La musica che ci fa girare intorno, JLo segna per noi

Jennifer Lopez e il suo album di debutto On the 6 ci ricordano che noi nati nel 1969 siamo decisamente una spanna sopra tutti gli altri


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Vengo da una città di provincia. Vengo da una città di provincia che non ha grandi città intorno. Ancona, questa la città dove sono nato e dove ho vissuto i primi ventotto anni della mia vita, è lì, a metà dello stivale, Bologna, Perugia, Pescara a distanza non troppo ingombrante, Roma un po’ più lontana, ma comunque a portata di treno in giornata. Una città di provincia comunque piuttosto isolata, nonostante la sua ambizione a essere porta di accesso dai Balcani, affacciata com’è sull’Adriatico, a suo modo sul Mediterraneo.

Per questo il mondo mi ha sempre affascinato, prima come concetto, poi come spazio altro da me e dalle mie radici da andare a visitare.

Quando ero piccolo, un bambino, mi perdevo dentro i libri d’avventure, su tutti quelli di Emilio Salgari, la saga dei pirati di Mompracem, quella del Corsaro Nero, l’idea che un giorno sarei andato anche io, come Sandokan, nell’isolotto della Tigre della Malesia mi ha sempre fatto sognare a occhi aperti, figuratevi l’emozione quando, ormai adulto, ci sono andato davvero. Salgari, del resto, quei lidi così esotici e lontani, descritti nei minimi dettagli, si è limitati a raccontarceli, senza averli mai potuti visitare. Mompracem, che nei fatti neanche esiste, con quel nome lì, è l’isolotto di Kuraman, di fronte al porto franco di Labuan, in quei romanzi sede della residenza di Marianne, la donna amata dal pirata malese, nipote del cattivo di turno, Lord James Brooke, è diventata un luogo ideale per tutta una generazione, quella che si è appassionata al telefilm di Sergio Sollima,  con Kabir Bedi. Chiunque abbia una vaga idea del mio aspetto anche oggi che ho quasi cinquantadue anni trova già tutte le risposte che gli possano essere venute in mente.

Nei fatti ho iniziato a girare il mondo, prima l’Europa e poi il mondo, quando sono diventato un ragazzo, i primi soldi messi da parte con lavoretti di poco conto, i miei a aiutarmi col resto, le capitali Europee, ovviamente, Parigi, Vienna, Londra, le spiagge greche, io che vengo da una città fondata dai Dori, Ancona, e che stando sempre alla fisiognomica qualcosina dai greci dovrei aver ereditato, naso importante, carnagione olivastra, capelli ricci e scuri, come scuri sono gli occhi, una faccia una razza, dicevano da quelle parti i camionisti che arrivavano con le navi direttamente dal Pireo e diretti al nord.

Poi, trasferitomi a Milano, ho iniziato a viaggiare per lavoro, con quella casualità neanche troppo inseguita che vi ho raccontato anche pochi giorni fa, ho pubblicato il mio primo libro di racconti, “furibonde giornate senza atti d’amore”, se ne è parlato un po’, il caporedattore di Gente Viaggi, Franco Berton Giachetti mi ha invitato a scrivere un reportage per loro, su una zona a me cara, i Monti Sibillini, e proprio quando questo reportage è entrato in scaletta, per un numero del 1999, a dirigere il giornale, ai tempi il più importante giornale italiano di viaggi, nonché il più antico, è arrivato un mio ex collega di Panorama, Silvestro Serra, magazine per il quale nel mentre avevo iniziato a scrivere di musica, esattamente per i medesimi motivi, ero un giovane scrittore di cui si stava parlando.

