Pandemia e pandemonio.
Sono appassionato delle parole, ve l’ho già detto. Sono i miei ferri del mestiere, le parole, non potrebbe che essere altrimenti. Non che io sia un nerd delle parole, non so come si chiamano i nerd delle parole, confesso, immagino ci sia appunto una parola specifica per indicarli, una parola che non sia, per dire, filologo, ma qualcosa di più vicino proprio all’idea di nerd, sfigatezza compresa, ma sceglierle con cura, leggerle pure, mi piace parecchio, anche se so, anche qui credo di ripetermi, sono troppi giorni che tengo questo diario, temo, magari qualcuno di voi potrebbe pensare che questo mio scrivere così logorroico sia in realtà una sorta di flusso di coscienza, con le parole che quindi fluiscono, invece che essere state scelte una per una con cura.
Sono appassionato di parole e come molti, ho letto diversi articoli a riguardo, in rete, ho subito notato come la parola pandemia, che confesso prima del Coronavirus non avevo mai molto preso in considerazione, figuriamoci, anche Contagion di Soderbergh, film che alla fine ho visto, qualche sera fa, con Marina, e seppur mi ha impressionato per la preveggenza e la aderenza quasi totale all’attualità, con nove anni di anticipo, però, anche Contagion di Soderbergh, che pur usa termini ormai divenuti d’uso comune, come “distanziamento sociale” o “paziente zero”, parla di epidemia, non di pandemia, figuriamoci se ero tenuto a tenerla in considerazione io che con le malattie virali non ho molto a che fare, fortunatamente, ecco, io ho notato che la parola pandemia, ormai divenuta d’uso comune, e non potrebbe che essere così, è stata più volte accostata alla parola pandemonio, un po’ a cazzo di cane, mi sento già di aggiungere.
Chiaro, ci sono delle similitudini nei due nomi, a partire dal suffisso pan, e ci sono anche delle somiglianze da un punto di vista sonora, pandemia, pandemonio, ma nei fatti le due parole non hanno attinenze.
Per pandemia, è noto anche ai sassi, ormai, si intende un’epidemia che ha colpito tutta la popolazione mondiale, parola che deriva dal greco e che mette insieme pan, cioè tutti, e demos, cioè popolo. Per pandemonio, invece, si intende qualcosa di estremamente rumoroso e fastidioso, formata da pan, cioè tutti e daimon cioè demonio, ma la parola ha un’altra origine, i greci non la usavano, ha una origine assai più recente, parliamo del milleseicento, circa. L’ha infatti inventata Milton nel suo Paradiso perduto, intendendo con quella parola il corrispettivo demoniaco del Pantheon, che era il luogo in cui si riunivano tutti gli dei. Era cioè il Pandemonio il luogo in cui si riunivano nel Paradiso perduto tutti i demoni, un luogo evidentemente rumoroso e poco civile, mica sono eleganti e silenziosi i demoni, no?
Confesso che la prima volta che ho sentito parlare di pandemonio, in realtà, vado a memoria ma con pochi margini di errore, era nella sua declinazione inglese, Pandemonium, quindi con un chiaro riferimento al latino più che al greco, miltoniano.
In realtà non avevo ancora iniziato a studiare né l’uno né l’altro, quando ho sentito per la prima volta parlare di Pandemonium e quindi di pandemonio, perché all’epoca stavo ancora facendo le scuole primarie, anzi, le elementari, perché questa cazzata di chiamare le elementari primarie, le medie secondarie e via discorrendo è più recente, di quando, cioè, a qualcuno gli è partito l’embolo di cambiare i nomi delle varie scuole pensando così di riconoscergli un ruolo e una funzione diversa da quella che in realtà ancora ha.
