La musica nell’era di Spotify fa davvero venire la pelle d’oca

Sarebbe il caso di boicottare Spotify e soprattutto chi lo ascolta, complici della brutta piega che la musica sta prendendo


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Non che ci volesse molto a prevederlo, ma è arrivato il primo intoppo sulla strada lastricata di ingenui sogni che condurrà al prossimo Festival di Sanremo. Ieri la notizia è finita su tutti i quotidiani online, Moreno Conficconi degli Extraliscio è risultato positivo al tampone rapido per il Covid. Il che ha comportato la messa in quarantena sua e di tutto il suo team. Ora dovrà arrivare il tampone molecolare, e in caso, se fra dieci giorni, cioè a ridosso del Festival, sarà o saranno ancora positivi, arriverà l’eliminazione. Nel mentre salteranno le prove con l’orchestra, le prove per i duetto e tutto il resto. La favola delle bolle si incrina, con buona pace del fatto che Sanremo se lo sono immaginati come il solo luogo Covid free al mondo, ora come ora.

Quello che però mi ha fatto pensare, lo confesso, a parte tutto, è come la deontologia giornalistica, nel caso del Festival, anche del pallone, va’, sembra vacillare, se non disintegrarsi. Perché, mi sono chiesto, nessuno si è fatto remore nel comunicare questa notizia? Si può dire che uno è positivo al Covid, quindi in teoria entrare a gamba tesa nel campo della salute personale, in virtù del suo essere personaggio pubblico? Potrei anche aprire una parentesi nei confronti del concetto di personaggio pubblico, perché tutti ieri riportavano la notizia spiegando come Conficconi fosse il biondo degli Extraliscio, in gara tra i Big, ma non è rilevante, in questa sede. Mi chiedo, l’etica giornalistica non dovrebbe tutelare la privacy del biondo degli Extraliscio? Non si dovrebbe lasciare l’anonimato, almeno fino a ipotetica eliminazione? Roba che ha a che fare con la privacy, certo, e quindi con l’etica. Forse sta qui la risposta, che c’azzecca l’etica col giornalismo di oggi? E con la musica di oggi?

Parliamo allora di etica. Non prima di aver fatto gli in bocca al lupo del caso a Moreno degli Extralisco.

La prendo larga, sia chiaro. 

Anni e anni fa, fossi uno dotato di un minimo di memoria vi direi anche quando, scoppiò lo scandalo dei palloni che una notissima marca sportiva aveva preparato per i Mondiali di Calcio. Palloni che quindi stavano finendo sul mercato, forti del potentissimo traino pubblicitario che un evento del genere avrebbe creato. Se pensate che la mia generazione ha sempre giocato con un pallone che si chiamava Tango, pallone figo, di plastica pesante, contrapposto agli sfigatissimi Supertele, anche quelli di plastica, molto più leggera, capaci di cambiare traiettoria anche più volte a tiro, a causa del vento e della loro inconsistenza, Tango in virtù del suo essere il pallone legato ai Mondiali di Argentina, anno di grazia 1978, e tutti, dico tutti tutti, giocavamo col Tango, potete ben capire di cosa io stia parlando. Lo scandalo cui faccio riferimento era che a fabbricare quei palloni, altrettanto fighi, anzi, più fighi, perché poco costosi ma di pelle, come quelli usati dai calciatori veri nelle partite di calcio, tutt’altra roba rispetto la plastica, anche quella spessa del Tango, lo scandalo era a che a fabbricare quei palloni erano dei bambini nel sud est Asiatico, a memoria, sempre quella, in Cambogia, magari il Pakistan, vattelo a ricordare. Piccole manine di bambini cambogiani a fabbricare palloni per i grandi del calcio, quindi, e di conseguenza per tanti altri bambini più agiati in giro per il mondo. Piccole manine di bambini cambogiani sottopagati, sfruttati quasi al livello di un nuovo schiavismo, questo il senso dello scandalo, roba da far venire il voltastomaco già allora, in epoca decisamente meno dotata di sensibilità.

