Fandango, il cult generazionale con Kevin Costner è un road movie tra goliardia ed elegia

Su Iris alle 17.20 il film d’esordio di Kevin Reynolds, prodotto da Spielberg nel 1985. All’uscita non ebbe successo, oggi è un piccolo classico, col suo tono nostalgico, e il divertito, romantico elogio della giovinezza

Fandango

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Leggenda vuole che di Fandango, diretto da Kevin Reynolds, Quentin Tarantino avrebbe detto che “è stato uno dei più importanti esordi alla regia della storia del cinema”. Se ha fatto davvero questa affermazione, si tratta di una delle sue tipiche esagerazioni. Ma, ne abbiamo avuto prova dai suoi film in cui è capace di conquistare lo spettatore ricreando di sana pianta i fatti storici, questo è il suo modo di rimodellare in maniera immaginifica le cose, acconciandone una versione che alla fine non è solo più esagerata ed entusiasmante, ma persino più convincente della realtà.

E allora sì, Fandango è un grande debutto. Certo, non sembrò esattamente così nel 1985, quando il film uscì alla chetichella nelle sale americane in un weekend di gennaio raggranellando la bellezza di 50mila dollari. Alla fine, dopo una distribuzione breve e quasi clandestina, il botteghino segnerà 90mila dollari.  Però qualcosa c’era, e cominciò ad accorgersene qualche mese dopo il pubblico della 42esima Mostra del Cinema di Venezia, nella quale il film passò nella sezione della Settimana della Critica, in un’edizione in cui trovò spazio anche il western Silverado di Lawrence Kasdan. Il quale, come Fandango, vedeva quale protagonista un semisconosciuto giovanotto di belle speranze, Kevin Costner. Il quale, sebbene la recensione del New York Times minimizzasse il suo talento dicendo che il personaggio da lui “interpretato in modo audace, suggerisce come potrebbe essere il Tom Cruise di Risky Business dopo una sbornia di sei mesi”, di lì a poco sarebbe diventato il divo forse più importante a cavallo tra anni Ottanta e Novanta (e stilisticamente lontanissimo da Tom Cruise).

Fandango
  • vari (Actor)
  • vari (Director)

Fandango, dopo l’infelice partenza in sala, ha progressivamente acquisito la statura del piccolo classico. Ci vide quindi giusto, come sempre, Steven Spielberg, che il film lo produsse con la sua arrembante Amblin, che in quello stesso anno aveva sfornato anche Ritorno al Futuro di Robert Zemeckis. Due film che, in forme diverse, ripercorrevano la storia americana recente – i suoi miti, il suo immaginario più che la realtà – attraverso la lente, sempre più rilevante da allora in poi, della nostalgia. Il film con Michael J. Fox ricreando in un cortocircuito temporale fantasy i favolosi anni Cinquanta, Fandango guardando a un’epoca meno scintillante e più contraddittoria, il 1971, ricreato attraverso il ripescaggio di un genere importante ma un po’ dimenticato, il road movie, che proprio negli anni in cui era ambientata la vicenda era stato decisivo per raccontare le trasformazioni del paese, e anche dell’industria del cinema che avrebbe dato vita alla New Hollywood (con film di strada epocali e generazioni come Easy Rider e Punto Zero).

Fandango segnò appunto l’esordio alla regia di Kevin Reynolds: a Spielberg era piaciuto Proof, il mediometraggio che il giovane studente della USC aveva realizzato per la sua tesi, che raccontava con un ritmo visivo scattante una storiella goliardica nella quale, istigato dai suoi scapestrati amici, un nerd accetta per scommessa e per orgoglio di lanciarsi col paracadute. Quell’embrionale episodio, ripetuto quasi inquadratura per inquadratura, sarebbe diventato uno dei brani più irresistibili di Fandango, intorno al quale Reynolds, autore anche della sceneggiatura, avrebbe imbastito una vicenda più corposa e dalla tastiera emotiva molto più ricca (di Proof mantenne anche uno degli attori, Marvin J. McIntyre, che ripeté il suo strambo personaggio del pilota d’aereo fumatissimo).

I protagonisti sono i Groovers, un piccolo gruppo di studenti universitari texani giunti alla laurea e prossimi perciò a cambiare radicalmente vita. Due di loro, il leader carismatico Gardner Barnes (Costner) e Kenneth (Sam Robards, il figlio di Jason e Lauren Bacall) sono anche stati chiamati alle armi, il che all’altezza del 1971 significa Vietnam. Per quello, ma anche per la paura di fare il salto della linea d’ombra, Kenneth ha pure deciso di annullare alla vigilia le nozze con la promessa sposa Debby (Suzy Amis, l’attrice che poi avrebbe davvero sposato finite le riprese). La quale però è anche la ex di Gardner, che dietro le pose da cinico sciupafemmine ribelle è chiaramente ancora innamorato di lei.

Affacciati su un futuro incerto, inquieti per la fine irreparabile della giovinezza, impauriti dall’imminente arruolamento, i Groovers decidono di compiere un ultimo simbolico viaggio tutti insieme per disseppellire Dom, un cimelio seppellito tra i canyon a suggello della loro inscalfibile amicizia. Fandango non è un capolavoro, ma ha la forza degli autentici cult generazionali, per la capacità di sommare con leggerezza e malinconia gli ingredienti tipici del film di formazione, in cui il dinamismo del road movie si unisce al gusto dell’avventura e a un tono insieme picaresco e paradossale. Kevin Reynolds firma un racconto di mitologie tutte al maschile – il personaggio di Debby è una pura funzione narrativa, non parla praticamente mai –, col pregio d’una spensieratezza tanto sconsiderata quanto accattivante nei toni.

Proof, l’embrione a partire dal quale Kevin Reynolds creò Fandango

Il film sbozza personaggi e vignette indovinati: non solo Gardner e Kenneth, perché a fare da controcanto alle loro sregolatezze c’è il petulante e precisino Phil (Judd Nelson, nel suo anno d’oro, in cui interpretò anche Breakfast Club), e poi il corpulento e serafico Dorman (Chuck Bush: la sua fisicità esagerata, a pensarci, fa capire quanto il cinema americano si sentisse orfano di John Belushi, morto nel 1982), che legge Il Lupo della Steppa e i fumetti dell’incredibile Hulk; infine Lester (Brian Cesak), una nota bizzarra e demenziale, il laureato magna cum laude che attraversa l’intero film in stato catatonico, nell’incoscienza di un’interminabile sbronza.

L’elogio dell’innocenza perduta, il dinamismo di un’avventura che alza sempre la posta – dal tentativo di ancorare l’automobile in panne a un treno in corsa al lancio col paracadute –, la pervicace mancanza di obiettivi in una corsa a perdifiato e alla deriva (“Non c’è niente di sbagliato nell’andare in giro senza meta, amico. È un privilegio della giovinezza”, filosofeggia Gardner). Sono gli ingredienti ingenui e struggenti da perfetto road movie, cui si aggiungono una colonna sonora ruffiana il giusto – Elton John, Carole King, Steppenwolf, Cream –, un pizzico di cinefilia postmoderna – il pellegrinaggio alle rovine delle scenografie de Il Gigante, direttamente dagli anni Cinquanta della leggenda James Dean – e il romanticismo adolescenziale della parte finale con la cerimonia a ritmo di fandango.

È un mix eterogeneo di fattori con cui Fandango colpisce al cuore lo spettatore soprattutto maschile, col suo sapore tra goliardia ed elegia, che suona insieme autentico e palesemente recitato. Un po’ come la giovinezza, età di pose artefatte che si assumono con la massima serietà e credendoci fino in fondo.