Una Storia Vera, il tempo, lo spazio e il cinema di David Lynch

Uno dei film più singolari del grande regista, un racconto apparentemente lineare, senza onirismi e sperimentazioni visuali. Invece è un'opera radicale, coerente con la sua filmografia

Una Storia Vera

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Una Storia Vera, uscito nel 1999, è una tappa singolare della filmografia di David Lynch: l’acclamato autore di Eraserhead, Mulholland Drive e Twin Peaks (opera-mondo che abbatte i confini tra cinema e tv), unanimemente riconosciuto per la sua capacità di affondare in universi onirici che spezzano la linearità del racconto e della realtà e che aprono squarci su dimensioni ambigue che appartengono contemporaneamente a questo mondo e a un altro allusivo, inconscio e irrazionale, questo autore, per una volta, sceglie un racconto incredibilmente lineare, senza sussulti, enigmi, apparentemente privo di quel “mistero” che costituisce la cifra del suo cinema.

Il titolo del film, in originale, chiarisce ancora meglio lasorprendente presa di posizione: The Straight Story, cioè appunto una storia “diritta”, “coerente”, “sincera”, persino “convenzionale”. Allo stesso tempo, in maniera letterale, il titolo indica che questa è la storia, ambientata nel 1994, di Alvin Straight (Richard Farnsworth, che ottenne una nomination all’Oscar), un agricoltore di 73 anni con problemi di deambulazione e vista il quale, venuto a sapere dell’infarto che ha colpito il fratello Lyle (Harry Dean Stanton), decide di andarlo a trovare, sebbene dopo aver litigato con lui non gli parli da dieci anni. Non potendo guidare l’automobile, per il viaggio di circa 400 chilometri dall’Iowa al Wisconsin sceglie un mezzo di locomozione quanto meno bizzarro, una vecchia motofalciatrice cui collega un pesante rimorchio con l’essenziale per la trasferta. La velocità di crociera è di pochissimi chilometri all’ora. Il che trasforma un semplice trasferimento in un’epica traversata in più settimane.

Una Storia Vera "Il Collezionista" (Combo) (Br+Dv)
  • Farnsworth, Spacek, Galloway Heitz (Actor)

Gli amici della sonnacchiosa Laurens, l’immobile cittadina di provincia in cui vive, lo guardano esterrefatti. La figlia (Sissy Spacek), che soffre di un lieve disturbo cognitivo legato a un forte trauma personale, cerca di dissuaderlo. Alvin però ha deciso, e non lo ferma neanche il guasto della motofalciatrice dopo pochi chilometri, che lui sostituisce con una vecchia John Deere del 1966 vendutagli da un amico, con la quale, finalmente, intraprende il viaggio. Lungo il quale farà diversi incontri casuali, una ragazza incinta scappata di casa, una automobilista che ha investito un cervo, un meccanico che gli ripara la cinghia di trasmissione, un prete in una sosta notturna accanto a un cimitero.

Non accade nient’altro in Una Storia Vera, ispirato a fatti reali e scritto da John Roach e dalla montatrice Mary Sweeney (anche brevemente moglie di Lynch). Non ci sono incidenti, sottotrame, squarci onirici, solo la vicenda personale con accenti a tratti commoventi di un americano qualunque di una provincia qualunque – quando Alvin ricorda la Seconda Guerra Mondiale cui ha partecipato come soldato, l’incontro pudico col fratello. Però è come se tutto il cinema passato di Lynch – e, retrospettivamente, quello successivo – premesse sui bordi di questa vicenda a prima vista banale, spingendoci a leggerla come un racconto non così ordinario, alla ricerca di deviazioni, allusioni, sussulti che scompaginino l’apparente calma superficiale sotto cui ritrovare le inquietudini proprie del cinema di Lynch.