Il marchio in questione, ovviamente, subì un momentaneo tracollo, un boicottaggio rifinito di indignazione e lamenti più o meno alti da parte di tutti quanti. Oh, magari me la ricordo male, ma questi, più o meno i fatti.

Seppur un pallone ben fatto avrebbe potuto consentire ai campioni di calcio di fare numeri strabilianti, inducendo folle oceaniche a provare un piacere quasi fisico, nessuno avrebbe mai potuto accettare che quel pallone fosse stato fabbricato sfruttando dei poveri bambini cambogiani. Una cosa indegna, fanculo il pallone. Che poi ci siano migliaia di prodotti anche usati tutti i giorni che arrivano esattamente da quel tipo di sfruttamento lì è altra cosa, una volta che una verità del genere è emersa non si poteva e non si può far finta di niente e voltarsi dall’altra parte, bisogna opporsi fermamente a questo scempio e dire basta.

Voi ci giochereste con un pallone del genere? Dai, non scherziamo.

Preferireste giocare con degli stracci appallottolati, esattamente come nell’immaginario comune giocano a calcio proprio nel terzo mondo, o piuttosto con un Supertele, ma con quello no, vi sentireste complici di qualcosa di aberrante, schifoso, vergognoso, oltre che dal nostro punto di occidentali civilizzati, lo so, sto facendo contrapposizioni rischiose, politicamente scorrette, anche criminali. Siamo quindi tutti d’accordo.

Ovvio che il discorso, ne facevo un fugace cenno tra le righe, sarebbe un filo più complesso, nella vita capita spesso così. Perché molto spesso, quasi sempre, il non sapere ci tiene al riparo dal dover prendere posizione, fatto che ci induce a cercare di non sapere quel che temiamo sia la realtà, come per volerci proteggere dai sensi di colpa. Non ci informiamo, e questo ipoteticamente ci preserva da colpe, parlo delle colpe che non implicano condanne, se non morali, quelle colpe che alimentano non a caso i sensi di colpa, che così si chiamano esattamente per questo motivo.

Faccio un esempio che nulla ha a che vedere coi palloni per i campionati del mondo fatti dalle manine dei bambini cambogiani, e chiunque mai pensasse di commentare, anche solo mentalmente, che in qualche modo quel che sto per dire è parte del medesimo discorso, lo sappia, non ha il mio rispetto.

Pensate agli allevamenti intensivi, che so?, pensate ai polli, ai maiali, a quel che vi pare. Abbiamo tutti visto una delle tante puntate di Report dedicati a questa aberrazione, e ci siamo stati anche male. Non bastassero quei servizi, che in genere arrivano sempre dopocena, so che questa mia ultima frase avrà urtato la sensibilità di qualcuno ma è un dato di fatto incontrovertibile, la nostra sensibilità e indignazione è figlia di questi tempi frammentari, così sottoposti a input da non riuscire a durare più di ventiquattro ore, ci indigniamo, restiamo sconvolti, ma il tempo di una notte e tutto torna al suo posto, possiamo riprendere a mangiare come nulla fosse, anche cosce di pollo anabolizzate e infarcite di antibiotici, chi se ne frega se per arrivare così grosse sulle nostre tavole i poveri polli se ne sono stati in veri e propri lager, uno sopra l’altro, tra cadaveri e merda, ecco, non bastassero quei servizi, e qui mi gioco un bel colpo di scena, perché a leggere le mie ultime parole qualcuno avrebbe potuto farsi una precisa idea di me e di quel che penso a riguardo, non bastassero quei servizi tutti noi abbiamo tra i nostri conoscenti, reali o virtuali, quelli con cui ci interfacciamo quotidianamente sui social, un qualche vegano, un qualche vegano che non mancherà di romperci il cazzo fino allo sfinimento col proprio mostrarci video di quei lager, foto di quei lager, scene degne di un film horror che ha per protagonisti i poveri animali destinati a finire sulle nostre tavole e come spettatori noi che sulle nostre tavole siamo soliti a ospitarli.

