Una Canzone d’Amore Buttata Via è il nuovo singolo di Vasco, scritta per essere cantata in uno stadio

Sono di parte lo ammetto, ma il nuovo brano di Vasco rientra alla perfezione in quell’idea di Rinascimento, oltre che di rinascita, cui facevo riferimento proprio negli scorsi giorni


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Stanotte ho sognato che mi fermavo a chiacchierare amabilmente con Daria Bignardi.

La cosa mi ha sorpresa.

Io non sogno mai.

O almeno non me ne ricordo.

Lo so. So bene che chiunque abbia anche una vaga infarinatura di psicologia mi direbbe che tutti sogniamo. Parlerebbe di rimozione, di subconscio e inconscio, proverebbe addirittura a azzardare lati oscuri del mio passato che provano a emergere. Ora, a prescindere che sarei davvero curioso di sapere che lati oscuri del mio passato potrebbero mai prendere nel mondo ipotetico dei miei sogni la faccia di Daria Bignardi, ci terrei benevolamente, benevolamente nei confronti di chi si fosse appena trovato a alzare il ditino per muovere quelle mozioni che se le ho appena elencate, seppur a volo d’angelo, non è casuale, e quel mio porre prima la frasetta “io non sogno mai” alla frasetta “o almeno non me ne ricordo” era un modo, magari anche subdolo, per esprimere un mio certo scetticismo a riguardo. Anche perché, volendo dar per buone le istanze di chi ha una vaga o non vaga infarinatura di psicologia, in effetti io stesso saprei bene che tipo di lettura dare al fatto che in sogno mi sia apparsa Daria Bignardi, figura divenuta negli anni familiari, almeno a quanti guardano una certa televisione che si autoproclama alta, anche un filo snob, con incursioni nel pop, certo, ma fatte sempre con quell’aria da “signora mia” che se non si è Alberto Arbasino, ci terrei a dire che trovo aberrante che nel fare il computo di chi ci ha lasciato nel 2020, per o senza Covid, nessuno ma proprio nessuno abbia citato lui, Alberto Arbasino, uno dei nostri più grandi intellettuali del Novecento, Novecento nel quale io, che Arbasino non sono, ho esordito come narratore e che proprio in quel mio esordire come narratore ho conosciuto Daria Bignardi, all’epoca giovane presentatrice di un programma sui libri, A tutto volume e in quel di Reggio Emilia, lì ho fatto il mio esordio da narratore, all’evento Ricercare 1997, laboratorio di scrittura pensato da Nanni Balestrini del medesimo Gruppo 63 nel quale aveva mosso i suoi passi l’Alberto Arbasino di cui sopra, quindi io scrittore e lei parte degli addetti ai lavori, prima di diventare, lei, una presentatrice più in voga per aver messo la faccia nella prima edizione del Grande Fratello, è sempre bene ricordarselo mentre lei sta lì in tv a fare le sue interviste da “signora mia”, lei ha presentato il primo Grande Fratello, lei, non noi, e poi finire per fare la snob da “signora mia” nei programmi di nicchia, da Le invasioni barbariche in qua, fino a oggi che conduce la medesima formula col titolo L’Assedio, lei nel mentre diventata narratrice di un certo successo commerciale, può capitare se si è nel mentre diventati personaggi televisivi, del resto è narratore anche Walter Veltroni, io diventato quello che la incontra nei sogni di notte, autore di libri di un certo successo commerciale, sono quello che ha firmato tre libri con Vasco Rossi, per dire, uno dei pochi autori italiani a aver pubblicato ottanta libri, a aver venduto oltre un milione e duecentomila copie, uno scrittore, quindi, anche io, ma assolutamente non riconducibile a quel mondo lì, quello degli scrittori, visto che per chi pubblica romanzi si è scrittori solo se si pubblica romanzi, ci pubblica romanzi è per chi pubblica romanzi colui che resterà nel tempo come voce autorevole nel campo della narrativa, io no, e questo mio dirlo così, il lamentare da una parte una sorta di esclusione dal novero degli scrittori, ma al tempo stesso il dirlo con quelle precise parole, come se fosse più una questione di casta che di meriti, potrebbe essere appunto il motivo del suo comparire dentro un mio sogno, il mio subconscio che si accartoccia per quel mio non essere riuscito a fare quel che in fondo mi aveva spinto verso la scrittura, sorte invece capitata a lei, Daria Bignardi, stando al mio subconscio più per una faccenda di visibilità che per una mera faccenda di talento.