Questo fatto, lo dico senza paura di critiche o altro, sono passati oltre venti anni e quella è una parte della mia vita ormai relegata ai ricordi, ha contribuito a lanciare per qualche tempo la mia carriera di reporter, un nuovo direttore di una rivista, per sua natura, porta i suoi collaboratori, per rinnovare il parco firme e anche per dare il suo stile al giornale, e io arrivavo proprio a fagiolo. Poi, lo dico anche qui senza paura di smentita, ho sempre avuto idee piuttosto originali, e l’essere uno scrittore e anche uno che si occupa di musica, ha contribuito a fare di me una firma riconoscibile, e comunque con Silvestro Serra sono sempre andato molto d’accordo. Così, di colpo, non c’era mese che non mi trovassi a fare un viaggio, ho coperto buona parte dell’Europa, in modo particolare Gran Bretagna e Spagna, ma sono andato anche altrove, Sud e Centro America, Africa, con due viaggi importanti che hanno in qualche modo segnato la mia poetica, uno fatto da costa a costa con Cristina Donà, negli Stati Uniti, sulle orme delle canzoni di Bruce Springsteen, era il ventennale dell’uscita del doppio album The River, capite bene come ogni scusa fosse buona per muoversi, e da quel viaggio scaturì non solo un reportage che finì in copertina nel numero del venticinquennale di Gente Viaggi, ma anche un libro a doppia firma per la Mondadori, God Less America, ancora oggi uno dei miei che più amo, l’altro proprio in Malesia, un mese intero a toccare i luoghi salgariani, quindi nel Borneo, e un paio di puntate più a nord, una LangKawi e una a Kuala Lumpur.

È in quell’occasione che ho messo piede, secondo italiano nella storia, a Mompracem, isolotto al largo di Labuan indicato nelle mappe come Kuraman e assolutamente disabitato, lì ho preso un po’ di sabbia di Mompracem, portandone poi ricordo a due colleghi altrettanto appassionati di Sandokan e Salgari, Ferruccio Parazzoli e Paco Ignacio Taibo II.

Finita quell’esperienza, dopo aver vagheggiato di diventare una specie di corrispondente da Cuba, prima che il governo mi mettesse al bando in quanto “persona non grata”, cioè non gradita, aver raccontato come la rete fosse inibita alla cittadinanza, e quindi Cuba risultasse qualcosa di molto simile alla Matrice del film dei fratelli Watchowski mi è costata caro, chissà se nel mentre la fatwa è terminata, morto Fidel Castro, e aver anche provato a costruire un simile ruolo verso il sud-est asiatico, dopo il mese trascorso nel Borneo avrei dovuto attraversare la Cina in treno, sulle orme di Paul Theroux e del suo libro Il gallo di ferro, ma è arrivata di lì a poco la Sars a rendere impraticabile il turismo a medio termine verso quei lidi, e di conseguenza anche le riviste di viaggio, già messe a dura prova dall’11 settembre, hanno ritirato i remi in barca, per altro destinate di lì a poco a una forma anomala di estinzione, quando infatti Serra ha lasciato Gente Viaggi per approdare al Touring, il giornale ha chiuso, o forse le due cose sono avvenute invertendo cronologicamente i fatti, non ricordo, lasciando un vuoto in edicola che nessuno è andato a colmare.

Lo stesso è accaduto con la rivista con la quale ho sostituito per un po’ Gente Viaggi nel mio portfolio collaborazioni, Viaggi e Sapori, destinata dopo un paio di anni a chiudere a sua volta. Non che io le battezzassi, le riviste, intendiamoci, o meglio dessi loro l’estrema unzione, è proprio che il mercato si è andato incancrenendo, oggi credo che quella fetta di mercato editoriale sia praticamente scomparsa.

Per qualche anno ho scritto libri di viaggio, penso a Tangenziali, che parlava di Milano, è vero, città nella quale abito, ma con lo spirito degli psicogeografi, a firmarlo io e Gianni Biondillo, come a Seppelliti il mio cuore sul Monte Conero, che invece parla della mia terra natia, ma penso soprattutto al libello London On the River, un giro in bicicletta per la capitale britannica, e ai dodici tomi dedicati a altrettante città europee usciti in dodici mesi dal nome Europe, tour de force non solo letterario ma anche letterale che, al momento, ha messo fine a quella parte della mia scrittura.