Non voglio affrontare l’argomento vegano, è troppo spinoso, e onestamente ho già abbastanza haters tra gli iscritti ai fanclub degli artisti di cui parlo per aver bisogno di allargarne la cerchia, ma è un fatto che i vegani, seppur su questo frangente abbiano sacrosanta ragione, sbagliano nella quasi totalità dei casi i modi e la mira, finendo per ottenere i risultati opposti a quelli sperati. Tipo che sei piuttosto dell’idea che comprare polli di allevamento sia sbagliato, un vegano te lo spiattella in faccia, chiamandoti assassino mangiacadaveri, e tu finisci per andare al supermercato a comprarti un vassoio di gigantesche cosce di pollo dopate al fine di mangiartele con accompagnamento di patate arrosto. Ciò nonostante dicono una schiacciante verità, i polli di allevamento, come anche i maiali e tutti gli animali che da piccoli includevamo nelle strofe de Nella vecchia fattoria ia-ia.ò, non dovrebbero più esistere, e quindi le aziende che li producono, producono polli, vi rendete conto di quanto tutto ciò sia contronatura, altro che buttarselo in culo, andrebbero boicottate, o semplicemente ignorate.

Il fatto che di fronte a questa evidenzia non si continui a mangiare pollo di allevamento ha almeno due motivazioni valide, credo, la prima, evidente, è proprio la cattiva influenza dei vegani, la seconda, più pragmatica, che il pollo di allevamento è la carne di minor prezzo in circolazione, poco ci importa, quindi, che i polli soffrano e che magari il doping cui vengono sottoposti sia pericoloso per la nostra salute, è un fatto che la vita media si sia allungata parecchio rispetto a quando i polli che si mangiavano erano quelli che razzolavano per le aie dei contadini, tipo lo Zio Tobia della Vecchia Fattoria di cui sopra, quel che non strozza ingrassa.

Quale morale si potrebbe trarre tra queste due situazioni, i palloni fatti dalle manine dei bambini cambogiani per non ricordo quale mondiale e i polli di allevamento la cui vita agghiacciante è costantemente denunciata dai vegani? Che bambini e polli non sono la stessa cosa, sicuramente. Che, per quanto anche nel calcio ci siano gli hooligan, chi segue il mondo del pallone è mediamente più equilibrato di chi è votato al veganesimo, altrettanto sicuramente.

Che quando l’indignazione tocca argomenti che fanno parte del nostro quotidiano siamo sempre molto disponibili a ricorrere a deroghe o quantomeno a dimenticarci di tutto molto in fretta, il cibo è sicuramente più presente nelle nostre vite del calcio, ma anche per chi è appassionato di calcio un determinato tipo di pallone rimane una faccenda marginale.

Interessante, certo, ma siccome non sono uno che scrive di sfruttamento dei bambini, in genere, né di allevamenti di polli, credo sia per me ora necessario provare a andare oltre, azzardando un ulteriore livello della discussione, sempre che si possa chiamare discussione anche quella che sto facendo da solo, scrivendo per voi che leggete o leggerete chissà quando.

Nei giorni scorsi mi è capitato di stare qualche ora su Clubhouse, il nuovo social, esclusivamente vocale, esclusivamente nel senso che su Clubhouse i può solo parlare, e nel senso che è un social elitario. Ci ho passato qualche ora, quasi sempre dentro room nelle quali, appena entrato, qualcuno mi ha invitato a salire, fatto che su Clubhouse significa passare dal ruolo di “uno che ascolta” a quello di “uno che parla”. Del resto erano tutte room che ruotavano intorno al mondo della musica, normale che mi invitassero a dire la mia. Questa faccenda dell’essere invitati appena entri è figa, aiuta l’autostima in questa epoca decadente e di isolamento, ma per contro ti costringe a entrare su Clubhouse solo se hai del tempo a disposizione, non puoi limitarti a passarci qualche minuto, per intendersi. In quasi tutte queste room si è parlato di cosa sta succedendo adesso al mondo della musica, si sono ipotizzati scenari futuri, si è provato a indicare una strada per la ripartenza.

