Il pop è donna, nonostante la Pausini e la Michielin

Per capire l'importanza delle donne in questo genere, bisognerebbe spostare lo sguardo dagli stereotipi che le due cantanti rappresentano


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Il pop è donna.

La musica è donna.

Rispetto.

L’altro giorno mi è capitato praticamente di continuo di leggere queste due frasi. La prima, il pop è donna, in relazione alla assegnazione dei Grammy Awards 2021. Fra poco andrò più nel dettaglio. La seconda per tutta la metropolitana di Milano, linea MM2. Cartelloni pubblicitari griffati Warner, con i volti delle artiste del loro roster, Sia e Laura Pausini le più presenti. Un modo molto glamour per fare gli auguri alle viaggiatrici ATM milanesi per l’8 marzo.

Il pop è donna.

La musica è donna.

Due messaggi simili, forse, visto che la musica cui faceva riferimento la cartellonistica della Warner era prevalentemente se non totalmente pop, la medesima scritta, declinata in due modi diversi.

Del resto, diamo un’occhiata veloce e volante a chi quei Grammy se li è portati a casa, è vero che mai come quest’anno la manifestazione americana che è il corrispettivo musicale indiscusso di quello che gli Oscar sono per il cinema, ha visto protagoniste artiste donne. A partire da Beyoncé, non vincitrice dei premi più ambiti, certo, ma che avendo raggiunto quota ventotto Grammy in carriera è al momento la donna con più statuette al mondo, ventotto, mica noccioline. Vincitrici assolute sono Billie Eilish col suo Everything I Wanted, Record of the Year e poi Best Song Written for Visual Media per No Time to Die, H.E.R., che con la sua I Can’t Breathe, sentita e paracula, ha vinto il premio come Song of the Year e con Better Than I Imagine, di Robert Glasper e insieme a Meshell Ndegeocello ha vinto il Best RnB Song, Taylor Swift che giustamente si è portata a casa la statuetta come Album of the Year col suo Folklore, Megan Thee Stallion, rispettivamente Best New Artist e Best Rap Performance nonché Best Rap Song con il brano Savage, in compagnia proprio di Beyoncé, Ledisi che ha vinto il Grammy come Best Traditional RnB Performance con Anything for You, Lady Gaga e Ariana Grande che hanno intascato il Best Pop Duo con Rain on Me, Dua Lipa cui è andato il Best Pop Vocal Album per Future Nostalgia, l’assente giustificata Fiona Apple, che ha dichiarato di non poter andare perché ha smesso di bere e senza bere non sarebbe riuscita a sopportare la pressione della serata, che ha vinto il Best Rock Performance con Shameika, e il Best Alternative Music Album con Fetch the Bolt Cutters, la già citata Beyoncé, che tra gli altri ha portato a casa il Best RnB Performance per Black Parade, Brittany Howard, che ha vinto il Grammy Best Rock Song con Stay High, più altri premi minori.

Una vera infornata di Grammy, come mai era successo prima, anche se ormai da anni è davvero facile approntare l’assioma musica pop=donne.

Non credo servano citare le già citate Beyoncé, Billie Eilish, Lady Gaga, Ariana Grande, Dua Lipa, Taylor Swift e compagnia bella.

Tutto vero, e soprattutto tutto molto bello, del resto sarebbe difficile negare quanto personaggi come Madonna, Mariah Carey, Whitney Houston e poi Jennifer Lopez, Britney Spears, Christina Aguilera, Katy Perry, Miley Cyrus, Cardi B, Nicky Minaj, Sia, Rihanna e via via fino appunto alla giovanissima Billie Eilish, l’anno scorso assoluta vincitrice con cinque premi, seguita da Lizzo, tre premi ma otto nomination, hanno fatto per il pop nel corso degli ultimi… mhmmm quarant’anni.

