È stato il Festival specchio dei tempi, meglio dimenticare tutto e alla svelta

Un Sanremo oltre la decadenza, da liquidazione, senza qualità musicale, senza caratura degli interpreti, degli ospiti, per non parlare dei conduttori


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Finito l’Antifestival, la negazione del Festival. È stato un fiasco, quindi un successo: i vari Amadeus, Fiorello e capoccioni Rai non transigono, se uno obietta il crollo del gusto, dell’attenzione, lo fulminano: provateci voi, in questo stato. Ma l’avete voluto, avete scelto di fare una edizione che “in questo stato” non andava fatta e le conseguenze ve le assumete. O no? No: i numeri, come volevasi dimostrare, non contano, “vanno contestualizzati”, quanto a dire: sì, non sarà stato un granché ma già arrivare in fondo è stato un successo. Se volete metterla così… La realtà, per come la si è vista, è che niente si salvava di questo Festival, non la qualità musicale, non la caratura degli interpreti, non si dica degli ospiti. Quanto ai conduttori, Fiorello ha cantato e portato la croce e il Festival non c’era al punto che lui ha potuto tornare a sfrenatezze e libertà da villaggio vacanze, Amadeus ridotto a spalla e quasi irrilevante.
A Sanremo è andata in scena la vecchiezza che con le sue ali bianche si stendeva su un teatro svuotato, pieno di palloncini dalle forme equivoche, espediente cassato subito, tanto valeva lasciar le poltroncine desolate, quei velluti orfani evocativi almeno di qualcosa, non si sa cosa ma qualcosa Dio mio. Un Festival oltre la decadenza, da fine impero, da liquidazione. Dove nessuno ci credeva veramente, dove chiunque tirava per sé e basta, dove tutti aspettavano solo di tirar le due, sera dopo sera, pur che passasse. Una follia, non si può pretendere un avanspettacolo di 6 ore. E dunque al cospetto di tanta rovina non restava che interpretare le nude cifre, filosofeggiare, buttarla in cagnara, provateci voi e poi “è stato il Festival dei giovani, il più seguito dai giovani”.
Ma c’è una certa differenza tra seguire e commentare via social, il cronista, per esempio, era bombardato da interazioni di chi il Festival non lo vede e se ne vanta e ti scarica addosso la croce: “Ah, vedilo tu anche per me, poi mi racconti, io non ce la faccio”. Ma da raccontare cosa c’era? Mai vista una latitanza di questa violenza negli ultimi 50 anni. Neanche ai tempi, primi anni ’70, epoca barricadera, dell’unica serata finale trasmessa in televisione, il resto, se uno voleva, alla radio. In questo senso, è stato il Festival perfetto, davvero specchio del tempo. Perché non c’era. Così come non ci siamo più noi come umani, relegati nell’impossibilità da un anno; e non c’è più socialità, e non c’è il lavoro, il commercio, le attività; così come non c’è, troppo spesso, lo Stato che lascia tutte le emergenze dove sono e così le acuisce; allo stesso modo in cui non c’è il Paese, non c’è il Festival che pretende di rappresentarlo.
Un’aria da fine dei giochi, fine dell’impero, nessuna pretesa nemmeno di fingere, di ballare mentre si affonda. Prova ne sia la sinistra propensione al cazzeggio infantile: non un Festival di canzoni ma una sfilata di moda impazzita, cantanti vestiti da Leonardo da Vinci, da benzinaro, da sfigato al parco col pallone, uno, in fama di poeta da Instagram, è arrivato per cantare non si è capito quali tematiche sociali ma vestito con la braghe da sbarco e le calzette allucinogene e le scar de tennis di jannacciana memoria: ma perché Dio santo, perché? Tutti uguali nelle stesse filastrocche, come a dire: è tutto finito, facciamo gli scemi. E poi il cosiddetto “indie”, a conferma che l’indie italiano, se è questo che si vede sull’Ariston, non solo “manda un odore curioso” ma è proprio decomposto.
L’indie rifluisce a Sanremo che per missione assorbe tutto: per anni i figli di Maria de Filippi, i rappettari e i trappettari, adesso è la volta degli “indie”. Hanno mandato a vincere questi ragazzini Maneskin, o Naziskin secondo Orietta Berti, che sarebbero rock perché dicono le parolacce allo specchio: e dove sta la canzone? Facile: si prende un riff, lo si manda in rotazione e sopra si frigna: “sono fuori di testa”. Poi la cosiddetta critica musicale, che di musica sa poco ma di affari tanto, dice: ah, il rock a Sanremo, questa è una rivoluzione. Davvero? La rivoluzione questa sciocchezza fatta a tavolino, che copia cento gruppuscoli che copiano i Led Zeppelin? O l’altra di Achille Lauro che in vita sua non ha mai spremuto un’idea originale? Il convento del business discografico è povero, i pochi denari vanno investiti nell’usato sicuro, nel riciclo che sa un po’ di truffa.
E il Festival che non c’era è stata una grande truffa, ma ci sono cascati in meno di prima. In Rai, cinicamente, dicevano: gli diamo la schiuma, tanto dove vanno? Senza rendersi conto che a questo punto un baraccone coi “quadri viventi di Achille Lauro” non era più inevitabile seguirlo: l’offerta si è moltiplicata, se Mediaset gentilmente, come sempre, rinuncia a una controprogrammazione (ma fino a un certo punto, e meno che in passato), perché a Sanremo ci vanno pure gli ectoplasmi di Maria, beh la Rete libera una offerta infinita di alternative con le sue Netflix, Amazon, Youtube e quant’altro. Oppure si può semplicemente spegnere all’ennesima pantomima di Ibrahimovic che dopo dieci minuti si è trasformato in Celentano. Di questa settantunesima edizione non resta un solo istante e in verità è meglio dimenticare tutto ma proprio tutto alla svelta: rimuoverlo, come un calcolo sbagliato.
Dite che la Rai imparerà? Ma no, l’arroganza è incurabile e lo si è capito subito, alla conferenza stampa di domenica mattina con Amadeus che faceva pure l’offeso; visto l’andazzo, poteva incolpare gli italiani di non avere guardato, di non essere stati abbastanza italiani. Ma era davvero un fatica seguire il Sanremo del grande vuoto, dell’orgia di infantilismo paternalistico, coi conduttori che si salutano col culo, a suo modo una scena icastica. Festival anche della svilirizzazione e qui il gender c’entra fino a un certo punto, si può essere forti, maschi anche come gay, ma occorreva far passare l’uomo mollusco, barbetta e smalto, secondo canoni precisi di etica-estetica. Il maschio che in quanto tale si vergogna e si annulla, si rende ridicolo. Per contraltare hanno preso il calciatore esagerato e l’hanno reso una macchietta con tanto di musica balcanica, di quel razzismo che a Sanremo si può praticare perché è infiorettato. La morale è scontata: più è andato male, più è stato un successo. La grancassa mediatica ha subito preso a stravolgere la realtà e il messaggio è il seguente: in questo tempo di latitanze, fortuna che Sanremo c’era. Il comparto dello spettacolo è annientato e dovrebbe gioire per questa pagliacciata epocale di pochi raccomandati e privilegiati? Ma dicono che l’hanno fatto per loro, per gli inferiori, per tenerli su di morale, come nella canzone di Jannacci e Dario Fo.