Uno speciale sulla strage di via Fani, 43 anni fa ieri. Seguo il caso Moro da 30 anni.
Arriva il Presidente, deposita la corona, un minuto di silenzio e se ne va. Da quanto via Fani è liturgia, ricorrenza immutabile, oblio provvidenziale? Da quanto è fingere di ricordare per meglio dimenticare? Eppure questa strada della Balduina, divenuta un modo di dire, fu teatro di un trauma che 43 anni ieri dirottava la storia dell’Italia democratica; qui le Brigate Rosse raggiunsero il culmine della loro efficacia e insieme cominciarono a morire, per mancanza di prospettive o forse per raggiungimento dello scopo: non servivano più, lo Stato, che ne aveva profittato fino a Moro, adesso reagiva affidandosi al generale Dalla Chiesa che in pochi mesi bruciava le loro praterie terroriste. In via Fani il 16 marzo del 1978 con azione cruenta veniva rapito il presidente della DC Aldo Moro, pronto a chiedere la fiducia per il suo governo col quale “apriva” al PCI. E qui, al di là delle corone di fiori, degli squilli di tromba, si agitano da sempre, forse per sempre stranezze che sbugiardano la versione del potere, quel “tutto chiarito, tutto spiegato” per l’azione interna più spettacolare mai andata in scena nell’intero Occidente.
Aldo Moro viene prelevato alle ore 9,08 del 16 marzo 1978 in via Fani al termine di un blitz di stampo militare, 300 secondi per lasciare sull’asfalto tutti e cinque gli uomini della scorta; perdite o ferimenti nei terroristi, zero. L’attacco traumatizza il Paese mentre in Parlamento va in scena uno sconcertante capolavoro di inettitudine. E dire che tutti nelle sacre stanze sanno cosa si sta preparando. Alla vigilia della strage, il 15 marzo, la testata “Vita sera” pubblica un messaggio sibillino: “A 2022 anni dalle Idi di Marzo il genio di Roma onora Cesare: 44 a. C. – 1978 d. C”. Commenterà immediatamente Mino Pecorelli, giornalista-spione connesso alla loggia P2 che per l’intero arco temporale del sequestro avrebbe anticipato ogni colpo di scena, fino a venire ammazzato nel marzo del 1979 alla vigilia di ulteriori, esplosive rivelazioni: “Proprio alle Idi di Marzo del 1978 il governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare? Se le cose andranno così, ci sarà anche una nuova Filippi?”.
La scorta di Moro era preoccupata, il capopattuglia Oreste Leonardi lamentava il mancato arrivo di una auto blindata, lo stesso statista aveva individuato sconosciuti aggirarsi intorno al suo studio di via Savoia; tra questi, tale Franco Moreno, segnalato fin dal 1973 in contatto con ambienti eversivi. Emergerà anche la presenza nei pressi dell’abitazione di Moro di brigatisti mascherati da netturbini. Senza contare le testimonianze di almeno due donne che ascoltano in due distinte emittenti radio la notizia del rapimento di Moro pochi minuti prima che avvenga. Una di queste, Clara Giannettino, riferisce d’averla sentita alle 8,15 su Radio Città Futura, il cui direttore, Renzo Rossellini, interpellato, racconta di avere ripreso la notizia da Radio Onda Rossa, 15 minuti prima, attribuendone la veridicità a “supposizione metafisica”. In una successiva intervista al quotidiano francese Le Matin, Rossellini ridimensionerà l’episodio, imputandolo a semplice probabilità dedotta dagli eventi politici correnti (sic!). Ma nel “Memorandum Ravasio” si afferma che Rossellini avrebbe informato i vertici Psi dell’imminente rapimento di Moro con 15 giorni di anticipo. Molte, in verità, erano state le voci che anticipavano l’azione, un tam tam nelle carceri, le università, le radio libere e tra i corpi di polizia, opportunamente allarmati ma forse paralizzati. Rossellini aspetterà più di 40 anni prima di ammettere l’imbeccata ricevuta da ambienti coperti, e coinvolti.