Ne prendiamo atto, certo, l’evidenza è ineluttabile, ma è anche vero che guadare a casa nostra è quel che più ci viene spontaneo in questi frangenti, non fosse altro che già di suo le canzoni e gli album in gara, per non dire dei vincenti, se confrontati coi nostri, il ricordo di Sanremo è troppo vicino per non spingerci a un qualche paragone immediato, sono di un livello talmente alto da lasciare quasi un senso di disagio, tanto più considerando che per motivi che ci sfuggono, e che sono stati abbondantemente discussi e, immagino, ancora lo saranno, dalla corsa ai Grammy è stato escluso The Weeknd, uno che magari avrebbe messo in crisi il concetto di partenza di questo capitolo del mio diario, ma che indubbiamente ha fatto un discone di quelli che difficilmente ci dimenticheremo (non fosse altro perché è ancora in alto nelle classifiche di mezzo mondo da oltre un anno).

E nel guardare a casa nostra, ritornando a soffermarci su quel punto di partenza così fermo e preciso, quasi uno slogan, viene da mettersi le mani tra i capelli, poi tirarli e finire per dare una testata piuttosto secca contro uno spigolo particolarmente acuto, nella speranza recondita di perdere i sensi.

Lo dico negli stessi giorni in cui, infatti, da noi ci si esalta, in maniera piuttosto scomposta, con cori da stadio e suoni di vuvuzelas, per la Nomination ai Premi Oscar ottenuta da Laura Pausini per il brano Io sì (Seen), evento che non ha fatto mancare di spingere i più a parlare di orgoglio italiano, per altro nomination arrivata alla canzone Io sì, è l’Oscar come Best Song quello in questione, e al massimo alla Pausini come coautrice con Niccolò Aglierdi di parte del testo, Diane Warren di tutta la parte musicale e del testo originale, chi interpreta le canzoni neanche viene menzionato, ma questa è una precisazione più rivolta ai media, che hanno distorto la notizia: amici, non è la Pausini che potrebbe vincere l’Oscar, e in tutti i casi la sua sarebbe una vittoria al 25%, sempre che non abbia solo firmato il brano in questione, pratica piuttosto diffusa e lecita, credo, dovevate strillare nei titoli anche loro, la Warren e Agliardi, e dirla giusta, così è solo dopare una notizia, dimostrando gran provincialismo e partigianeria, sempre che una nomination agli Oscar abbia in effetti questa rilevanza (le nomination per costumi e make up di Pinocchio mi sembra se le siano cagate pochino. Diciamocelo).

Quanto al resto, credo che l’idea che il nostro pop abbia come massima esponente, come eccellenza, non una Beyoncé, una Lady Gaga, un Billie Eilish, una Lizzo, appunto, ma neanche un Megan thee Stallion, è avvilente, non perché sia da guardare con disistima la Pausini, ci mancherebbe, le auguriamo una vittoria a Los Angeles, quanto perché la Pausini è la fotografia plastica proprio di come il nostro pop non abbia fatto neanche un passo in avanti, immobile da decenni, e non è mica un caso che per arrivare a quel traguardo si sia dovuta spendere in prima persona una hitmaker quale Diane Warren, altra donna del pop americano, per altro con una canzone che in qualche modo rovescia tutti gli stilemi tipici del laurapausinismo, niente urla, niente acuti enfatici, niente ritornelli epici. Vuoi vincere un premio internazionale che non si rivolga al pubblico latino?, si devono essere detti, cambia registro, santa Sofia Loren. Ma di pop italiano, qui, di cultura italiana, tanto per evocare le sue dichiarazioni post-nomination, che parlava di un passo avanti per la cultura italiana, ce n’è praticamente zero.

La Pausini è una popstar, è evidente, e sicuramente è la nostra popstar più famosa all’estero, ha successo, in Sud America più che altrove, ha vinto un Golden Globe e ha una candidatura agli Oscar, e anche qui, non ci piove, tutto meritato, dare al pubblico che vuole prodotti facilmente digeribili quel che chiede, ma non è rappresentativa di una qualche novità in campo musicale, neanche di uno standard classicizzato, quanto piuttosto di un modo vetusto di fare pop, puntato sulle note alte, la voce potente, i sentimenti a buon mercato, prodotti dozzinali che, in quanto dozzinali diventano di massa, in giro si vedono più vestiti di marchi a buon mercato e di scarsa qualità che abiti di alta sartoria, è un fatto, direi che su questo tutti siamo concordi, e il fatto che sia anche una delle poche artiste, Dio mi perdoni, che il nostro già di suo maschilista ambiente è riuscita a stento a partorire è qualcosa su cui credo ci dobbiamo tutti fermare a riflettere.