Era il 1979, a febbraio, e sul palco del Festival della Canzone Italiana di Sanremo salgono i Pandemonium con una canzone che farà parecchio discutere. In realtà c’erano saliti già l’anno precedente, accompagnando Rino Gaetano, lì a cantare una delle sue canzoni più famose, Gianna, quella volta che Rino Gaetano aveva il frac, il cilindro calato in testa e l’ukulele, immagino abbiate tutti visto quei video d’annata e se non lo avete fatto correte sul tubo, sono ancora tutti lì, erano loro, i Pandemonium a fare i cori, quelli che rubano la scena a Gaetano sul finale, caciaroni, ma stavolta, nel 1979, ci salgono in proprio, e la canzone che eseguono è la provocatoria Tu fai schifo sempre, presentati da un Mike Bongiorno che di loro dice “rappresentano un po’ la nuova scuola musicale, che va tanto di moda in questo momento in Italia, si presentano in tanti, cantano, suonano e ballano, eccoli li vedete entrare adesso, vestiti in modi strambi e eccentrici”, il tutto dopo che la valletta, Anna Maria Rizzoli, li aveva introdotti dicendo “ha un titolo abbastanza singolare”, lei che giusto l’anno dopo, nel 1980, ci avrebbe introdotto ai peli pubici e ai capezzoli, protagonista della commedia sexy L’insegnante al mare con tutta la classe, uno dei tanti film erotici con i quali ci avrebbe deliziato in quegli anni, film singolari, immagino, li avrebbe descritti se glielo si fosse chiesto, un’edizione, quella del Festival di Sanremo 1979, vinta da Mino Vergnaghi con Amare, canzone e cantante di cui si sono legittimamente perse le tracce, a parte qualche collaborazione con Zucchero molti anni dopo, ma che vedeva partecipare anche quel genio compianto di cui non si è mai parlato abbastanza di Enzo Carella, arrivato secondo con Barbara, testo come sempre del Pasquale Panella pre-Battisti, l’altrettanto compianto e mai abbastanza celebrato Franco Fanigliulo, con A me mi piace vivere alla grande, canzone che faceva fare rima alla parola “grande” con la parola “mutande”, è noto, i versi immortali “a me mi piace vivere alla grande/ già, girare per le favole in mutande”, Festival di Sanremo 1979 che aveva come direttore artistico El Pasador, per tutti noi nati alla fine degli anni sessanta colui che aveva fatto la sigla di quel capolavoro televisivo che rispondeva al nome di Non Stop, programma geniale dal quale erano usciti un po’ tutti, da Carlo Verdone, che all’epoca faceva dei monologhi incredibili, sui tic degli italiani medi, a Massimo Troisi e i suoi La Smorfia, cioè Lello Arena e Enzo Decaro, i Gatti di Vicoli Miracoli, cioè Smaila, Jerry Calà, Franco Oppini e Nini Salerno, Marco Messeri, ricordo ancora oggi i suoi monologhi in cui faceva un feto che non voleva uscire dall’utero materno, come fosse un rapinatore circondato fuori dalla banca dalla polizia con tanto di altoparlante, i Giancattivi, cioè Francesco Nuti, Dio quanto l’ho amato e l’amo, il suo film Son contento uno dei miei film italiani preferiti di tutti i tempi, con una Barbara De Rossi che era davvero capace di entrarti dentro come un chiodo, una bellezza devastante, come forse all’epoca riusciva solo a Elena Sofia Ricci, Elena Sofia Ricci che è stata oggetto della mia prima litigata in assoluto con Marina, nel 1988, perché Marina, lo dico ora, che ormai quella lite è roba di modernariato, da ragazzina era molto simile a Ornella Muti, ma molto davvero, cosa che molti le dicevano ma che io, che non amavo affatto Ornella Muti ma amavo molto lei, negavo in maniera ferma, al punto che, quando io e Marina siamo andati a vedere il film di Verdone Io e mia sorella, film che aveva per coprotagoniste sia la Muti che Elena Sofia Ricci, a esplicita domanda, esplicita domanda chiaramente trabocchetto “chi ti piace di più tra Ornella Muti e Elena Sofia Ricci” avevo risposto in maniera ferma “Elena Sofia Ricci”, un po’ perché era oggettivamente vero, Elena Sofia Ricci mi è sempre piaciuta molto, anche ora, un po’ perché sapevo che a una domanda trabocchetto non si deve rispondere in maniera scontata, pena il passare per coglioni, ottenendo, quindi, la mia prima lite con Marina, offesa per non aver indicato quella che tutti le dicevano le somigliasse parecchio, ma al tempo stesso impossibilitata a dirmi esplicitamente il motivo della sua incazzatura, pena il passare per una che pensa veramente di assomigliare a Ornella Muti, ritenuta a ragione una delle donne più belle d’Italia, Ornella Muti che con Nuti ha fatto un altro film bellissimo, Tutta colpa del Paradiso, Dio quanto ho amato e amo Nuti, il suo passaggio al Festival di Sanremo 1988 con Sarà per te, lui con camicia bianca e gilet nero, le maniche tirate su, Sarà per te poi a sua volta omaggiata da Marco Masini, recentemente, Nuti da tempo fuorigioco per un brutto incidente, il suo passaggio al Festival di Sanremo 1988 con Sarà per te per altro, uno dei momenti più belli di settant’anni di Festival, lo dico senza paura di essere smentito, lui che già di aveva regalato una canzone assai meno poetica ma altrettanto bella come Puppe a pera, irriverente e nervosa come solo lui ha saputo essere nel nostro mondo dello spettacolo, Nuti lì a NonStop con i Giancattivi, insieme a Atina Cenci e Alessandro Benvenuti, poi Gaspare e Zuzzurro, Enrico Beruschi, in gara proprio al Festival di Sanremo 1979 con Sarà un fiore, e tanti altri, compreso il mimo Jack La Cayenne, che ricordo si mangiava palline da ping pong, un vero capolavoro, Non Stop programma di quel genio compreso non fino in fondo di Enzo Trapani.