Mi fermo.

Non sono uno che usa le parole a caso.

Potrebbe non sembrare, lo so, ma è così.

Se ho fatto questo giro panoramico nel mio intimo, più o meno subconscio che sia, non è per farmi autoanalisi in pubblica piazza, sia chiaro. Volevo più che altro rendervi partecipi di quelli che potrebbero risultare miei nervi scoperti, esporre ferite che, credo, nel mio caso specifico sono più che altro cicatrici. Ma detto questo, e aver parlato di ferite e cicatrici avrebbe già dovuto svelarvi come la vedo a riguardo, credo di non avere rimpianti, credo, cioè, di trovarmi nel posto nel quale avrei voluto trovarmi, senza recriminazioni o gridi di dolore da fare, da sveglio o nel sonno.

Magari potrei dire che essere riconosciuto per quel che sono nel mondo delle lettere mi farebbe piacere, e sarei ipocrita a dire il contrario, ma già essere in grado di vivere di quello che faccio, visto il mio punto di partenza, mi sembra un ottimo risultato, e essere riconosciuto per quello che faccio nel mondo della musica, sono quello che ha scritto tre libri con Vasco Rossi, tra le altre cose, è un surplus mica da ridere, per non dire di quanto io rivendichi il mio poter fare letteratura anche parlando d’altro, come in questo preciso momento.

Quindi no, non credo che l’apparire di Daria Bignardi e il mio parlare con lei nel sogno sia riconducibile a un mio malessere o malumore riguardo il fatto di non essere più parte del mondo delle lettere, quanto piuttosto al fatto che questi giorni anomali di vacanze, vacanze passate per la loro interezza in casa, come per tutti, o come per tutti quelli che hanno deciso di rispettare le regole, questi giorni anomali mi hanno visto non rispettare fedelmente la dieta che seguo ormai da due anni, con conseguenti difficoltà digestive.

Comunque, preso atto che a stupirmi è più di aver sognato che di aver sognato Daria Bignardi che si fermava a parlare con me, e che se in effetti incontrassi Daria Bignardi mi ci fermerei comunque a parlare, perché siamo entrambe persone educate e nonostante non si sia più parte dello stesso ambiente immagino che avremmo argomenti di cui parlare, non fosse altro che ricordare un passato passato, parliamo di oltre venti anni fa, nel quale lei era una giovane agitatrice culturale dentro la tv commerciale e io un giovane narratore sperimentale con una chitarra elettrica che ancora vibrava, è su quello che io e Daria Bignardi ci siamo detti nel mio sogno che volevo concentrarmi.

Faccio un’altra piccola deviazione, resto pur sempre quel giovane scrittore sperimentale che ha conosciuto Daria Bignardi al laboratorio di scritture Ricercare 1997, io a leggere il mio racconto nannibalestriniano Un posto meno spaventoso, poi diventato primo racconto della mia prima opera, “furibonde giornate senza atti d’amore”, un racconto senza punti, in rima, lei tra il pubblico, pubblico che vedeva la presenza di critici insigni, da Angelo Guglielmi a Renato Barilli, passando Romano Luperini, Andrea Cortellessa e per il mai abbastanza compianto Tommaso Labranca, con anche tutta una genia di poeti fondamentali, penso a Edoardo Sanguineti e Lello Voce, più editori vari, dalle rockstar del momento, Severino Cesari e Paolo Repetti, la antologia Gioventù cannibale era dell’anno precedente, e proprio intorno al gruppo di lavoro di Ricercare affondava le radici, per la prima volta si parlava in maniera alta di giovani scrittori, alti e pop allo stesso tempo, questo anche in virtù dell’intuizione geniale del Pier Vittorio Tondelli delle antologie Under 25 pubblicate da Massimo Canalini, editore della mia compaesana Transeuropa, a sua volta parte del direttivo di Ricercare, erano anni voraci, quelli, convulsi, pieni di stimoli. Con me, in quella edizione, la vera rockstar delle rockstar tra i giovani scrittori, quell’Enrico Brizzi che aveva portato un romanzo scritto da un adolescente in vetta alle classifiche di vendita, sempre con Canalini e Transeuropa, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, in quell’anno fuori col romanzo “cannibale” Bastogne, ma c’erano anche Isabella Santacroce, per dire, o Simona Vinci, vado a memoria, non è fondamentale per il discorso che sto facendo. Era solo per sottolineare come, in quell’occasione, fossi ancora uno scrittore e basta, uno che poteva leggere un suo racconto con Nanni Balestrini al suo fianco, come mentore, un racconto poi commentato pubblicamente da un Renato Barilli e un Angelo Guglielmi, lei, Daria Bignardi, quella che parlava di libri su Italia 1.