Questo è il problema infatti, la scena pop italiana è saldamente in mano agli uomini, e non c’è certo stato bisogno dei Grammy al femminile per scoprirlo, parlo almeno per me, e le donne che lo frequentano, le poche donne che lo frequentano, sono tutte formalizzate in un canone ristretto, poco ingombrante, rassicurante, coprotagoniste di un copione che le relega in posizioni anche evidenti, almeno nel caso della Pausini, ma mai necessario e significativo. Interpreti di canzoni leggere, che magari fanno anche grandi numeri ma che a ben vedere occupano una porzione assai ristretta del sistema musica, cui viene concesso giusto il lusso degli applausi se portano a casa qualcosa dall’estero, dimmi tu se mi tocca difendere la Pausini, ma che in patria non verrebbero mai prese in considerazione che per altro che non sia lo stare in superficie, pop, certo, ma ininfluente a livello culturale e sociale, alla faccia del Grammy arrivato a H.E.R. per I Can’t Breathe, canzone chiaramente premiata non tanto per la bellezza del brano in sé, ma per il richiamo evidentissimo e strillato alla vicenda dell’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto di Minneapolis e del conseguente movimento Black Lives Matter.

A dimostrazione di come il tema mi stia a cuore prendo spunto da una artista verso la quale non nutro alcun interesse o stima, Francesca Michielin. Artista vista anche recentemente al Festival della Canzone Italiana, piazzatasi seconda con Chiamami per nome, in compagnia di Fedez, e sulla cui presenza in molti hanno ironizzato, sarebbe stata proprio la figura di Fedez al suo fianco il lasciapassare per essere lì, e sarebbe la presenza di Fedez, o meglio di sua moglie Chiara Ferragni, lì a chiedere voti ai suoi milioni e milioni di followers sui social a averla proiettata così in alto.

Una artista che, uscita una decina di anni fa da X Factor, ha avuto una carriera importante, seppur, onestà intellettuale mi spinge a non lesina critiche anche in questo frangente, assai poco a fuoco.

Dal giorno del suo ventiseiesimo compleanno, il 25 aprile, Francesca tiene un podcast dal titolo “Maschiacci- Per cosa lottano le donne?”, su temi che col femminile, il mercato e il mondo dello show biz hanno più che qualcosa a che fare. Il claim di lancio del tutto, nella prima puntata ospitava Matilda De Angelis, di lì a poco con lei sul palco dell’Ariston, suonava così: “Perché un uomo che scrive le sue canzoni è per tutti un cantautore, mentre una donna che scrive le sue canzoni per tutti è solo una cantante? Chi ha deciso che gli uomini si possono vestire solo di certi colori? Perché le femmine non possono giocare a calcio o intendersi di sport? Chi ha stabilito che c’è un femminismo giusto e uno sbagliato?”

Tutte domande assai legittime, sulle quali la Michielin gioca con leggerezza ma certo non scansando la pesantezza delle questioni affrontate, provando a cercare risposte in compagnia di ospiti e rivolgendosi a un pubblico giovane che magari su queste questioni non si è ancora ma soffermato. Ma, c’è un ma, grande come una casa.

Provo a fermarmi sulla prima domanda, che per altro è un tema a lei piuttosto caro, visto che rivendica da tempo quel ruolo.

Ne parlava giorni fa nel corso di un’intervista con Mattia Marzi su Rockol, nella quale specificava che sta ormai da qualche anno scrivendo con continuità canzoni, canzoni che ancora non hanno visto la luce, superate nella corsa alla pubblicazione da altre più coerenti coi vari progetti che ha di volta in volta promosso, ultimo dei quali Feat, un lavoro che ha recentemente visto la sua seconda pubblicazione e nella quale la Michielin collabora con artisti di natura varissima, il titolo è piuttosto emblematico, dimostrando una grande eccletticità, a volerla vedere in positivo, o una certa sfocatezza, a voler essere critici.