Ma eccoci in via Fani la mattina del 16. All’alba il fioraio Antonio Spiriticchio trova squarciate le 4 gomme del suo furgone, ciò che gli impedisce di recarsi al suo chiosco nell’angolo tra via Stresa e via Fani dove si concentravano le sentinelle brigatiste. La moglie di Moro, Eleonora, chiederà come potessero i brigatisti avere la certezza che, quella mattina, il marito avrebbe seguito quell’itinerario, rivelatosi fatale: emergeranno quindi depistaggi e soffiate all’interno delle forze di sicurezza. In simultanea con la strage viene segnalato in via Fani il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, ex istruttore dei corsi segreti di “Gladio” alla base di Capo Marrargiu, in Sardegna (dove verrà scoperto un arsenale brigatista). Interrogato sul motivo della sua presenza alle 9 mattutine, il colonnello Guglielmi fornirà una spiegazione inverosimile: “Stavo recandomi a pranzo da un amico”; circostanza smentita ufficialmente dai riscontri d’indagine dopo 40 anni. Nel citato “Memorandum Ravasio”, si sostiene che Guglielmi sarebbe stato mandato sul luogo dal diretto superiore Pietro Musumeci, allarmato dalla soffiata di un informatore. Quello che è certo, è che le palazzine affacciate sulla scena della strage sono nella quasi totalità legate a società di copertura dei servizi segreti. Lo stesso risulterà delle due auto parcheggiate strategicamente a sinistra e a destra dell’agguato, in modo da ostruire la visuale ed impedire eventuali vie di fuga alla scorta di Moro: rispettivamente, la Mini Cooper di un ex arruolatore di sabotatori di Gladio, la struttura paramilitare coperta con funzioni di antiguerriglia di cui Moro rivela l’esistenza nel Memoriale stilato durante la sua prigionia, che incredibilmente le BR sceglieranno di censurare; e la Austin Morris di proprietà di una società fittizia riconducibile ai Servizi, parcheggiata proprio al posto del furgone del fioraio Spiriticchio. Perfino il bar Olivetti dietro le cui siepi si nascondevano i brigatisti tradisce una vicenda ambigua al limite del surreale: chiuso a lungo, torna a funzionare nei giorni della strage, per poi chiudere definitivamente.
Via Fani è misteriosa anche, se non soprattutto, per la sua inusitata efficacia micidiale. Da parte terrorista vengono esplosi 91 proiettili (contro appela 6 dalla scorta), 49 dei quali da un unico mitra, uno Sten o uno Fna 43 maneggiato, secondo diversi testi – in particolare da un benzinaio esperto d’armi – da un individuo che agisce con evidente tecnica specializzata. Non verrà mai identificato e su di lui le ipotesi restano tuttora aperte. Dagli archivi di polizia spariscono alcune foto segnaletiche prese in via Fani, sia a bordo di una “A 112”, sia “tra i frequentatori di un appartamento in via Gradoli” (covo del capo Mario Moretti insieme a Barbara Balzerani, fatto emergere in una plateale messinscena il successivo 18 aprile, anche questo nella disponibilità dei servizi segreti).
I proiettili esplosi in via Fani, dal particolare rivestimento “trattato”, fanno parte di un arsenale in dotazione all’esercito: sono munizioni non convenzionali, ricondotte a una dotazione Gladio. Lo stesso particolare delle divise dell’Alitalia indossate dai terroristi sembra funzionale a distinguere i brigatisti da soggetti estranei. Sulla vicenda le ricerche sono state sempre carenti, così come sui due misteriosi motociclisti a bordo di una Honda (da cui parte una raffica che miracolosamente risparmia un testimone in motorino, l’ingegner Alessandro Marini), coperti da totale reticenza dei terroristi. Lo stesso numero dei componenti il commando non è mai stato chiarito: dai 9 iniziali si è passati a 10, poi 12 e oggi viene ipotizzato in 20 elementi coinvolti. Ma anche su questo particolare le bugie degli ex brigatisti si sprecano. Due di loro, Alessio Casimirri e la moglie Rita Algranati, verranno fatti fuggire dai Servizi in Nicaragua, dove Casimirri resta tuttora inaccessibile, mentre lei venne catturata nel 2004 all’aeroporto del Cairo con Maurizio Falessi, già dell’Ucc – Unione comunisti combattenti, dopo prolungata latitanza in Algeria.