I Pandemonium che fanno Tu fai schifo sempre a Sanremo 1979, quindi.
Piccola premessa, i Pandemonium nascono tre anni prima, nel 1976, come laboratorio di teatro-canzone a Roma, con dentro anche nomi importanti, penso a Amedeo Minghi, al coreografo Franco Miseria, a Dario Farina, autore di buona parte del hit plasticose dei Ricchi e Poveri, all’autore di musical Michele Paulicelli, a lungo al fianco di Johnny Dorelli, come nel musical Forza venite gente (quello di Aggiungi un posto a tavola, per capirsi), un laboratorio che ha lavorato a fianco di giganti come Gigi Proietti e Luigi Magni, così come Gabriella Ferri, insomma, un laboratorio che partiva con l’idea di mettere insieme competenze e talenti che ruotassero a 360° intorno al mondo dello spettacolo, non solo sulla forma canzone.
Poi però arriva quel Sanremo 1979, e per un po’ la faccenda prende un’altra piega. Perché la canzone presentata, Tu fai schifo sempre, diventa a suo modo una hit. Diventa anche una sorta di invito a presentarsi su quel palco con canzoni stravaganti, ironiche, surreali, penso alla Una gita sul po’ di Gerardo Carmine Gargiulo, presentata nel 1982, o alla poetica Hop Hop Somarello presentata nel 1980 da Paolo Barabani, e gli esempi di lì in poi sono davvero tanti, troppi, non sempre riuscitissimi.
I Pandemonium, quindi, affidati al duo Mariano Perrella e Gianni Mauro si cominciano a occupare prevalentemente di musica, di canzoni, azzeccando anche qualche altra hit.
Oggi, lo dico senza paura di essere smentito, di loro si è persa traccia, anche se immagino stiano ancora facendo cose, anche sotto quel nome. Io ricordo che all’epoca, ripeto, facevo la quinta elementare, la canzone arrivò in casa nostra un po’ come una sassata, perché certe parole, lo so che schifo non è una parolaccia, ho citato proprio Masini, prima, figuriamoci che effetto avrebbe fatto la sua Vaffanculo o la sua Bella stronza, per dire, ma schifo è comunque una parola che si associa a situazioni sgradevoli, non era molto gradito in casa Monina quel tipo di linguaggio, e sentirla cantare in televisione, per di più durante il Festival, era qualcosa di poco consono.
So che oggi può suonare strano, ma all’epoca in tv non si usava un linguaggio gergale, di strada, avrebbero detto, e non c’erano ancora state neanche scene di nudo, sempre per rifinire il quadro, Tu fai schifo sempre era davvero qualcosa di irriverente, quasi eversivo.
Gli Squallor, di cui vi ho già parlato in queste pagine, già c’erano, è vero, ma non flirtavano con quel mainstream lì, erano collaterali, si muovevano su un circuito che non era quello della televisione di stato, figuriamoci se andavano a Sanremo.
In realtà, vado a spanne, sapete che la mia memoria è fragile, spesso più oggetto di una mia personale ricostruzione dei fatti ex post che davvero fedele alla cronaca, io dei Pandemonium ho sentito più spesso parlare dopo, una decina di anni dopo la loro partecipazione al Festival di Sanremo, quando ormai di loro si era persa ogni traccia dentro le classifiche e nel nostro immaginario. E ne ho sentito parlare, credo, per motivi che con i Pandemonium hanno poco o nulla a che fare.