Partiamo proprio da lei, allora.

Sulla Michielin il mondo del pop, diciamo la discografia tutta, ha puntato in maniera piuttosto consistente, senza per altro un supporto notevole da parte dei numeri, non stiamo certo parlando di una blockbuster come la Pausini.

Forte del management giusto e soprattutto riconosciuta da X Factor come la sola candidata a seguire le orme di Mengoni come “una che ha vinto quel talent e ce l’ha fatta”, l’abbiamo vista promuovere come The Next Big Thing, poi come la polistrumentista, che nei fatti, all’epoca, suonava poco e male il pianoforte, cui ha aggiunto, sempre poco e male un timpano, un basso, ora invece studia al conservatorio, ma promuovere come polistrumentista qualcuno che ancora deve iniziare a studiare è come dire che uno che si iscrive al Classico è nei fatti un linguista affermato, un filologo, o quel che è, ora è la volta della cantautrice, anche questo rimarcato e rivendicato a gran voce.

Se a questo punto dicessi che dietro questo c’è un management forte, il medesimo di Mengoni, Cattelan, i Maneskin, almeno fino a qualche tempo fa, adesso non saprei, verrei accusato di essere uno che prova a sminuire il valore di una artista, e l’indicare il fatto che la manager in questione, Marta Donà, sia una donna, a poco servirebbe a salvarmi da questa accusa, lo so. Ma tant’è.

Proviamo a essere pragmatici, la canzone presentata a Sanremo, per dire, era firmata da sei autori, tra cui lei. Tanto basta a farcela indicare come cantautrice? Ho seri dubbi a riguardo.

Nel libro Il canone dei cantautori italiani, il critico Paolo Talanca, rifacendosi ai testi dei nostri colleghi che prima di lui si erano occupati di questo tipo di studio, indica due caratteristiche fondamentali per riconoscere la figura del cantautore, cioè colui che scrive musica d’arte o d’autore, il fatto che chi venga indicato come cantautore scriva e canti le sue canzoni, e le scriva da solo o, è il caso della coppia Gaber-Luporini, per dire, lo faccia in compagnia di un autore col quale in qualche modo forma una coppia artistica ferma, e che le canzoni che propone rispondano al trittico voce-melodia-armonia. Non sposando in pieno le conclusioni alle quali in quel testo, per altro fondamentale, Talanca giunge, mancano proprio le cantautrici, per dire, mi sembra evidente che la Michielin non rientri esattamente nel novero dei cantautori.

Per una questione di sessismo, di maschilismo?

Non credo, per una questione di metodologia, codicologica, semmai, ma è una metodologia che riguarda anche artisti uomini, esclusi da quel novero per i medesimi motivi. Mahmood nel momento in cui sforna una canzone scritta con altri cinque artisti è un cantautore? No, è evidente, poco cambia che qualcuno lo definisca così, c’è anche chi chiama Rovazzi cantante.

Non voglio soffermarmi a parlare della Michielin, non è di lei che sto parlando oggi, ma credo che anche il suo essere stata promossa come portatrice di istanze del genere sia figlio di un certo sessismo della macchina, e mentre lo dico mi ammanto del costume da mansplainer.

Credo, cioè, che sia assai più semplice lasciare che certi temi passino per bocca di una artista piuttosto irrilevante e bidimensionale come lei, innocua, piuttosto che lasciare che a occuparsi di questi temi sia chi, in fondo, il tema dell’essere autrici e essere riconosciute come autrici da un sistema fondamentalmente chiuso, che lascia alle donne giusto il contentino di qualche casella irrilevante, le interpreti dalla voce chiara e potente, quello della starlette affascinante, quello della popstar a uso adolescenziale che esce dai talent, sia una mossa di comodo, una quota rosa sì inutile e anche depotenziata, “simpatica”, laddove dovrebbe esserci uno scontro intellettuale, anche sanguinario e comunque sanguigno, difficile sostenere una tesi legittima se a farlo è chiamata chi quella tesi non ha le credenziali per sostenerla.