Nel sogno di ieri notte, per altro, lei, Daria Bignardi, era molto dolce, e qui vi sarà chiaro di come eludere una dieta ferrea che si porta avanti da due anni, persa una decina di chili, con picchi di dodici, il tutto nonostante da un anno alla dieta in non possa associare il movimento fisico causa clausura forzata, spero avrete almeno apprezzato io non abbia accampato tra i motivi anche la chiusura forzata delle palestre, non metterei piede in palestra neanche se mi pagassero a peso d’oro, ho detto di no a Maria De Fillippi, non a tutto c’è un prezzo, si sappia, Daria Bignardi nel mio sogno era molto dolce, dicevo, fatto che avrà certificato con rigore scientifico come mangiare troppo può dar vita a allucinazioni, credo che anche lei converrebbe con me che non è certo la dolcezza la sua peculiarità più evidente, anzi, credo che se ne risentirebbe pure, tanto sta facendo negli anni per apparire distaccata, affettata, snob, appunto.

Siamo dentro il mio sogno, quindi. In una sala da the. Saprei anche dirvi con precisione quale sala da the, dalle parti di Regent Street, a Londra, ma finirei per diventare io quello snob, quello che cita sale da the lontane, e fortuna che non ho sottolineato come, l’ultima volta che ci sono stato io vi abbia incontrato Keanu Reeves, se no finirei per passare anche per appartenente a una cerchia alla quale, ne ho parlato a sufficienza sopra, direi, evidentemente non appartengo. Sono seduto lì, a un tavolino imbottito con una corolla di poltroncine che vi girano intorno, affacciato a una finestra tipo Vecchia Milano, fatemi sembrare provinciale, che devo recuperare il mio essere un drop-out, direttamente sul passeggio, quando lei mi vede, mi sorride e entra.

Non abbiamo le mascherine, questo è un dettaglio a cui penso solo ora.

Mi diceva tempo fa la mamma di una compagna di classe di mia figlia Chiara, e questo è passaggio che poi capirete essere fondamentale di questo mio racconto, che sua figlia di pochi mesi si è abituata sin da subito a riconoscere smorfie e sorrisi degli adulti, quelle smorfie e sorrisi idioti e infantili che solitamente facciamo quando abbiamo di fronte un neonato, sempre che noi non si sia degli orchi insensibili, smorfie e sorrisi che spesso accompagniamo con vocine imbarazzanti, versi che nel nostro immaginario dovrebbero essere più comprensibili per quegli esserini che invece nulla possono capire, a livello di parole, se non quelle che magari ripetiamo quotidianamente, mi diceva la mamma di una compagna di classe di mia figlia Chiara, quindi, che sua figlia di pochi mesi ha imparato a riconoscere smorfie e sorrisini sotto le mascherine, perché è nata durante il primo lock down e così si è abituata a riconoscere le persone, con la mascherina. Noi non siamo nati con la mascherina, e per quanto ci ripetiamo ossessivamente che ormai siamo abituati a vivere in cattività, i trascorsi dell’ultima estate ci dicono esattamente il contrario, non siamo altrettanto agili a rendere familiari situazioni che familiari non sono, per cui avessimo avuto la mascherina, anche se dubito che io avrei potuto avere la mascherina mentre sorseggiavo un the dentro una sala da the, difficilmente ci saremmo sorrisi e riconosciuti. Lasciamo da parte la faccenda della Brexit, e quanto l’andare a Londra mi stia mancando, a Londra, nella mia carriera da che ho smesso di essere lo scrittore sperimentale che leggeva il racconto Un posto meno spaventoso sul palco del ridotto del teatro Regio di Reggio Emilia, Nanni Balestrini al mio fianco, Daria Bignardi tra il pubblico, a Londra ho dedicato ben tre libri, qualcosa vorrà pur dire.