Verso la fine degli anni Ottanta, infatti, sono passato dall’essere un bambino, come ai tempi di Tu fai schifo sempre, all’essere un post-adolescente o giovane adulto che dir si voglia.
Nel 1987, per dire, ho cominciato a votare, ho preso la patente per guidare prima la Vespa e poi la macchina, ci siamo capiti. Mi sono anche messo con Marina, e di colpo le mie uscite del sabato sera sono passate dal grande classico, andiamo al pub vicino casa, Il Boccale, con i soliti amici, una birra al doppio malto Adelscott e le patatine fritte, al meno classico, ogni sabato sera proviamo a fare qualcosa di diverso, dall’andare a cena da qualche parte, prevalentemente pizzerie, a andare al cinema, dal ci vediamo da qualche amico per vedere un film o fare qualcosa come un gioco di società all’andiamo a ballare (questo no, non ce l’ho proprio mai fatta). Eravamo giovani e ci si accontentava davvero di poco, va detto, ci bastava il nostro amore.
In una delle pizzerie che frequentavamo più spesso, ma giuro che al momento non mi ricordo quale, c’era anche un tizio che faceva pianobar, suonando e cantando accompagnato da una tastiera che evidentemente non suonava, optando per inserire basi preincise su floppydisc che facevano sembrare tutte le canzoni uguali a loro stesse, uno spettacolo davvero indegno. Tutte le volte che ci si capitava, perché benché si tendesse a non ripetere il solito giro, per non cadere nella routine, le pizzerie appetibili in Ancona non erano poi troppe, tutte le voci che ci si capitava il tizio, capelli castani lunghi fino alle spalle, un paio di baffi a manubrio piuttosto massicci, non mancava di chiudere la serata con quella che, diceva, era la canzone che aveva portato a Sanremo, Tu fai schifo sempre. Era, infatti, diceva, il cantante dei Pandemonium, questo non mancava di ripeterlo tutte le volte, facendo alzare qualche sopracciglio, sempre richiamando schiamazzi e copiosi applausi finali, il tutto dopo aver invitato tutti a cantare la hit in coro, come si fosse allo stadio, “Tu fai schifo sempre, la mattina/ la sera tu fai schifo sempre”.
La fine degli anni Ottanta, ricorderete, era un’epoca senza internet, se non nei romanzi di William Gibson che però in Italia non erano neanche già stati tradotti. Quindi nessuno di noi aveva modo di verificare che la faccenda del tizio che aveva cantato a Sanremo fosse vera.
Non che qualcuno mettesse in dubbio la cosa, sia chiaro, stavamo parlando dei Pandemonium, non dei Rolling Stone, e il fatto che lo dicesse in maniera convinta, con accento napoletano, ricordo, quindi da forestiero, rendeva il tutto sufficientemente credibile.
Metteteci pure che la mia città, Ancona, non aveva praticamente mai regalato protagonisti alla canzone leggera italiana, neanche uno.
