Non ci sono né santi né pandemie che tengano, il Festival di Sanremo si farà

Cresce la preoccupazione delle case discografiche, le uniche a porsi il problema della sicurezza e delle conseguenze di un immenso focolaio all'Ariston


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Quel che deve accadere accade, cantava Giovanni Lindo Ferretti. Il Festival di Sanremo deve accadere e accade, non ci son santi né eroi né pandemie che tengano. Dopo un balletto di ipotesi allucinanti – il pubblico deportato su una nave da crociera ed ogni volta trasferito all’Ariston per venire reimbarcato alla fine di ogni serata – è stata formalizzata la data: dal 2 al 6 marzo e spettatori tutti in teatro; non già migranti extralusso ma semplici plauditores immunizzati, ospitati nei rinomati alberghi che resistono ancora ad una crisi non di ieri, endemica crisi che il Covid ha soltanto acuito. La faccenda offre risvolti grotteschi e si presta a considerazioni che nessuno vuole azzardare davvero, la prima, la più ovvia: come si spiega che dopo un anno di blocco totale, di concerti abortiti, di teatri serrati, nessuna attività culturale, nessuno spettacolo possibile, solo il Festival della Canzonetta, solo l’immaginifico teatro Ariston tiri dritto, immune ad ogni imbarazzo? Si spiega coi venticinque, trenta milioni di indotto pubblicitario cui la Rai per nulla al mondo rinuncerebbe. La Rai, la televisione di stato sempre in rosso, in ogni senso: 3 miliardi di deficit spalmati sugli ultimi 15 anni, 150 milioni solo l’esercizio passato. La televisione pubblica è perennemente affamata di soldi e per salvare Sanremo si alleerebbe anche con gli scienziati pazzi di Wuhan.
D’altro canto, quella della nave Covid-free, dell’Ariston sterilizzato sono favole anche un po’ offensive; chi Sanremo lo bazzica – e chi scrive lo fa con cognizione di causa – sa benissimo che la cittadella ligure si farcisce di umanità esaltata in occasione del Festival: come uno stadio di San Siro ribollente di corpi e non per una settimana ma per almeno un mese, forse di più: tanto serve alla preparazione, quindi alla liturgia, infine allo smontaggio dell’intera baracca. Cantanti, impresari, manager, parassiti, imbucati, giornalisti, televisioni, radio, interviste, conferenze stampa, eventi, ospitate, feste, cene, affari, scopate, non manca niente a Sanremo in quel mese e come fai a garantire sicurezza ma soprattutto come fai a far finta di niente se da un anno martellano il paese con la conta dei morti, la letalità del virus, l’apocalisse in viaggio, le bare, gli intubati e tutto l’armamentario del terrorismo sanitario con cui alimentare proibizioni e sacrifici sempre più violenti e non di rado folli, un reticolo di filo spinato a stringersi sempre più sulle nostre carni? Per il Festival di Sanremo, rassegna canzonettara di vecchie glorie (Orietta Berti, Fedez, Michielin, Ermal Meta eccetera), tutto questo non vale. C’è la franchigia sanitaria, il temibile virus lascia fare, lascia passare. Sanremo è Sanremo ed ogni trovata, ogni pantomima vale, oltre il limite della bugia. Nessuno potrà garantire sicurezza in una bolgia simile e la conclusione necessaria, inevitabile cui approdare sta in una ed una sola alternativa: o la prima e maggiore negazionista è la Rai – la Rai dei programmini pomeridiani isterici, dei telegiornali fanatici, dei conduttori moralisti e censori, dei virologi santoni, oppure il Covid c’è, nessuno lo nega, ma le cose stanno in modo molto diverso da come ci raccontano, per terrorizzarci meglio, da un anno.
E tutto questo bisogna pur dirlo; e saremmo molto, molto ansiosi di sentirlo dire dalle sacerdotesse del controllo, dai farisei della delazione, da tutti quelli che passano la loro vita a raccomandare prudenza, a fotografare l’incauto che s’infila al supermercato, a maledire gli irresponsabili che si trovano a cena in quattro. Sono i convertiti della mascherina, prima razzista poi obbligatoria. Sono i redenti dell’involtino, che adesso scaricano ogni colpa sempre, inesorabilmente, a chi non nega un bel niente salvo l’uso della ragione con cui mediare tra le esigenze della sicurezza e quelle della sopravvivenza, inclusa quella economica: il Festival di Sanremo essendo l’unica intrapresa che non può rischiare la bancarotta anzi è tenuta a rimpinguarsi, sempre, ad ogni costo, ad ogni prezzo, fedele all’unica legge economica reale: se gli affari non crescono, diminuiscono.
Ma sarà difficile sentire in questo caso una sola voce di condanna o se non altro di perplessità: questione di giocarsi le palettine del sabato sera, la conduzione pomeridiana, la carriera dentro il servizio pubblico. E tutti staranno zitti, tutti si volteranno dall’altra parte e incolperanno se mai i poveri cristi con la mascherina storta. More solito.
Chi non tace, vivaddio, è l’AFI, una delle tre maggiori associazioni di categoria dei fonografici e discografici, che insieme alle concorrenti FIMI e PMI ha rivolto un appello al ministro sanitario Speranza e al Comitato Tecnico Scientifico che è il vero artefice, insieme a Casalino, degli orientamenti di palazzo Chigi e della politica sanitaria: AFI, in particolare, per bocca del presidente Sergio Cerruti, pone e si pone il problema della sicurezza reale e delle conseguenze di un immenso focolaio potenziale quale quello di Sanremo per l’intera durata del festival; da cui la richiesta formale di un protocollo ai suddetti ministro e CTS con le linee guida per la messa in sicurezza: domanda inutile e non certo perché le preoccupazioni delle associazioni di categoria non siano fondate, tutt’altro; ma proprio perché rivolte a certi interlocutori, il che scopre un duplice pericolo: o di mancata risposta, che sarebbe il meno, o di un effettivo protocollo, il che sarebbe una tragedia, visti i precedenti. Possono protocollare quello che vogliono, ma i giornalisti, su al roof, come li metti? Tutti in mascherina? Anche il pubblico in sala, anche cantanti, ospiti e conduttori? E davvero risuona con la voce dell’impotenza l’allarme del prefetto di Sanremo, Intini: “I DPCM si rispettano, nessun assembramento sarà tollerato!”. Davvero? E che fai, riduci la cittadella a un immenso festoso campo di concentramento? Tanto vale lasciar perdere, allora. Ma alla fine una soluzione si troverà. All’italiana, poco seria, la classica verginella incinta ma appena appena, ciò che non è permesso sarà vietatino, ciò che è preferenziale sarà di chi lo preferisce, ma si troverà.
Ma, se non altro, i discografici si sono mossi. Magari solo per decenza, magari di facciata, ma hanno detto quel che va detto: tutti gli altri tacciono e taceranno, a cominciare proprio dai cantanti militanti contro il Covid, più per convenzione che per convinzione, come si conferma. Tutti concentrati nel giulebbe per una liturgia festivaliera che non si ferma mai, che è più forte di tutto. Di un salutare slittamento a settembre, di una rassegnata sospensione di un anno, della pandemia, della sicurezza, della prudenza, della politica, della verità. E della serietà, e, lo vedremo, della legge.