Certo, vale anche il discorso contrario, lei arriva a un pubblico più ampio, ben venga che si occupi anche di tematiche impegnate, ma farlo all’acqua di rose, temo, a poco serve, e soprattutto farlo senza credibilità inficia il tutto.

Torniamo al concetto di musica è donna.

Su questo la Michielin potrebbe rivendicare con tutte le forze che ha in corpo, e io sarei al suo fianco seppur la consideri artisticamente irrilevante, al pari di tanti, tantissimi artisti uomini, sia chiaro, Fedez, per dire, lo vedo diversi gradini più in basso di lei, ma forse neanche lo vedo nella medesima scalinata, sul fronte del cantautorato, invece, non ci siamo proprio, come non ci saremmo se a rivendicare i medesimi riconoscimenti fosse uno dei tanti irrilevanti interpreti pop che chiedono di essere riconosciuti come cantautori perché firmano con altri sei autori una loro qualsiasi canzone pop.

Uno a questo punto potrebbe chiedersi perché io, per provare a mettere in risalto una clamorosa falla del sistema musica, che vede in Italia una controtendenza rispetto quel che sta accadendo nel resto del mondo, qui siamo ancora in un mondo clamorosamente di uomini, le classifiche parlano chiaro, anni e anni di top 10 dominate da uomini, siano essi autori storici, trapper o cantautori indie, stia sostanzialmente smontando le tesi di una giovane artista che a queste tesi si dedica sul suo podcast e veicolando i medesimi pensieri nelle interviste?

Domanda lecita, certo, ma credo che quello che la Michielin stia facendo sia esattamente il corrispettivo di infilare un personaggio gay in certe nostre serie tv anni zero, penso a Commesse, una macchietta tutta sensibilità e atteggiamenti frou frou, mentre nel resto del mondo, parlo del mondo delle serie tv, si iniziavano a stagliare figure monolitiche come la Weaver di E.R., lesbica, zoppa e di una stronzaggine senza precedenti, un voler cioè inglobare la richiesta legittima di attenzioni e il tentativo di sensibilizzazione da parte del mondo artistico femminile attraverso una figura che sta al femminismo quanto zio Tom stava al movimento di lotta contro il razzismo. Toh, a non voler essere così tranchant, potrei citare invece che zio Tom Eddie Murphy, ma ci siamo capiti. Tutto fa brodo, intendiamoci, dopo Commesse magari qualche omofobo avrà un po’ smontato la propria avversione, così come qualche razzista avrà riso con la risata sguaiata di Eddie Murphy, ma se tutto resta lì siamo davvero indietro di millenni.

Credo ciecamente in queste istanze, ne ho fatto parte portante della mia poetica, vi ho dedicato tempo, lavoro, progetti e opere. E credo che svilirli a meri scopi di riposizionamento sia poco rispettoso di quanto fatto in maniera assai più radicale da altri, il che non significa che sia da svilire o denigrare, intendiamoci, anche chi pensa di combattere la propria battaglia green smettendo di usare bottiglie di plastica ma usando in cambio bicchieri di plastica invece che di vetro merita rispetto, anche se poi non va preso a modello.

Una cantante che scrive le sue canzoni, questo credo sia il tema, non viene presa in considerazione come cantautrice perché nel 99% dei casi il sistema musica la rigetta come un virus, o neanche la identifica, come succede con certi virus, poi ci sono le artiste che il sistema sposa per motivi che con l’arte nulla hanno a che fare, come la Michielin, e che non la si chiami cantautrice in virtù di canzoni che non scrive non mi sembra sia centrale nella discussione. Credo però contribuisca a generare confusione, perché la relega nel ruolo consolatorio che si concede alle artiste nel mainstream, la polistrumentista, la cantante che flirta con l’indie, ora la cantautrice che fa podcast, tutto tenuto in maniera rassicurante lì dove deve stare, a margine, senza incidere sul resto.

Tradotto, la Michielin corre il rischio di passare dalla parte delle “cause” di questa annosa situazione di marginalità della figura femminile, più che degli “effetti”, sicuramente non è parte di chi quegli effetti e quelle cause prova a combatterli, spada cui qualcuno ha debitamente tolto la punta.

La musica resta comunque, ne sono certo, profondamente donna. Anche il pop. Lo affermo compiutamente: il pop è donna.