Comunque sono lì a sorseggiare the, e a me il the non è che piaccia molto, neanche quello che servono nell’esclusiva sala da the di Regent Street di cui sopra, quando incrocio lo sguardo con Daria Bignardi, che decide di entrare a salutarmi. Lei è molto dolce. Parliamo del più o del meno, il mio subconscio non registra di cosa. Non me lo ricordo, magari sono dettagli talmente insignificanti che non abbiamo proprio detto niente, come in certe scene di film corali nei quali si vedono tante persone inquadrate che parlano, magari proprio in una sala da the, ma la camera è fissa sui due protagonisti e solo quello che si dicono loro sentiamo. Gli altri, i figuranti, molto probabilmente fingono di parlare, o dicono sciocchezze, tanto nessuno li starà a sentire. Chiaro, nel mio caso, nel caso del mio sogno, siamo noi i protagonisti, ma non so cosa ci diciamo. Lo diciamo senza che ciò si impigli nella rete a maglie larghissime della mia memoria.

È una conversazione piacevole, questo lo so, me lo ricordo, e lei è materna, simpatica, dolce. A un certo punto, questo il punto centrale del mio racconto, del sogno, lei mi chiede, “Ma stai ancora con Marina? Avete avuto dei figli? Quanti?”

Mi fermo.

Escludo a priori che Daria Bignardi si ricordi il nome di Marina. Non giurerei neanche che si ricordi il mio, se non per il fatto che nel mentre ho scritto tanto in altri campi che in qualche modo le sono diventati familiari, una volta sono anche stato invitato a uno di quei momenti corali de Le invasioni barbariche, quelli nei quali si affrontava un determinato argomento in quattro, figure evidentemente minori rispetto a coloro che sedevano solitari dall’altra parte della sua scrivania, vis a vis. Ho rifiutato l’invito, ovviamente, perché sono fondamentalmente più snob di lei. Non perché ambissi a fare una singola, intendiamoci, ma proprio perché andare in tv non è mai stata una di quelle cosa che mi interessa, ci vado, ogni tanto, ma a fatica. Si parlava di editoria e al mio posto ci è andato Massimiliano Parente, uno che poi nel tempo ha smesso a sua volta di andarci, ma questo col mio sogno non c’entra. Daria Bignardi immagino si ricordi di me.

Sicuramente non si ricorda di Marina, seppur a Reggio Emilia stavamo nello stesso albergo, e abbiamo più volte fatto colazione assieme, fatto quello che tecnicamente si dice “fraternizzare”.

Se le capita di leggere quello che scrivo, e immagino che le sia capitato, nel tempo, probabilmente sa il mio nome esattamente come lo sapete voi, parlo spesso se non sempre della mia famiglia, e mia moglie Marina è uno dei personaggi di cui mi capita di parlare più spesso, insieme ai miei figli. Ecco, no, escludo proprio che la Daria Bignardi del mio sogno mi abbia mai letto, quella reale come dicevo non so, perché altrimenti non mi avrebbe fatto quella domanda. Se mi ero sposato e se avevo figli. Quindi lì, nel mio sogno, Daria Bignardi mi ha chiesto di Marina così, per quelle strane bizzarrie che succedono nei sogni.

A quelle domande, però, io non ho risposto rimproverandola per non avermi letto, a questo fatto che se mi avesse letto saprebbe della mia vita privata ho pensato solo ora, e comunque non è che Daria Bignardi sia tenuta, come chiunque, a leggere quello che scrivo, non ci ho proprio pensato, mi è venuto in mente ora questa associazione. Al momento non ho fatto un plissé, non avevo alternative. Anzi, a memoria ho apprezzato il fatto che mi chiedesse della mia vita privata, cosa che in realtà credo violasse qualsiasi tipo di protocollo di bon ton. Mai chiedere a qualcuno se si è sposato con la fidanzata che si è conosciuta oltre venti anni prima, mai chiedergli se hanno figli.

