Vorrei un Sanremo che rischiasse di più, puntando sulla qualità invece che sui numeri facili

Manca la cultura, è evidente, ma manca anche una reale voglia di sperimentare. In passato lo si è fatto e ve lo racconto, oggi bisogna tornare a cercare gli Alieni


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Durante il primo lockdown, in uno dei primi cento capitoli di questo mio anomalo diario, i capitoli saranno in realtà centotré, tanti i giorni che hanno separato il 24 febbraio, data in cui l’idea di una chiusura dell’Italia si è presentata alla porta, a Milano, dal 2 giugno, data del mio cinquantunesimo compleanno nonché di una prima parziale riapertura alla vita come ce la ricordavamo prima, pia illusione, visto quel che sarebbe poi arrivato finita l’estate, durante il primo lock down, in uno dei primi cento capitoli di questo mio anomalo diario ho raccontato la strana storia dei Pandemonium e della loro Tu Fai Schifo Sempre. La trovate qui (https://www.optimagazine.com/2020/05/13/la-pandemia-il-pandemonio-e-la-band-dei-pandemonium/1806402).

L’altro giorno, in uno dei miei pomeriggi passati a studiare, io chino su libri e link, i gemelli Francesco e Chiara, nove anni, quarta elementare frequentata nonostante il Covid, al mio fianco a fare i compiti delle vacanze, una mole di compiti immane, evidentemente le maestre hanno un’idea di vacanza diversa dalla mia, oltre che diversa dal comune concetto di vacanza, l’altro giorno sono andato a studiarmi il cast del Festival della Canzone Italiana di Sanremo proprio dell’anno in cui i Pandemonium hanno portato all’Ariston Tu Fai Schifo Sempre, e sono trasalito.

Era il 1979, e io avevo esattamente la medesima età dei gemelli ora, nove anni. Ne avrei compiuti dieci di lì a qualche mese, come faranno loro quest’anno.

Io quel Festival me lo ricordo bene. Ma siccome io non ho memoria, ve ne parlavo giorni fa, credo, è facile che quel che io mi ricordi sia più frutto dell’essere andato a guardare il guardabile a riguardo sul tubo, Mike Bongiorno con le basette che presenta affiancato da Anna Maria Rizzoli, lei molto morigerata nei commenti, seppur io poi ricordi di averla vista in certi giornalini che si trovavano imboscati dai ragazzi più grandi sotto le scale della Piazzetta, il punto di ritrovo nel quale ci si incontrava coi miei amici dell’epoca, alcuni dei quali amici anche oggi, giornalini che ci introducevano, erano anni senza internet, al mondo del sesso, e anche in certe pellicole piccanti, di quelli che inspiegabilmente davano al cinema di San Domenico, roba dal titolo L’insegnante Al Mare con tutta la classe o La Ripetente Fa L’Occhietto Al Preside, neanche Marco Giusti credo sia riuscito a sdoganarli dalla loro aura trash, bella donna, ricordo, bionda naturale, qui a pronunciare con imbarazzo il titolo dei Pandemonium, Tu Fai Schifo Sempre, Pandemonium per altro presentati da Mike con chiari intenti derisori, lei a dire “una canzone dal titolo puttosto singolare, Tu Fai Schifo Sempre”, lui a dire “I Pandemonium rappresentano un po’ la nuova scuola musicale, che va tanto di moda in questo momento in Italia. Cioè si presentano in tanti, cantano, suonano e ballano, ecco li vedete entrare adesso, vestiti nei modi più strambi ed eccentrici…”. Ottima presentazione, in effetti, gente bizzarra che come principale caratteristica l’essere in tanti e vestiti strani. Erano altri tempi, del resto, ci stava perfettamente che uno come Mike, un presentatore che aveva fatto successo proprio per quel suo modo un po’ risoluto di presentare, a maltrattare i concorrenti dei suoi quiz tanto quanto i cantanti in gara al Festival, con quelle leggendarie gaffes, non si è mai capito se in effetti tali o più un suo modo di prenderci in giro per fare spettacolo.

Quel che mi colpisce di quei ricordi, ripeto, non saprei dire se reali o indotti dall’aver visto quei video sul tubo, è il cast di quel Festival, e più nello specifico l’alto grado di sperimentazione di una parte del cast del Festival 1979. Sarebbe il caso di fare una piccola precisazione, e mi rendo conto che in questi giorni sto decisamente dedicando troppo tempo al Festival, certo evento importante per chi si occupa di cultura popolare e di musica leggera, ma sicuramente non centrale, tanto più allora, in quegli anni Settanta che erano stati la culla del cantautorato per come lo conosciamo ora, gli anni di Piombo che si preparavano a lasciare il campo al decennio dell’edonismo reaganiano.