Solo che bisognerebbe provare a allargare il proprio orizzonte ottico, spostare lo sguardo dai cliché e gli stereotipi che la Michielin e la Pausini rappresentano per provare a vedere cosa succede laddove non è il mercato degli uomini a indirizzare la macchina, fuori dalla cartolina confezionata manco troppo a puntino. Perché, so che sembro un disco rotto, ma a volte è meglio un buon disco rotto che un bruttissimo disco ancora del tutto funzionante, proprio l’essere tenute fuori dal terreno di gioco, leggi alla voce mercato, spesso concede alle cantautrici, quelle sì riconosciute come tali perché tali sono, almeno da chi presta loro attenzione, una libertà di esprimersi, di sperimentare, di giocare con la forma canzone con una naturalezza che spesso le inutili protagoniste del pop non si possono permettere.

PS

Siccome conosco i miei polli, so già cosa queste mie parole scateneranno, e allora, anche in virtù del fatto che alcuni fan della Pausini che hanno segnalato un mio post su Facebook hanno portato all’ennesimo ban del mio profilo, agevolo delle FAQ, così evitate di venirmi a porre queste domande sciocche in privato.

D: Ma come, dici che la Pausini è una artista che fa opere dozzinali e poi scrivi la sua biografia, per altro non autorizzata?

R: Le biografie che scrivo, ne ho scritte oltre trenta, sono dedicate a rockstar e popstar, e la Pausini rientra perfettamente nel novero. Talmente tanto che a giorni uscirà per Diarkos la nuova edizione della mia prima biografia a lei dedicata. Il fatto che io non ne riconosca il valore artistico nulla ha a che vedere col mio raccontare il suo successo. Sono due cose distinte, e per altro stavolta parlerò anche di critica, quindi spero che metterò per sempre a tacere questi fastidiosi rumori di fondo. Per la cronaca, in Italia non esistono le biografie “autorizzate” e “non autorizzate”, dicitura prevista nella giurisprudenza americana. Si scrive un libro su Tizio e se Tizio pensa che hai scritto cose inesatte ti querela. Punto. Nessuno mi ha mai querelato.

D: Resta che mangi sul piatto in cui sputi…

R: A prescindere che questa non è una domanda, no, mangio perché so scrivere libri, e sono bravo a scrivere biografie. Ne ho scritte tante per tanti editori. Se fosse facile scrivere biografie, immagino, invece che rompere i coglioni a me le scrivereste. Invece gli editori le chiedono a me, mi pagano per scrivere, e poi le vendono. Nei libri il nome dell’autore si trova sopra il titolo, non a caso. Quindi  non campo grazie alla Pausini, campo grazie al mio talento. La Pausini è semplicemente la protagonista del mio ottantunesimo libro. Mica uno firma le autobiografie di gente come Vasco per caso, credo.

D: Ma se la Pausini non ti piace, perché la ascolti e perché ne parli?

R: In un mondo giusto non la ascolterei, e comunque ne parlo assai meno di quel che stando al polverone che ogni volta ne scaturisce si potrebbe pensare. Mi occupo di critica musicale applicata alla musica leggera. Laura Pausini è una protagonista della musica leggera, ripeto, mai negato questo, non occuparmene sarebbe come scrivere di calcio e non parlare della Juventus perché non mi piace come allena Pirlo.

D: Ma non sarà che stai rosicando perché la Pausini ha così tanto successo e tu no?

R: Non sono una cantante, non vedo in cosa dovrei invidiare una cantante. Non credo per altro, così mi hanno educato, che inseguire il successo in sé sia così stimabile, preferisco occuparmi di talenti e coltivare quelli. Detto questo, nel mio campo, la critica musicale, lo scrivere libri, direi che non ho nulla da invidiare a nessuno, non dico che sono la Pausini del mio settore, ma sicuramente mi difendo molto bene. Mettiamola così, io sono un uomo che vive serenamente il suo mestiere, non rosico e non sono mosso da antipatie, la Pausini ha un grandissimo successo, e per questo ne scrivo, la Pausini non credo abbia un grande talento e questo scrivo.