Io, credo che questa sia al momento la mia idea del mondo, e del mondo della musica nello specifico, credo che lo sia da ben prima della pandemia, e che con la pandemia si sia se possibile ulteriormente radicalizzata, io mi sono più volte trovato a rivestire i panni di quello che smorza gli entusiasmi, annuncia l’apocalisse, ricorda a tutti che prima o poi, più prima che poi, dovranno morire. Certo provando a iniettare su tutto una buona dose di ironia, con una certa capacità oratoria, ma alla fine dei conti questo è quanto, sono quello che sta con la falce e l’abito nero.

Questo potrebbe indurmi a vedermi come qualcosa di non troppo diverso da un tipico vegano durante la Settimana Santa. Noi siamo lì intenti a preparare il menu per la grigliata di Pasqua, e loro, i vegani, arrivano a postare sulle nostre pagine Facebook video e foto di come gli agnellini vengono macellati. Lo dico perché ci penso spesso, a questo fatto. No, non agli agnellini macellati, ma al fatto di come io possa essere visto da chi mi legge, più o meno simpatizzando con me e le mie idee. Se io passi per un invasato hardcore di quelli a cui nulla sta mai bene, un vegano della critica musicale di quelli che Cruciani affronterebbe brandendo un salame in mano.

Poi però mi dico che no, non sono così, io. Certo, ti dico che le canzoni dell’artista di cui hai i poster, metaforici, sulle pareti del tuo cuore fa in realtà musica di merda, dico che la discografia di cui fai parte è composta al 99% dei casi da gente cui non affiderei neanche l’ingrato compito di tenermi il posto in fila alle Poste mentre mi sposto qualche metro più in là per rispondere a una telefonata, ti dico che probabilmente i biglietti per quel bellissimo concerto nello stadio XY che hai pagato un occhio della testa due anni fa non avrà luogo neanche la prossima estate, forse neanche quelle del 2022, ma non sono un vegano. Sono uno che tende a non usare giri di parole atti a edulcorare la pillola, certo, ma se volete rimanere nel vostro stadio larvale non sarò certo io a venirvi a citofonare nel cuore della notte.

Ci siamo quasi, eh, sto arrivando al cuore di questo mio scritto, centocinquesimo capitolo del mio diario del secondo lock down, giusto il tempo di specificare a qualsiasi vegano in ascolto, che se mai pensasse di venire a lasciare qualche commento tranchant sotto i post sui social nei quali linkerò questo mio scritto, o anche a lasciare un commento proprio qui, sul sito, la mia reazione sarà di tipo nazista, un commento un arrosticino, un commento un arrosticino, quindi sappiate che sarete responsabili proprio di questo, dell’assassinio di una qualche pecora atta a finire infilzata in piccoli spiedi che poi, passando da una apposita griglia, finiranno sul mio piatto. Quindi, se potete, astenetevi dal rompermi le palle, grazie.

Torno a parlare di Clubhouse, ma solo di passaggio, perché proprio in una delle room a cui facevo riferimento poco sopra, giorni fa, mi è capitato di chiacchierare con Red Ronnie e Claudio Trotta, di Barley Arts, a riguardo di Spotify. Incredibile a dirsi, ma io e Red Ronnie la pensavamo esattamente alla stessa maniera a riguardo, nel ritenerla un male per il comparto della musica, per il suo sfruttare gli artisti pagandoli una miseria, per lasciare che sia un algoritmo e qualche sporadico operatore a decidere che musica spingere, e perché riteniamo il livello qualitativo degli ascolti davvero miserevole, Claudio Trotta, che conveniva con noi su quasi tutti i punti, era però più possibilista, ritenendo che sia comunque uno strumento in più a nostra disposizione per gli ascolti, ovviamente preferendo il fisico, e anche per divulgare musica, citava le sue Playlist nelle quali quotidianamente propone musica di qualità fuori dalle mode e anche dal mainstream.