Nonostante io abbia stretto così tanti rapporti in quegli anni, tra uffici stampa e enti del turismo esteri, e nonostante mi sia fatto un nome nel settore, ero prima firma tra i collaboratori della principale rivista di viaggi italiana, ho lasciato che questa parte di me entrasse in stand by, e in questo sicuramente la contingenza ha avuto un bel peso, ho avuto quattro figli, due dei quali proprio durante quel periodo così florido da questo punto di vista, e nel mentre ho intrapreso con più costanza la carriera di biografo di rockstar e popstar, per poi tornare a vestire i panni del critico musicale quasi a tempo pieno. Ho pensato più volte di riprendere a scriverne, magari in rete, i blog hanno sostanzialmente preso il posto lasciato vuoto da quelle riviste, ma la musica ha decisamente preso il sopravvento.

Resta che sono partito da un piccolo posto di provincia, isolato nonostante sia affacciato sul mare e ambisca a essere porta di ingresso dai e per i Balcani e il Mediterraneo, e per qualche tempo casa mia è stata il mondo.

Una cosa che ha sempre caratterizzato i miei viaggi, fatti nella quasi totalità dei casi da solo, qualche rara volta in gruppo, un paio di volte con la sola compagnia di un fotografo, è essere andato alla ricerca della musica locale, visitando i negozi di dischi, quando i negozi di dischi esistevano, e tentando di andare in qualche locale dove si faceva musica dal vivo, e tornando quindi sempre con qualche cd dentro la valigia, devo dire che ero davvero molto bravo a fare le valige, ai tempi, pensate alla valigia per un viaggio lungo un mese, e che preveda per le ultime sere abiti eleganti e stirati, questo è successo in Malesia, il trucco di infilare gli abiti tra materasso e rete, usando asciugamani per non farli rigare me lo aveva insegnato credo proprio Serra, e lo stesso ho fatto coi libri, un libro almeno a viaggio, non so parlare molto bene inglese, avendo io fatto il Classico ai tempi in cui lo si studiava solo al Ginnasio e non avendo mai praticato molto, se non appunto nei viaggi, mi trovo sempre a disagio a parlarlo, anche se all’occorrenza so farlo e lo faccio, ma so leggere molto bene in inglese, ho tradotto per anni romanzi e saggi per la Mondadori, quando capita leggo anche oggi in inglese libri o articoli.

Del resto, nonostante questa mia evidente difficoltà, il dover sempre ingranare prima di parlare fluentemente, ho sempre preferito viaggiare da solo, così da potermi serenamente perdere, ahi, la psicogeografia, o ritagliarmi interi pomeriggi da passare al museo, per anni sono capitato più e più volte a Londra, sempre andando alla Tate Gallery a incantarmi nella sala dei Preraffaelliti, l’Ophelia del Millais uno dei miei dipinti preferiti di sempre, ma, rimanendo a Londra, anche andare per quartiere sconosciuti, ricordo ancora oggi la prima volta che sono capitato a Brixton, ancora considerato rischioso e esotico, probabilmente il solo bianco in circolazione per qualche chilometro. Non avere un programma rigido era parte integrante del mio viaggiare, e dove potevo ho sempre cercato di partire in quel modo, improvvisando, come fossi davvero alla deriva.

Finita quell’esperienza, ho continuato a viaggiare con la mia famiglia, prima inseguendo mia moglie Marina, che per un paio di anni ha girato a sua volta Europa e USA per un corso professionale, io e i due figli grandi, i gemelli non erano ancora arrivati, a raggiungerla attaccando qualche giorno di vacanza a quei master, poi, da circa sei anni, da quando cioè i gemelli sono diventati abbastanza gestibili da porter ipotizzare un viaggio in aereo, e poi in giro per città straniere e nazioni straniere, abbiamo ripreso a organizzarci con vacanze che ci permettessero di mettere insieme le varie necessità generazionali che una famiglia come la nostra presenta, qualcosa cioè che fosse alla portata di adolescenti e bambini, oltre che di adulti, e che fosse anche a portata di portafogli, la leggenda che dove si sta in due si sta in tre è una emerita puttanata, i biglietti di aerei si pagano a testa, non a forfait, e idem i posti letto in alberghi o case.

Anche un anno fa, quando la pandemia ci ha colti tutti di sorpresa, l’ho raccontato quando questo diario ha iniziato a prendere forma, con Marina, mia moglie, si stava pensando a come proseguire nella nostra perlustrazione familiare dell’Europa, dopo aver toccato la Romania, viaggio strabiliante, abbiamo fatto Ungheria, Polonia e via, fino a Berlino, stavolta pensavamo di partire dalla Repubblica Ceca per risalire o fino a Varsavia o, toccando parte della Germania, fino alla Danimarca. Poi niente.