Certo, avevamo avuto Michele Pecora, della limitrofa Falconara, che aveva azzeccato almeno un paio di hit di grandissimo successo, Era lei e Te ne vai, Michele Pecora che poi sarebbe ritornato suo malgrado visibile per la querelle con Zucchero relativa al plagio di Blu, in effetti uguale alla sua hit, che per altro Zucchero aveva a sua volta scritto, e recentemente passato per Ora o mai più, come concorrente, ma per il resto non c’era davvero stato mai nessuno. Avevamo avuto qualche turnista, come Pastrocchio, che veniva anche citato da Riccardo Cocciante, esattamente così, “alle tastiere Maurizio Lucantoni detto Pastrocchio”, nel suo strepitoso doppio disco dal vivo Quando si vuole bene, album che io e Luca, uno dei miei amici più cari di quando ero giovane, usavamo come colonna sonora delle nostre interminabili partite a Subbuteo, io a usare il Genoa e lui la Sampdoria, io a tifare Genoa perché lui aveva deciso di tifare Sampdoria, io molto più forte di lui, va detto, Riccardo Cocciante, per altro, che in seguito avrei conosciuto proprio in Ancona, al Palarossini, quando era passato in città per un concerto del tour relativo all’album che aveva il suo cognome per titolo, Cocciante, tour che veniva aperto da Marco Carena, cantante-comico che era divenuto famoso grazie al Maurizio Costanzo Show, vincitore del Festival di SanScemo con canzoni come Buonanotte o Io ti amo, in quel disco presente nella canzone Prima gita scolastica nel mondo del jazz, del blues e del rock, a duettare con Cocciante, Marco Carena che avrei conosciuto tanti anni dopo, a Milano, arrivando a scrivere con lui una canzone, Bionda, finita nel suo ultimo lavoro di studio, Lo vogliono tutti, in realtà una mia vecchia canzone scritta in quegli anni anomali nei quali mi ero messo a suonare il piano, canzone che si intitolava Birra, rielaborata da lui e da lui incisa, avevamo quindi qualche turnista, come Pastrocchio, o come anche mio cognato Mauro, il marito di mia sorella Caterina, già ve ne ho parlato altrove, che prima di incontrare mia sorella e di sposarsi con lei, aveva suonato come pianista con il Roberto Soffici di All’improvviso l’incoscienza, canzone che mi ha sempre mandato fuori di testa per quel suo tirare in ballo un pulcino, nei versi “così piccola come un pulcino/ insicura mi vieni vicino”, per altro parlando di sesso, parola che ho sempre trovato agghiacciante parlando di amore, figuriamoci di sesso, al pari del “passerotto non andare via” di Baglioni, passerotto, Santo Dio, e Luciano Rossi di Ammazzate oh, Luciano Rossi che ho sempre confuso con lo Stefano Rosso di Una storia disonesta, quella di “che bello, gli amici, una chitarra e uno spinello”, padre di quel Jesto che oggi è uno degli artisti preferiti di mia figlia Lucia, vedi a volte come gira il mondo, avevamo avuto dei turnisti, quindi, come Pastrocchio e mio cognato Mauro, e un cantautore come Michele Pecora, ma niente di più, quindi un tizio che mentre fa pianobar in pizzeria dicesse di essere andato a Sanremo come cantante dei Pandemonium era credibile, o quantomeno plausibile, anche se non era vero.
Nei fatti, questo l’ho scoperto solo ora, che sono andato su Google per raccogliere qualche info proprio al fine di scrivere queste pagine del mio diario del contagio, ottantesimo capitolo giunto al ottantesimo giorno di clausura, il tipo doveva essere poco più di un contapalle, nel senso che magari coi Pandemonium ci avrà avuto a che fare, non escluso che ci abbia anche suonato insieme, ma sicuramente non ne era il cantante, e sicuramente non era stato lui a cantare la canzone Tu fai schifo sempre al Festival, guarda tu in che cazzo di modo devo venire a sapere io le cose.
Certo, gli anni Ottanta sono stati anni Ottanta anche in virtù di Deejay Television che per la prima volta ha portato nelle nostre case i videoclip delle canzoni, proiettandoci nel mondo per come ce lo ha raccontato Brett Easton Ellis, e Deejay Television avevano quella stupenda sigla che si intitolava Diamonds, hit di una band che pensavamo inglese e che si chiamava stranamente Via Verdi ma che presto avremmo scoperto che erano in realtà di Ancona, per altro loro, i Via Verdi, sono da poco tornati di scena col clamoroso album The Time Machine, ma loro erano di un altro pianeta, di quello che ruotava intorno a Cecchetto, considerarli anconetani era impensabile. Come è difficilmente inquadrabile localmente le vicende di Fabri Fibra e Nesli, di Senigallia, Senigallia che non è Ancona, provate a dire uno di Ancona che è di Senigallia, o viceversa, e capirete bene che granchio che state prendendo, ricordo che la prima volta che ho sentito una loro canzone, quando i due fratelli Tarducci ancora si parlavano e addirittura collaboravano insieme, parlo dell’epoca in cui uscivano sotto il marchio Gente di mare, avevo capito subito fossero delle mie parti perché avevo riconosciuto non tanto l’accento marchigiano, quanto per il loro dire, il suo, era Fibra a dirlo, “recchione”, laddove tutti i rapper, diciamo tutti i rapper di provenienza milanese, dicevano “ricchioni”, vedi a appassionarsi di parole, ma Ancona niente, non ha proprio mai prodotto artisti in grado di emergere a livello nazionale.
