Della morte di Kurt Cobain si ricordano i boomer, gli adolescenti di oggi, i detrattori e gli artisti tutti. Se hai 27 anni e hai trovato la chiave di scrittura per parlare al mondo intero del tuo inferno, del resto, non te ne vai silenziosamente. Nemmeno se fai di tutto per prendere a calci l’etichetta da rockstar che il mainstream ti ha appiccicato addosso. Ti prendi una colpa che non hai, perché se Smells Like Teen Spirit è un capolavoro e se Nevermind (1991) è il punto di sutura tra il vecchio e il nuovo rock significa che hai fatto centro, ma forse non volevi questo. Ecco, la tua via crucis è iniziata e non ti resta che la “vergogna del Golgota”.
Il 5 aprile 1994 Kurt Cobain è già sparito nel nulla da diversi giorni. Dal 171 di Lake Washington Boulevard di East Seattle non arrivano segnali. Qualcuno dice di averlo visto circolare nella zona, ma nessuno sa dire altro. Il mese precedente il frontman dei Nirvana è stato a Roma insieme a Courtney Love e la figlioletta Frances Bean e lì, all’Hotel Excelsior di Via Veneto, ha provato a farla finita. Ritornato a Seattle decide di ripulirsi dall’eroina e il 30 marzo vola per Los Angeles per entrare all’Exodus Medical Center.
Il 1° aprile scavalca la recinzione, sale a bordo di un taxi e prende il primo volo per Seattle. Il 3 aprile Courtney Love assolda Tom Grant, un investigatore privato, per ritrovare il marito scomparso. Saranno giorni di silenzio e paura. Kurt Cobain è un ragazzo fragile, un cucciolo spaventato dal mondo che grida la sua rabbia per non farsi morsicare dal successo. Ha fatto la rivoluzione, ma si è ritrovato a manovrare una macchina più grande di lui.
Fino a quell’8 aprile, quando l’elettricista Gary Smith trova il corpo. La morte di Kurt Cobain è arrivata 3 giorni prima, con una fucilata su quel volto che lui ha odiato sempre di più.