È una traccia che suggerisce lo stesso regista, quando dice che “il film è molto semplice e lineare, e questo aspetto ha sicuramente contribuito a rendere difficile la realizzazione, poiché vi sono pochi elementi con cui giocare. Per me si è trattato di un film sperimentale, che mi obbligava a giocare costantemente di finezza”. Una Storia Vera per sua ammissione è un’opera sperimentale, che nel condurlo lungo sentieri per lui non usuali lo costringe a scavare dentro il suo stile, rimettendolo alla prova per trovare le ragioni del suo cinema in una forma per lui inedita, distesa e immota. Pure troppo immota: perché non c’è nulla di consueto e lineare in un racconto che si srotola al passo ridottissimo di una motofalciatrice che ansima al ritmo di pochissimi chilometri all’ora.

Se pensiamo alla sequenza d’apertura del precedente Strade Perdute, un’automobile che sfreccia in soggettiva a folle velocità, salta immediata agli occhi la differenza. Ed è in questa differenza, in questo stacco così evidente dal cinema di Lynch come lo conosciamo, che alberga l’originalità di un film attonito e bellissimo che lavora su pochissimi elementi, un uomo di fronte al tempo e lo spazio, e quasi null’altro.

Nella lentezza pacata di ogni sequenza, Una Storia Vera spinge il pubblico a confrontarsi con gli elementi essenziali dell’arte cinematografica, che insistono sulla durata delle inquadrature e su ciò, luoghi e persone, che esse mostrano. E finalmente, questo il miracolo del film, ci viene concesso il tempo per farlo. Anche se forse tutto questo tempo non c’è: perché Alvin è anziano e pieno di acciacchi, e perché, col passare dei giorni, corre ipoteticamente il rischio di non ritrovare vivo il fratello infartuato. Però questo è un tempo che bisogna prendersi, per consentirsi di riattraversare la propria vita, la propria storia personale e anche i paesaggi sconfinati dell’America interna che costituiscono l’autentica anima del paese.

Vissuto così, Una Storia Vera diventa un’esperienza cinematografica visionaria e impagabile, un’opera assolutamente lynchiana. La quale non ha bisogno, come poteva essere in Velluto Blu, di mostrare in maniera esplicita la dimensione straniante che si cela dietro la vernice rassicurante della superficie delle cose per farci capire quanto complessa, sfuggente, inquietante sia la realtà.

Una Storia Vera compie la stessa operazione con materiali dimessi e quotidiani, senza immagini virtuosistiche e senza involute fratture narrative. Lo fa soltanto costringendoci a rallentare per guardare intensamente cose e persone. Così certe inquadrature insistite, le stelle che tornano all’inizio e alla fine, i campi coltivati ripresi dall’alto, ribaltano una visione apparentemente ordinaria, quasi naturalistica nella sua registrazione della realtà, nel suo esatto opposto, in un’esperienza che tende palesemente all’astrazione, la quale condivide con gli altri film di Lynch la stessa attitudine radicale e visionaria.

Le inquadrature degli spazi sterminati che Alvin attraversa non posseggono l’immediata evidenza poetica propria di un regista che, liricamente, vuole sottolineare la bellezza del creato. C’è un’attitudine distaccata nelle inquadrature di Lynch, che riportano lo sguardo a quello impersonale della macchina da presa che registra oggettivamente la realtà. I luoghi sono mostrati per quello che sono. E però in quella visione lungamente meditata cui lo spettatore è istigato dalla lentezza della motofalciatrice che detta la cadenza espressiva del film, la realtà mostra, senza bisogno di ricorrere a espedienti vistosi, tutta la sua complessità, insieme consueta e surreale, concreta e incorporea, riconoscibile ed estranea. Lo sguardo stupefatto di David Lynch, tanto disorientato quanto ammirato, trova in Una Storia Vera un nuovo modo di manifestarsi. E così ci aiuta a capire che lo straordinario, l’inatteso, l’incomprensibile, anche il pericoloso, non si celano dietro uno specchio da attraversare, ma sono esattamente qui, davanti a noi. Il mistero più fitto, che incanta e sbigottisce, è la realtà stessa. Basta avere occhi e tempo per guardarla.