Nei fatti io mi sono sposato con Marina, due anni dopo Ricercare 1997, e siamo appunto ancora sposati. E abbiamo anche quattro figli, Lucia, Tommaso e i gemelli Francesco e Chiara, colei che va in classe con la bambina la cui sorellina riconosce sorrisi e smorfie da sotto la mascherina.

“Sì, io e Marina poi ci siamo sposati,” le ho detto, parola più, parola meno, “abbiamo due figli”.

Ora. I sogni, direbbero sempre coloro con la vaga o non vaga infarinatura di psicologia, sono materia anomala, di difficile interpretazione. Succedono cose che non seguono sicuramente la realtà, o quantomeno la realtà per come da svegli siamo in grado di decifrarla, e soprattutto tendono a spostarci nel tempo, facendoci rivivere momenti particolari del nostro passato, magari donando a quei momenti finali diversi da quelli realmente successi. Dico questo perché, magari, quel nostro incontro poteva essere successo dieci anni fa, quando cioè di figli, in realtà, io e Marina ne avevamo ancora due, né io né Marina avremmo mai pensato all’ipotesi gemelli, vi ho già raccontato come è andata la questione. Uno non può dimenticarsi così, chiacchierando, di avere altri due figli. Questo potrebbe aprire interpretazioni altre, tipo: perché nel sogno sei tornato a quel particolare periodo nel quale ancora non avevi avuto i gemelli? Cosa è successo? E soprattutto, dal momento che anche a una lettura amatoriale del sogno è evidente che Daria Bignardi rappresenta la versione pop, e io ora mi occupo molto di pop, di quel che sarebbe potuto essere il mio mondo non avessi cominciato a occuparmi di musica, cioè il mondo della letteratura, cosa è successo prima dell’avvento dei gemelli nelle nostre vite che abbia a che fare con quel mondo lì?

Premesso che i miei ultimi romanzi, ultimi credo definitivamente, sono usciti un anno prima e un anno dopo la loro nascita, rispettivamente Milanabad, 2010, e Una notte lunga abbastanza, 2012,  quindi magari ci potrebbero essere anche appigli per questo tipo di interpretazione, la frase che nel mio sogno è arrivata subito dopo quel “abbiamo due figli” fa crollare qualsiasi ipotesi del genere. Perché lì, seduto intorno al tavolo imbottito della sala da the affacciata su Regent Street, guardando Daria Bignardi che mi sorride dolcemente come una Madonna rinascimentale, stasera magio leggero, giuro, ho aggiunto, un po’ imbarazzato: “No, scusa, ho quattro figli. Quattro, non due”.

Mi sono svegliato.

Non ho ripreso sonno.

A un certo punto mi sono alzato.

Ho fatto colazione.

Mi sono fatto la doccia.

Ho medicato il dito sgarrato e ora, mentre sto seguendo Francesco che fa i compiti, qui al mio fianco, e lo dico meschinamente per provare a recuperare qualche punto ai vostri occhi, non sono un mostro, immaginatemi che lo dico con la voce sghemba dell’Elephant Man di David Lynch, ho scritto queste parole.

Perché?, si chiederà qualcuno, perché uno deve mettersi così alla berlina?, o perché deve ammorbarci con le sue dissertazioni su quel che era e non è più, o su quello che sarebbe potuto essere e non è mai stato?