Oggi si fa un gran discutere della presenza nel cast del prossimo Festival di nomi appartenenti a quello che genericamente viene identificato come indie, intendendo non tanto quel genere di pop sciattarello cui i vari Tommaso Paradiso e soci ci hanno abituati, quanto più che altro un mondo che è partito e a lungo ruotato intorno a etichette indipendenti quali Maciste Dischi, Garrincha Dischi, La tempesta, tutte rappresentate in effetti nel cast, penso a La Rappresentante di Lista, ai Coma_Cose, a Colapesce e Dimartino, questo parlarne è figlio della persistenza della formula BIG e Giovani, in alcuni casi chiamati anche Emergenti, e qualcuno ha ipotizzato che nel secondo gruppo che questi nomi sarebbero dovuti andare, perché non di BIG nel senso tradizionale si tratterebbe, specie tenendo conto del pubblico tipo del Festival.

Ovviamente si tratta di quel chiacchiericcio che è complementare al Festival stesso, se non addirittura ne è colonna vertebrale, un voler fare le punte ai piselli, per intendersi.

Un tempo però, prima cioè che Pippo Baudo si inventasse questa divisione tra le categorie, e quando soprattutto il Festival della Canzone Italiana di Sanremo era ancora il Festival della canzone e non dei cantanti, ricordiamo che nelle prime edizioni alcuni interpreti cantavano più brani, andando in gara contro loro stessi, il cast era spesso abitato da figuri del tutto sconosciuti, nomi che magari erano noti ai discografici, non è che si capitava da quelle parti per caso, ma che il pubblico avrebbe conosciuto proprio grazie a quella importante vetrina. In quell’occasione, il Ferstival del 1979, vinto per altro dalla prescindibilissima Amare di Mino Vergagni, poi diventato stretto collaboratore di Zucchero, nonché coautore di alcune sue canzoni quali Diamante, tre nomi saltano all’occhio per tutta la loro potenza, tre nomi che oggi come oggi non fanno più parte del panorama musicale, in due casi non fanno più parte neanche di questo mondo, essendo i nomi legati a persone scomparse: Franco Fanigliulo, i già citati Pandemonium e Enzo Carella.

Lasciamo da parte di Pandemonium, dei quali ho già scritto, vorrei ora concentrarmi sugli altri due artisti.

Nato nel 1944 a La Spezia, Franco Fanigliulo era un artista poliedrico, in bilico tra canzone e teatro, con incursioni anche nel mondo del cinema e della televisione. Nel 1979 venne portato al Festival dalla CGD di Caterina Caselli con una canzone che era destinata a fare scalpore, A Me Mi Piace Vivere Alla Grande. Un brano scanzonato, perfetto per mettere in risalto le sue doti di performer anche molto fisico, e che presentava una strofa controversa come questa: “Adesso che Gesù ha un clan di menestrelli/ che parte dai blue jeans e arriva a Zeffirelli”, strofa che faceva chiaramente riferimento alla marca di pantaloni Jesus e al film Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli ma che sortirono accuse di blasfemia. Il testo, cui ha collaborato quel genio mai abbastanza celebrato di Oscar Avogadro e Daniele Pace, a sua volta anima anche degli Squallor, si sposa perfettamente con una musica allegra, prodotta e arrangiata da Gian Piero Reverberi. Una canzone mostro, per certi versi, perché si è come fagocitata le altre contenute in Io e me, secondo album del nostro, come quelle del successivo Ratatam Pum Pum, per altro entrambi lavori usciti nel corso del medesimo anno.

Credo che il suo cantautorato sghembo, istrionico, a metà strada tra il non sense e una forma di malinconia menestrellesca che in qualche modo lo potrebbero indicare come un avo di quel Salvador Sobral che ha vinto negli anni scorsi Eurovision con la sua Amar Pelos Dois. Dopo un passaggio alla Numero 1, etichetta di cui a breve andrò a parlare, sotto l’ala protettiva di Shel Shapiro, anima dei Rokes che per lui produsse il Q Disc Benvenuti nella musica, siamo nel 1983, Fanigliulo si ritirò dalle scene, andando a vivere in campagna.