Appena finito di parlare, Claudio, ho posto una domanda che ripropongo qui ora, domanda che immagino e spero vi farà vedere a quanto letto sopra con altri occhi, neanche fossimo in una scena del film Anon di Andrew Niccol, il regista di Gattaca. Questa domanda: sappiamo tutti che Spotify non paga praticamente niente agli artisti, siano essi big o emergenti, che sfrutta quindi il lavoro di chi crea i contenuti che quella piattaforma veicola, con la complicità delle case discografiche, sappiamo anche che chi riesce a far qualche soldo con Spotify è parte di quel 10% di artisti ultraconosciuti e seguiti, a discapito del restante 90% praticamente inesistente, sia a livello di numeri che, di conseguenza, di guadagni, sappiamo altresì che la qualità delle produzioni, da che Spotify è diventato il modo più quotidiano e comune per ascoltare musica, questo ci hanno ripetuto per altro ossessivamente negli anni le istituzioni della musica, pensate a quanto un personaggio come Enzo Mazza, CEO i FIMI ha nel tempo detto, neanche fosse un testimonial dell’azienda di Daniel Ek, sappiamo quindi che la qualità delle produzioni, da che Spotify è divenuto, in maniera naturale o indotta, il modo più quotidiano e familiare per ascoltare musica, si è abbassato notevolmente, la scarsa qualità della riproduzione su quella piattaforma ha reso superfluo qualsiasi tentativo di tenere la qualità alta, frequenze schiacciate, assenza totale di dinamica, alti e bassi inutili se non nocivi, melodie monotone per assenza di armonia, le canzoni che finiscono per somigliarsi tutte perché in effetti sono tutte giocate sulle medesime scarne e scarse soluzioni, sappiamo tutto questo, è sotto gli occhi di tutti, e io ve lo sto ripetendo da anni, ancor prima che Spotify esplodesse definitivamente, ma ciò nonostante lo usate, fate finta di niente, come con gli allevamenti di polli, visto che però siamo tutti parte di questo mondo, la filiera della musica, il comparto dello spettacolo, non sarebbe forse il caso di indignarci e iniziare a boicottare Spotify, esattamente come ai tempi hanno fatto con la marca sportiva che faceva preparare i palloni in Cambogia, sfruttando il lavoro sottopagato e schiavista dei bambini e delle loro manine?

Certo, qualcuno potrebbe sostenere che un artista che decida di farsi sfruttare da Spotify non è equiparabile a un bambino sottopagato e sfruttato in Cambogia, le sue manine a cucire palloni, e avrebbe anche ragione, ciò non toglie che sostenere una azienda che sfrutta il lavoro di qualcuno, anche fosse un artista di settant’anni, è gesto sacrosanto e dovuto. A meno che non si ritenga che l’arte, si tratti di musica, di letteratura, di arti visive, quel che è, non sia dotata di alcun valore, quindi va pur bene averla gratuitamente, o che a farla siano destinati solo coloro che non hanno bisogno di lavorare per vivere.

La mia provocazione, lì su Clubhouse, non ha ovviamente portato da nessuna parte, del resto le provocazioni non ambiscono quasi mai a trovare soluzioni, tendono più a allargare certe crepe, a sottolineare certe storture, a suggestionare, sempre e comunque, lasciando che sia poi il tempo a dire la sua.

Resta che chi ascolta musica con Spotify è complice della brutta china che ha preso la musica in questi tempi cupi, non c’è autoassoluzione o smemoratezza che tenga.