Tutto si è vanificato, e anche ora star lì a progettare viaggi che con buona probabilità richiederebbero un patentino vaccinale che nessuno di noi potrebbe esibire sarebbe cosa folle, o quantomeno autolesionista.

Potrei fingere che questi ragionamenti sul mio passato remoto mi siano giunti così, perché sotto pandemia mi sono concentrato piuttosto sul passato, ancora più remoto, come a voler trovare nei ricordi quel conforto che il mondo là fuori al momento sembra non potermi concedere, magari lasciando che a entrare in campo, stavolta, sia più l’idea di riprendere a girare il mondo, anche solo l’ipotesi che ciò torni possibile, a farla da padrona, nostalgia che si mescola a malinconia, dando vita a quello strano fenomeno di saudade per un luogo nel quale neanche siamo mai stati, ma nei fatti è successo che, più annoiato che malinconico, mi sia messo a dare un’occhiata distratta a una nuova serie da poco apparsa su Netflix, che diciamolo, al momento sta spettinando decisamente Amazon Prime e Sky sul fronte serie, Sky Rojo.

Una serie al femminile, ho letto, la storia di tre ragazze che scappano da un bordello a Tijuana, quando a un certo punto, dopo pochi minuti dall’inizio, in un’atmosfera da lutto, eros e thanatos tirato in ballo in maniera neanche troppo subliminale, lutto che immagino troverà spiegazione più avanti nel corso dell’episodio, confesso che l’ho mollato in quel punto, è partita una versione devastante di Perfidia, canzone di Xavier Curat qui interpretata, ho scoperto grazie a Google, da Los Panchos, nome che di suo non mi avrebbe indotto a nessun tipo di ascolto, sbagliandomi di brutto, dietro quel nome naif si nasconde un trio che ha inciso per anni i maggiori successi di musica latina, vendendo centinaia di milioni di dischi nel mondo, a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale fino a oggi, ovviamente con altri interpreti che nel corso degli anni hanno sostituito i fondatori, e così, nel giro di pochi secondi mi sono ritrovato seduto a un tavolo scalcinato nel centro de L’Havana, un mojoto con troppo ghiaccio in  mano, teletrasportato alla velocità della luce, anzi, del suono, perché credo che questo potere lo abbia solo la musica.

Quell’attacco col giro di chitarra malinconico e i versi “Nadie comprende lo que sufro yo”, “nessuno sa quanto io stia soffrendo”, via via fino a quel ritornello così clamoroso, le parole “Mujer, si puedes tu con Dios hablar, preguntale si yo alguna vex, te he dejado de adorar”, “donna, se puoi parlare con Dio chiedigli se io abbia mai smesso di adorarti”, parole così intense, quella melodia che si apre su quel ritmo sincopato, sono davvero un biglietto per sola andata per i Caraibi, anche in questi giorni di lock down e di pandemia.

Un po’ come succede ogni volta che sento i versi epici “Aprendimos a quererte, desde la historica altura, donde el sol de tu bravura le puso cerco a la muerte”, incipit di Comandante Che Guevara, da noi nota più come Hasta Siempre Comandante, canzone capace non solo di struggermi e tagliuzzarmi il cuore a pezzetti, ma di evocarmi profumi e colori così vividi da sembrarmi veri, anche qui in casa, la bara del comandante vista a La Havana, subito dopo la scoperta dei resti mortali e prima che li mandassero a Santa Clara.

Sì, anche a Cuba ho fatto un coast to coast, da Varadero a Santiago de Cuba, da ovest a est, con deviazioni verso sud, Santa Lucia, Cayo Coco, io e mia moglie, in quel caso, uno dei rari viaggi di lavoro fatto con lei, Madonna, sto per sprofondare talmente tanto nella saudade che mi sa che lascio perdere di scrivere questo capitolo del mio diario del lock down e mi metto a comporre una bossanova.