Contemporaneamente al sequestro, l’intera area teatro viene colpita da un black out delle linee telefoniche: la Sip, ovviamente supervisionata dai Servizi di sicurezza, risulterà controllata dalla loggia massonica deviata P2, e infiltrazioni brigatiste vi sono piazzate a vari livelli. Il 15 marzo, alla vigilia della strage in via Fani, il sistema di sicurezza della Sip viene allertato e la società telefonica – ai cui vertici siede il piduista Michele Principe – saboterà le indagini fino alla morte di Moro. Anche il colonnello Antonio Esposito, incaricato delle operazioni speciali al centralino Sip, risultava iscritto alla P2: il suo numero di telefono verrà trovato nel covo del capo della colonna romana delle BR Valerio Morucci, autore della telefonata con cui, dalla stazione Termini, veniva annunciata l’esecuzione di Moro.
Dal materiale investigativo scompare un rullino di fotografie scattate in via Fani da un giornalista dell’agenzia Asca, Gherardo Nucci, ripetutamente minacciato da ignoti. Anche molti tracciati di conversazioni telefoniche, contenenti informazioni importanti, risulteranno manomessi. La stessa la targa della 128 brigatista che precede la macchina di Moro è stata falsificata, proviene dalla vettura di un diplomatico venezuelano. Lo stesso veicolo scompare per poi riapparire misteriosamente, prima dell’alba del 17 marzo, parcheggiato in via Licinio Calvo, non lontano dal luogo della strage. Peraltro, diversi testimoni oculari (tra cui agenti di polizia) la ricorderanno, all’indomani dell’eclatante azione di via Fani, al punto da rievocarne persino le prime cifre. La targa è contrassegnata “CD19707” (Corpo Diplomatico, sigla che non può passare inosservata).
Menzogne e stranezze non risparmiano il covo del sequestro, né i suoi tenutari. Anche sul trasporto di Moro da via Fani al covo di via Montalcini, come a dire dal centro di una città in stato d’assedio fino alla lontana periferia, sussistono difformità clamorose nei ricordi dei brigatisti, i quali si sono contraddetti ad oltranza sui percorsi seguiti, sugli orari, sui mezzi adoperati e perfino su chi li guidava. La circostanza più incredibile porterebbe a credere che l’ostaggio, rinchiuso in un cassa, sia stato lasciato per diverso tempo all’interno di un furgone nel parcheggio sotterraneo di un grande magazzino assai frequentato, e per di più incustodito. Altro risvolto difficilmente spiegabile, la totale libertà di circolazione dei rapitori, che non incontrano alcun mezzo di polizia, non vengono praticamente notati da nessuno, non subiscono neppure gli inevitabili ritardi di un traffico mattutino implacabile a Roma, tanto più con l’ostaggio più immediatamente ricercato al mondo. Oggi l’ipotesi più attendibile è quella di un covo all’interno dello stesso quartiere della strage, la Balduina, localizzato in via Massimi. Un appartamento all’interno di una palazzina bianca assai funzionale, dotata di garage e doppio ingresso stradale, di proprietà dello Ior, la Banca del Vaticano, frequentata da molti prelati fra i quali Paul Marcinkus che dello Ior era presidente. Dubbi che restano aperti come squarci, e che una corona di fiori depositata in via Fani non può coprire.