenza, passando per l’album quasi country Joanne, decisamente il più normale, sia come suoni che come iconografia, verrebbe davvero da dire che Lady Gaga abbia impiegato davvero parecchio tempo per pacificarsi con questo lavoro, e vederlo entrare in classifica in mezzo mondo, così, di colpo, è stata davvero una sorpresa per tutti, a partire proprio da lei.

Non credo di essere estremamente obiettivo nei confronti di Stephanie Germanotta, questo il nome all’anagrafe della cantante americana di origini italiane, perché sin dalla sua comparsa dentro la mia televisione, i suoi piedi a uscire dalla Limousine bianca, il fulmine davidbowiano a corredarne la faccia, me ne sono “artisticamente” innamorato. Non è mica un caso se sono stato il primo a scrivere un libro su di lei, quel “Lady Gaga- La vita, le canzoni e i sogni di una bady girl”, uscito nel 2012, e tradotto in diversi paesi stranieri. E non è un caso che io abbia sempre riconosciuto a Lady Gaga la rara capacità di anticipare i tempi, intuire quello che il comune sentire avrebbe decodificato poco dopo, e soprattutto di come sia stata capace, figlia legittima di Madonna, di usare la propria imperfezione per abbattere stereotipi, artista concettuale non a caso al fianco di giganti quali Marina Abramovic e Nobuyoshi Araki, tra gli altri. Diciamo che se Madonna da almeno un ventennio non è più in grado di aprire strade nuove, Lady Gaga è arrivata a metà corsa a prenderne il testimone, facendo di debolezze e diversità parte fondante della propria poetica, e andando quindi a dimostrare di come la musica sia lo strumento più potente, ancora oggi, per abbattere ipocrisie e pregiudizi.

Cosa succederà adesso è difficile prevederlo, l’ingresso in classifiche, prevalentemente iTunes di un lavoro che ormai ha otto anni potrebbe essere un semplice effetto collaterale del tanto affetto che i Little Monster non mancano mai di dimostrare alla propria beniamina, ma scoprire cosa ci siamo persi all’epoca, vuoi perché il mercato è e rimane il padrone di casa, anche quando si tratta di personaggi che hanno l’arte al centro della loro attenzione, vuoi perché per fare i conti col proprio lato oscuro Lady Gaga ha deciso di allontanarsi anche da quella parte di sé incarnata da quella musica così spinta e elettronica, sarebbe davvero una gran cosa. 

Perché se è vero come recitava il claim del film Il danno, tratto dall’omonimo romanzo di Josephine Hart, che chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere, figuriamoci cosa potrebbe mai diventare Lady Gaga, artista che si è sempre tanto spesa, anche a discapito di carriera e successo, nel momento in cui dovesse davvero scoprire di essere in grado di resistere alla propria kryptonite.