Ma la passione per la musica è difficile da mandare in pensione, è noto, anche perché Fanigliulo è giovane, ha solo trentanove anni. Arrivano quindi due incontri importanti, prima col team di lavoro di Vasco Rossi, Gaetano Curreri in primis, che gli produce il singolo L’acqua minerale, uscito per l’etichetta di Vasco Bollicine, poi inizia una collaborazione e amicizia con Zucchero, andando a lavorare con lui in studio a Blue’s, masterpiece della produzione fornaciariana nonché uno dei dischi più venduti di sempre in Italia.

Nel 1988, mentre sta lavorando al suo nuovo album dal titolo Sudo Ma Godo, una emorragia cerebrale lo ucciderà, ponendo fine a una delle carriere più originali e bislacche del nostro panorama musicale.

L’album uscirà, per Bollicine col titolo Goodbye mai l’anno successivo, il lavoro portato a termine proprio per precisa volontà sia di Vasco che di Zucchero, desiderosi di non lasciare incompiuta l’opera di quello che è stato a suo modo un genio incompreso.

Visto che di geni incompresi si parla, archiviato un più che onorevole sesto posto di Fanigliulo al Festival di Sanremo 1979, i Pandemonium arrivarono per la cronaca decimi, va segnalato che quel Festival ha messo in evidenza un altro immenso talento col tempo dimenticato, Enzo Carella, classificatosi secondo col perfetto funkettone dal titolo Barbara.

Nato nel 1952 a Roma e scoperto artisticamente poco dopo aver compiuto vent’anni da Vincenzo Micocci, sì, il Vincenzo che Alberto Fortis voleva ammazzare nel suo disco d’esordio, altro capolavoro che andrebbe assolutamente recuperato, Carella comincia una importante collaborazione con un poeta e autore di teatro d’avanguardia che proprio con lui incontra un primo successo commerciale, Pasquale Panella, il brano in questione è Malamore, contenuto nell’album d’esordio Vocazione.

In sostanza è grazie all’incontro con Carella che Panella diventerà uno dei parolieri più importanti della nostra storia musicale, mai abbastanza celebrato per il lavoro fatto con Lucio Battisti, certamente, a lui si devono le liriche di Don Giovanni, L’Apparenza, La Sposa Occidentale, Cosa succederà alla ragazza e Hegel, non dimentichiamo che a Panella si devono anche altre perle del nostro pop, da Canzoni di Mietta a Vattene Amore, della stessa Mietta con Minghi, Minghi per cui ha scritto tra le altre La Vita Mia, come sue sono i testi di In Amore di Morandi con Barbara Cola, di Blu di Zucchero, di Giulietta di Mango, di Processo A Me Stessa di Anna Oxa, oltre a decine di altre canzoni e le traduzioni italiane delle due opere di Riccardo Cocciante Notre Dame de Paris e Giulietta e Romeo.

Un genio vero, quello di Panella, già solo l’essersi inventato il Trottolino Amoroso du-du-du-da-da-dà varrebbe una carriera.

Con Carella, va detto, come Battisti appassionato di musica black e di quel pop sofisticato che aveva negli Stealy Dan i propri alfieri, la band di Donald Fagen e Walter Becker è stato vera matrice di quel mix di pop, soul e venature black che saranno ossatura di molto pop degli anni Ottanta, e anche molto appassionato dello stesso Battisti, Panella costituirà una coppia di fatto molto affiatata, capace di dare un senso lirico a musiche in bilico tra funky e pop, Barbara in questo credo sia un esempio perfetto di come lo si possa fare anche in italiano. Ottimo compositore, oltre che gran bravo chitarrista, Carella ha una voce, questa sì abbastanza battistiana, che incontrando le parole alte e ironiche di Panella si fa stralunata, iconica, sempre e comunque a fuoco su pezzi che sono una vera girandola di possibilità espresse. Sì, perché Carella, specie nei primi tre lavori sulla lunga distanza, Vocazione, del 1977, Barbara e altri Carella, del 1979, e Sfinge, del 1981, riesce a fare una cosa che nel pop, almeno nel pop oggi, è praticamente impossibile, stupire.

Capace di muoversi sia sul fronte della scrittura che in quello degli arrangiamenti, infatti, tira fuori dal cilindro soluzioni anomale, assoli bizzarri ma molto ben eseguiti, soluzioni armoniche affatto banali, suond che spaziano dal funky all’elettronica, musiche perfette per sposarsi coi testi di Panella, mai come con lui capace di dare alla forma canzone trovate e soluzioni così rivoluzionarie. Basti pensare al titolo di un successivo album, arrivato dopo un ritiro che lo vedrà lontano dalle scene per una decina d’anni e un ritorno non proprio fortunatissimo come Carella de Carellis, del 1992, quel Se Non Sarei Nessuno: l’Odissea di Panella e Carella, rilettura pop e filosofica della storia di Ulisse, roba che farebbe impallidire qualsiasi artista indie in libera circolazione oggi.

