Durante l’intervista a Matteo Cincopan si parla di musica, si ride, si ricorda quanto fossero strani gli anni ’90 e di quanto fossero ricchi di cose gli anni ’60. Sì, perché a Bologna esisteva un power trio che dalla beat generation non è mai uscito. Formalmente i The Poets non esistono più: i tre elementi si sono divisi, ma hanno scelto di affacciarsi al contemporaneo riversando sui servizi di streaming musicale la loro arte.
Questo è il caso di Groovy!, tecnicamente uscito 20 anni ma ufficialmente comparso in rete soltanto nell’ultimo periodo. Il merito è tutto di Matteo, che crede in ciò che fa anche quando i mondi si separano. Chi sono questi The Poets? Perché parlarne? Immaginate i primi Beatles, quelli sbarbatelli di Can’t Buy Me Love, di Please Please Me e Help!. Bene, aggiungete i Pet Sounds dei Beach Boys ma non dimenticate Substitute dei The Who e nemmeno My Generation. Va bene, prendete alcune dosi dei primi Rolling Stones. Metteteci la potenza sonora del brit pop degli anni ’90. Questi sono i The Poets. Ascoltarli significa riscoprire oggi uno dei vecchi vinili di nostro padre, quel mondo di belle canzoni apparentemente spensierate ma ricche di significato. Lettere d’amore e spensieratezza, raggi di sole.
Groovy! dei The Poets era stato registrato inizialmente su una bobina a 4 piste, poi Matteo Cincopan ha ritrovato quel materiale e ha proposto agli ex compagni di avventura di riversare tutto in digitale. “Andiamo più d’accordo ora che ci siamo sciolti!”, dice Matteo. Ecco l’intervista a Matteo Cincopan.
Matteo, perché rimasterizzare Groovy?
In realtà si lavorava sul recupero di un album rimasto inedito, poi mi sono ritrovato con le bobine di Groovy!. La qualità del master, essendo analogico, non era il massimo. Pensa, avevamo registrato il disco nello stanzone di una casa sull’Appennino, dentro la quale ci eravamo rinchiusi per 10 giorni. Noi tutti siamo affezionati a questo disco, il secondo della nostra esperienza e il primo che ci ha fatto trovare un contratto discografico. Mi sono offerto di pensare io a tutta la parte tecnica. Dalle bobine a 4 piste sono riuscito, non senza fatica, a rimasterizzare tutto per la consegna su Spotify. In questo modo abbiamo chiuso un cerchio.
Ascoltare i The Poets è come riscoprire quel mondo musicale in cui le band venivano chiamate “complessi”, un’accoglienza un po’ maldestra del beat che arrivava dall’Europa. La vostra è stata un’opera di divulgazione oltre ad una vera e propria passione?
È probabilmente così. Il gruppo del resto nasceva da un’idea di Enzo (Lorenzo Mingardi, il bassista, ndr) che non è soltanto un appassionato dei Sixties: lui voleva proprio riproporre quell’estetica. Per immergerci sempre di più in quegli anni ci divertivamo a guardare i musicarelli dopo esser rientrati dalla sala prove. Vivevamo negli anni ’90, quando delle band veniva considerato il frontman più di tutti. Negli anni ’60 era diverso: delle band venivano ricordati tutti. Noi abbiamo “divulgato”, ecco, quell’immagine di band come realtà fatta di più persone.
Quali sono stati i vostri artisti di riferimento?
I Beatles, ovviamente, e tutta la scena beat degli anni ’60 che poi si è tradotta nel brit pop degli anni ’90. Mettiamoci dunque i Blur, gli Oasis e i Kula Shaker. Ti sorprenderai, ma tra di noi c’era anche chi prendeva ispirazione dai Kiss e non tanto per il genere o l’aspetto, quanto per il concetto di band, di gruppo formato da più elementi. Non dimentichiamo ovviamente i Kinks, gli Who e gli Holdies.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Attualmente collaboro con le Frequenze di Tesla, con i quali ho pubblicato due dischi e attualmente si lavora su nuovo materiale. Ci sono poi gli Avvoltoi, che sono un gruppo di riferimento per la scena revival beat di Bologna dal momento che esistono dal 1985. Il mio percorso nel mondo del beat non si ferma di certo, anche quando si tratta di lanciare un album come Groovy!, che è una delle cose più importanti della mia vita.