La Tigre Bianca, su Netflix l’ambizioso ritratto dell’India contemporanea tra servi e padroni

Dal 22 gennaio sulla piattaforma il film di Ramin Bahrani tratto dal romanzo di Aravind Adiga, che descrive l’ascesa di un uomo di umili origini disposto a tutto. Un racconto sulle caste, il potere, il lato oscuro del capitalismo

Tigre Bianca

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Ero intrappolato nella stia per i polli, e non c’è quiz televisivo con un milione di rupie in palio che possa tiratene fuori”: così dice Balram (Adarsh Gourav), protagonista de La Tigre Bianca, esplicitando polemicamente, qualora non risultasse già chiaro dal racconto come s’è sviluppato fino a quel momento, la distanza del film diretto da Ramin Bahrani dal tono favolistico e fintamente drammatico del premio Oscar The Millionaire, diretto da Danny Boyle e costruito per presentare un’India artefatta e accomodata per i gusti di un pubblico occidentale.

In The Millionaire il protagonista, che riesce a rispondere alle domande del presentatore televisivo grazie alle tragiche esperienze imparate alla scuola della vita, non è mai interessato alla favolosa somma che sta per guadagnare, ma soltanto alla possibilità di ritrovare l’amore della sua vita. La Tigre Bianca invece non smette mai di ricordarci, mostrando continuamente mazzette di banconote nemmeno fossimo in un mafia movie di Scorsese, che l’unica cosa che importa davvero sono i soldi. Non le caste, la religione e la famiglia, ma i soldi, vero e solo motore del mondo.

La Tigre Bianca è tratto dal romanzo omonimo vincitore del Booker Prize nel 2008 di Aravind Adiga, nato in India, studi alla Columbia e a Oxford, già corrispondente di Time, che con la sua doppia cultura e il suo doppio sguardo infonde nel protagonista del racconto la consapevolezza della grande trasformazione in corso, e come il capitalismo avanzato stia progressivamente mutando anche la logica sottesa alla tradizionale divisione in caste su cui è incardinata la struttura sociale indiana.

Beninteso, mutare non vuol dire rivoluzionare o dissolvere. Semmai semplificare, come ha capito benissimo Balram, che all’inizio del film è ormai un imprenditore di successo a Bangalore, “la Silicon Valley dell’India”. Venuto a sapere che l’allora primo ministro cinese Wen Jiabao sta per compiere un viaggio lì per conoscere gli imprenditori locali, decide di scrivergli una e-mail basata sulla sua profonda esperienza del paese, ripercorrendo la sua storia per raccontargli come stanno davvero le cose.

È una storia di umili origini: Balram è nato in una provincia poverissima, da una famiglia che occupa uno dei gradini più bassi della scala sociale. Manifesta sin da bambino grandi attitudini a quegli studi che, per l’indigenza, non potrà proseguire, e si convince di essere una “tigre bianca”, l’animale eccezionale di cui ne nasce uno per generazione. Per questo è capace di ruggire in quella giungla che è la vita (è l’insegnamento fondamentale che gli dà il suo istruttore di guida) e sottrarsi a quella che lui chiama la “stia per i polli”, in cui crescono tutti i miserabili, assoggettati per sempre senza ribellarsi al destino che la nascita ha imposto loro.

Come scrive Adiga nel romanzo, “in questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile; uno stato servile radicato al punto che se dai a un uomo la chiave della sua emancipazione lui te la scaglia addosso con un insulto”. Allora l’unica soluzione possibile per Balram è trovare un uomo da servire appartenente a quello 0,1%. Ed è Ashok (Rajkummar Rao), figlio del ricco possidente che taglieggia la sua famiglia, il quale avendo studiato negli Stati Uniti ed essendo sposato con Pinky (la popolare Priyanka Chopra Jonas, anche produttrice esecutiva) indiana cresciuta in America, gli sembra il padrone migliore possibile. In men che non si dica, mostrando grande intraprendenza, diventa il suo autista.

Le esperienze che fa Balram gli aprono gli occhi sulla realtà del suo paese e su sé stesso. Essendo un tipo sveglio impara moltissime cose: che la dinamica servo-padrone gli è tatuata addosso come una seconda pelle, rendendogli inimmaginabile qualunque forma di ribellione, sebbene Ashok e Pinky vivano in una casa lussuosissima mentre a lui è destinato il sottoscala con gli scarafaggi; e che l’unica legge che porta avanti il paese, “la più grande democrazia del mondo”, è il legame tra potere e corruzione, con la leggendaria politica venuta su dal basso, la “Grande Socialista”, che incassa enormi tangenti dalla famiglia di Ashok.

Sebbene il suo padrone esibisca un atteggiamento progressista e più umano verso Balram, la sostanza, come potrà vedere nel momento tragico in cui Ashok e Pinky avranno davvero bisogno di lui, non cambia. Se c’è qualcuno da sacrificare, quello sarà sempre il povero. A quel punto Balram deciderà di liberarsi dalla gabbia mentale in cui è confinato e trasformarsi nella tigre bianca. Ma ciò comporta l’abbandono di tutto il passato e anche delle remore morali, in un’individualistica fuga in avanti solitaria in cui non importa più nulla di famiglia, valori, tradizioni.

L’uomo nuovo all’altezza delle sfide e delle opportunità del capitalismo avanzato che si racconta al primo ministro cinese è un individuo che ha capito come il futuro non sia più nelle mani dell’uomo bianco, ma di quello giallo e del marrone. Ha compreso pure, nel suo corso accelerato di economia politica da strada, che “ai vecchi tempi in India c’erano mille caste e mille destini. Adesso ci sono solo due caste: Uomini con Grandi Pance e Uomini con Piccole Pance”.

Balram, nessun dubbio, vuole essere un uomo dalla grande pancia. E in questa realtà dicotomica in cui le distinzioni si sono semplificate ed esistono solo alto e basso, ricchi e poveri, padroni e servi, dovrà diventare, simbolicamente e letteralmente, Ashok. In un regime in cui, l’ha imparato bene, tutti sono corrotti e hanno un prezzo, questo significa trasformarsi in un imprenditore indiano di nuovo conio, che “deve essere integerrimo e disonesto, religioso e ateo, subdolo e sincero, tutto allo stesso tempo”. Sempre pronto a servire entrambi i campi, pragmaticamente capace di venerare i 36 milioni di divinità contemplate dalla sua fede, più il dio dei musulmani e i “tre dei cristiani”, se serve.

La Tigre Bianca è un romanzo di formazione costruito come una parabola al contrario sull’India dell’era del capitalismo avanzato, che accetta la sfida di tradurre in immagini il denso libro da cui parte. La natura di una vicenda scandita per opposizioni binarie fa rimpiangere una regia più robusta e tagliente. Bahrani, americano di origini iraniane affermatosi con film di sapore quasi neorealista, non fa una netta scelta di stile (scontando anche la sua estraneità al complesso mondo narrato). Parte da un tono grottesco che ricorre alla voice over del protagonista per introdurre lo spettatore alle leggi feroci del mondo narrato. Poi però, irretito dall’ambiguità della dinamica servo-padrone (“Odiamo i nostri padroni fingendo di amarli o li amiamo fingendo di odiarli?”), opta per una cadenza più descrittiva, in cui la forza del racconto si sgonfia perdendo parte della sua esemplarità. Resta un film onesto e problematico. Ma per una materia così ribollente ci sarebbe voluto un regista dallo sguardo meno contemplativo.