Come nel caso di Fanigliulo, sebbene la storia dell’autore di A Me Mi Piace Vivere Alla Grande sia durata assai meno, morto a soli quarantaquattro anni, anche Carella vivrà un lungo periodo lontano dalle scene, incapace di tenere il passo con la musica che nel mentre si sarà fatta largo nelle classifiche, forse, o più semplicemente disilluso da un mondo che non gli ha mai riconosciuto un talento unico.

Nel 2011 arriverà un arresto per detenzione di sostanze stupefacenti, e nel 2017 la morte per arresto cardiaco, proprio mentre stava provando a affacciarsi al mondo del crowdfunding per provare a tornare sulle scene con nuove canzoni.

Enzo Carella, al pari di Franco Fanigliulo, è nel mentre scomparso dai radar, certo, citato da chi segue la musica con passione, ogni tanto li troviamo in retrospettive di critica musicale, spesso in magazine rivolti a una nicchia di appassionati, e, per dire, Enrico Ruggeri ha reso omaggio proprio a A Me Mi Piace Vivere Alla Grande interpretandola insieme a Francesco Bianconi alla finale dell’ultima edizione di Musicultura, sul palco dello Sferisterio di Macerata, per il resto il silenzio assoluto.

Ci sono state caute ristampe in vinile dei primi lavori di Carella, ma, per dire, la da poco rinata Numero 1, un tempo con a capo Ennio Melis e al momento guidata piuttosto inspiegabilmente da Sara Potente per la Sony Music, non sembra affatto interessata a ripubblicare l’opera di Fanigliulo.

Del resto, avevo anticipato che ne avrei parlato, il caso Numero 1 è piuttosto singolare, perché la storica etichetta nata per volontà di Mogol e Lucio Battisti, insieme a Alessandro Colombini e Franco Daldello, nel 1969, etichetta che nel tempo ha tenuto a battesimo artisti quali la Formula 3, Edoardo Bennato, Adriano Pappalardo, la PFM, Il Volo, no, non i tre tenorini di oggi, Il Volo intesi come la band capitanata da due giovani Alberto Radius e Mario Lavezzi, in compagnia di Vince Tempera, Gianni Dall’Aglio, Bob Callero e Gabriele Lorenzi, Ivan Graziani,Eugenio Finardi, Tony Esposito e Mango, e che ha negli anni pubblicato anche lo stesso Lucio Battisti, Bruno Lauzi, Toni Renis e tanti altri, sorta di collettore di talenti e veicolo di scouting che ben si era ambientata in casa RCA, oggi appare come una sorta di succursale indie della major. Intendiamoci, Iosonouncane, La Rappresentante di Lista, Colapesce e Dimartino, i primi a essere annunciati nel roster, sono nomi di prima grandezza, artisti di tutto rispetto che però già esistevano prima della rinascita dello storico marchio. Un po’ come accadde all’epoca della Black Out, braccio underground del blasonato marchio Polygram, nata per volontà di Giuseppe Galimberti, etichetta che pubblicò tra gli altri i Casino Royale, Ritmo Tribale, così come Neffa e I Messaggeri della Dopa o i Negrita e i Verdena, senza però nessun tipo di piglio scoutistico, del resto oggi come oggi la faccenda è molto più semplice, si arriva all’esordio con meno investimenti e le etichette discografiche non hanno che da distribuire o al limite prendere in corsa, e soprattutto senza guardare alla ricchezza di un catalogo importante, fondamentale, addirittura. Manca la cultura, è evidente, ma manca anche la voglia di prendersi qualche rischio, di puntare sulla qualità più che sui numeri facili.

Piacerebbe molto rivedere disponibili i lavori di artisti come quelli cui questo sessantasettesimo capitolo del mio diario del secondo lock down è dedicato, come sarebbe bello ipotizzare che si cominci a guardare con la giusta attenzione filologica al pop, intendendo per pop la musica leggera che magari andava anche a attingere a suoni considerati alternativi, penso a artisti come il Gino D’Eliso de Il mare o di Cattivi Pensieri, per dire.

Mi piacerebbe che una volta tanto fosse da lì che uscisse un nuovo nome capace di stupirmi tanto quanto, a nove anni, mi hanno stupito Fanigliulo e la sua A Me Mi Piace Vivere Alla Grande e Carella e la sua Barbara, alieni su un palco di Sanremo che prevedeva senza indugi la presenza di altre forme di vita.