Un po’ come la Jamie Lee Curtis, che perdeva la testa al solo sentire parlare spagnolo da parte di John Cleese nel film Un pesce di nome Wanda, in italiano nella versione originale, mi ritrovo a cercare compulsivamente nella mia discoteca brani che evochino in me quei ricordi, finendo per ritrovarmi a canticchiare anche Corazon Espinado di Carlos Santana in compagnia dei Manà, No me ames, versione latina del Non amarmi di Aleandro Baldi e Francesca Alotta interpretata da una giovane Jennifer Lopez in compagnia di Marc Anthony, Dejera Todo di Cheyenne o La tortura, di una Shakira in vero stato di grazia con Alejandro Sanz, anche io come lui a ripetermi mentalmente “Yo sé que no he sido un santo, pero ko puero arreglar, amor”.

Ecco, due di questi brani, per la precisione No me ames e Dejera Todo, nel caso vi chiedeste chi sia Cheyenne, beh, sappiate che è una popstar famosissima in Sud e Centro America, da noi comparso brevemente nel passaggio tra i due millenni per aver duettato con Anna Oxa col brano Camminando Camminando. Entrambe sono state la parte portante della colonna sonora del mio viaggio di nozze, Messico e Cuba, esattamente nello stesso anno del passaggio di Cheyenne al nostro Festivalbar, il 1999, entrambi capaci di proiettarmi su un pullman che mi trascina con Marina a spasso per lo Yucatan, o giù fino a Oaxaca, le chapulines che non abbiamo azzardato a assaggiare al mercato coperto, una giornata piovosa a Merida, un paio di Diaquiri presi a bordo piscina in un hotel nel bel mezzo del niente, una stanza che i ventilatori a pale non potevano rendere meno afosa a Playa del Carmen, a due passi dal mare, i ricordi più belli legati al sudore.

Giorni spensierati, quelli, felici, non che non ce ne siano stati migliaia anche dopo, nonostante possa sembrare il contrario non c’è giorno che passi che non ringrazio Dio per poter passare questo periodo anomalo e difficile in seno a una famiglia come la mia, circondato dalle persone che amo, il pensiero che corre alle situazioni tossiche che in molti si saranno trovati a farsi andar bene in clausura, un vero inferno nell’inferno, al punto di andarmi a riascoltare canzoni oggettivamente imbarazzanti, dense di melassa, cariche di enfasi, i violini finti, il sovraccarico di chitarre acustiche a doppiarne i fraseggi, le voci neomelodiche, le soluzioni più pacchiane, a livello di armonia e melodia, affrontate con spavalda impunità, un voler giocare coi sentimenti che non prova neanche a fingersi più articolato dell’elementarità che invece cavalca, quei ritornelli ripetuti allo sfinimento.

Musica che però oggi mi sembra bellissima, non solo e non tanto per quella faccenda del rievocarmi ricordi di momenti passati che sono incisi in un posto particolarmente caro del mio cuore, ma anche per quel loro rievocarmi luoghi che oggi come oggi sono tornati a essere lontanissimi, forse anche più di quanto non fossero per i nostri antenati all’epoca delle migrazioni, io e Marina i primi delle nostre rispettive famiglie a oltrepassare gli oceani, per scelta e non per costrizione e necessità.

So di aver vanificato in parte ciò che avevo scritto. Avrei voluto parlare di musica etnica, magari parlarvi del Rain Forest Festival, di quando ho suonato uno strano strumento simile a un gigantesco sitar nel cuore della foresta pluviale o mi sono trovato a appoggiare le mani su un piano negli studi della Motown, a Detroit, tasti bianchi e neri che probabilmente avevano visto e sentito le mani di un Marvin Gaye o di uno Stevie Wonder, invece sono finito a piagnucolare abbracciato al mio stereo canticchiando “Dime porqué lloras de felicidad, Y porché te ahogas por la soledad” ripensando al me stess trentenne che si perde negli occhi di una Marina ventinovenne, Jennifer Lopez e il suo album di debutto On the 6 a farci da colonna sonora e a indicarci orgogliosa la certezza che noi nati nel 1969 siamo decisamente una spanna sopra tutti gli altri, oggi come allora.