Volendo lasciare da parte il dettaglio non irrilevante che parlare di ciò che si era e non si è più, o di ciò che si sarebbe voluto essere e non si è riusciti a essere, sempre che io abbia rimpianti a riguardo, e vi giuro che non ne ho, è uno degli argomenti più trattati nelle canzoni, che lo si declini sul fronte sentimental-amoroso, o più genericamente esistenzialista, volendo anche lasciar da parte quel dettaglio che ho più volte lasciato lì, tra le righe, il fatto, cioè, che io alla fin fine resto un artista anche se invece che scrivere romanzi scrivo quel che scrivo, motivo per il quale non ho appunto rimpianti, certo non sono riconosciuto come scrittore dagli scrittori, ma lo sono dai cantanti, ho firmato tre libri con Vasco Rossi, per dire, fatto che per certi versi mi agevola ulteriormente, Ibrahimovic è Ibrahimovic perché unisce tecnica calcistica alle arti marziali, anomali che diventa peculiarità, sì, mi sono appena paragonato a Ibrahimovic, avete inteso bene, volendo passare quindi oltre tutto questo, mi vien da dire che non ho una risposta intelligente a queste domande, e che averle messe qui, nero su bianco, altro non è che una dimostrazione di onestà intellettuale, perché avrei semplicemente potuto dire quel che sto per dire, andando quindi finalmente a scrivere un capitolo di questo mio diario del lock down che non superi le ventimila battute, è appena successo, fatevene una ragione, ma un diario è un diario, prendere o lasciare.

Non so perché io abbia risposto in sogno alla Bignardi di avere solo due figli, ma so che il primo gennaio è uscita la nuova canzone di Vasco Rossi, quello col quale ho scritto tre libri, non so se lo sapevate, e questa cosa mi sembra di ottimo auspicio per l’anno che è appena iniziato. Proprio per questo aver collaborato con lui, sono anche autore del film di Pepsy Romanoff che porta il titolo Vasco Non Stop Live 018-019, che proprio poco più di un anno fa passava su Canale 5 dopo essere andato per ben due volte al cinema, ho deciso che avrei evitato di scrivere articoli su di lui e la sua musica. Non che io sia noto per il distacco che metto in quel che scrivo, ma recensire le opere di qualcuno con cui si è collaborato nel passato prossimo mi sembra poco serio.

Questa però non è una recensione, è un capitolo del mio diario, e Una Canzone d’Amore Buttata Via, questo il titolo del brano che anticipa il nuovo lavoro del nostro, previsto per il prossimo autunno, è un brano che in qualche modo rientra alla perfezione in quell’idea di Rinascimento, oltre che di rinascita, cui facevo riferimento proprio negli scorsi giorni.

Ballad tipicamente vaschiana, scritta da Vasco con Saverio Grandi e Saverio Principini, nella quale il nostro espone con quella lingua semplice che nel tempo è andata a costruire, fatta di poche parole, quelle giuste, essenziali, la sua volontà di essere al fianco della sua donna nonostante errori e scuse, e soprattutto nonostante la presa di coscienza, molto attuale, di non essere in grado di difenderla e proteggerla, Una Canzone d’Amore Buttata Via presenta una struttura molto classica, ottimi gli arrangiamenti di Celso Valli, con archi che intessono un crescendo perfetto, la canzone parte spoglia e finisce  quasi orchestrale, un coro femminile a fare da contrappunto alla voce unica di Vasco, roba da tirarci fuori dalla memoria quando a fare i cori c’era Rossana Casale, un assolo di chitarra, sì, un assolo di chitarra, avete letto bene, a aprire il cuore in due a chi ascolta. Una canzone scritta per essere cantata in uno stadio, in coro con decine di migliaia di persone, e mai come oggi ci si augura che questo possa succedere già questa estate, seppur la cosa appaia al momento ancora in dubbio, ma che soprattutto ben ci lascia presagire riguardo il nuovo lavoro sulla lunga distanza del rocker di Zocca, uno che ha centellinato le uscite negli anni, ma che in questo centellinare è riuscito a non sbagliare un colpo, andando a costellare il nostro cammino di piccole luminosissime stelle. Io, sono di parte, l’ho già detto, mi sono perso dentro questa canzone, e mi sono perso non solo nella sua voce, ma anche in quelle note distorte di chitarra, un assolo di chitarra nel 2021, roba da non credere.

Non so se una canzone può davvero cambiare il mondo, o essere presagio di un cambiamento, figuriamoci, non so perché faccio certi sogni, probabilmente non so nulla di me, figuriamoci del mondo, ma so che Una Canzone d’Amore Buttata Via è un ottima prospettiva con la quale guardare al domani, e che la sera è sempre meglio mangiare leggeri, si eviteranno indigestioni e conseguenti sogni bizzarri.