Viene quasi da pensare, anche a partire dal fatto che, quando ho conosciuto Michele Pecora, nell’hotel dove soggiornavano tutti i concorrenti di Ora o mai più, hotel dove ero andato a trovare il mio amico Red Canzian, uno dei giudici di quello strano talent per artisti in precedenza già emersi, viene quasi da pensare, anche a partire dal fatto che, quando ho conosciuto Michele Pecora lui mi si è presentato sottolineando come mi conoscesse e mi leggesse sempre, manifestando una certa emozione nell’incontrare me, me che da piccolo avevo imparato a memoria le sue canzoni ma che in quel preciso momento, quando ci siamo conosciuti, ero uno dei critici italiani più in voga, così gira il mondo, viene quasi da pensare che io in effetti sia la sola popostar uscita dalla mia città natale, e se dico popstar è solo perché dopo tutti questi giorni di clausura anche la mia autostima è un po’ acciaccata, oltre che il mio fisico, altrimenti avrei parlato di rockstar, ci potete scommettere.
Sì, credo di essere la sola rockstar, fanculo la stanchezza, mai uscita da Ancona, motivo che, in epoca non emergenziale, mi spingerebbe a richiedere per l’ennesima e ultima volta all’amministrazione anconetana di farmi dono della Torre di Portonovo, faccenda che ho già affrontato in altro capitolo e che oggi sarebbe una mesta ripetizione.
Se non la date a me a chi cazzo dovreste mai darla?
Ma oggi son qui a parlare di pandemie e pandemoni, non di regali che mai arriveranno da parte di una amministrazione miope e ingrata.
Torno a parlare quindi di quelle due parole, consapevole del fatto che aver infilato nello stesso capitolo un tizio che si spaccia per il cantante dei Pandemonium, lì mentre fa pianobar accompagnandosi con una tastiera midi con le basi registrate nei floppy disc, e il Paradiso perduto di Milton è qualcosa di talmente gigantesco da indurmi a chiedere non tanto e non solo la Torre di Portonovo, ma addirittura tutto il Parco del Conero per portare a giocare i bambini, altroché Michele Pecora o Franco Scataglini, dai, alziamo il tiro, vedi sopra, qui siamo a livelli di postmodernismo elevato all’ennesima potenza, perle ai porci, John Barth scansate e fammi posto.
Pandemia e pandemonio, quindi, poco hanno in comune, è un fatto, perché demos e daimon, le parole che danno loro vita, non sono parenti strette, non sono proprio neanche vicine di casa, e la pandemia è una cosa seria, mortale, mentre il pandemonio è una parola inventata, letteraria, volendo anche provocatoria.
Anche se oggi, proprio oggi, pensare che possa esistere davvero un Pandemonium, così come c’è il Pantheon di Roma, un luogo fisico nel quale mettere uno a fianco all’altro i demoni, i diavoli, senza dar loro quell’aura romantica che volendo la figura di Lucifero ha, l’angelo caduto, il portatore di luce, quella faccenda lì, senza neanche tutta quella lettura surreale e divertita delle opere di Neil Gaiman, però, anche voi come me vi siete divorate in questi giorni le serie su Amazon Prime tratte dai suoi Good Omens e American Gods, lo so perfettamente, pensare che possa esistere davvero un Pandemonium ha un suo fascino, perché mai come in tempi come questi la lista di chi infileremo anche con violenza in un luogo del genere è piena zeppa di nomi, questo senza voler negare quel fascino che il diavolo ha sempre avuto, almeno letterariamente, quello che Bono cantava nella canzone God Part II, chiaro seguito della God di John Lennon, canzone contenuta in Rattle and Hum, epico doppio album e relativo film che ci raccontava la conquista del west da parte dei quattro di Dublino, film che ho visto al cinema Goldoni di Ancona in compagnia di Marina, sempre in quel lontano 1988, vedi a cosa può arrivare l’amore, il suo nel caso specifico, Bono che in God Part II cantava “Non credere nel diavolo, non credere nel suo libro/ ma la verità non sarebbe la stessa senza le menzogne che lui fabbrica”. Questo ottantesimo capitolo del mio diario del contagio non ha una morale, non saprei proprio che morale trarre da questa escursione tra alto e basso, passato e presente. Posso solo dire che Marina è molto più bella di Ornella Muti, lo era anche da ragazzina, e molto più bella di Elena Sofia Ricci, oggi come allora, ma questo con buona probabilità lo sapete già.