“Ahimè, Roberto Benigni”, si potrebbe dire parafrasando l’”Ahimè, Victor Hugo” che André Gide diede come risposta a chi gli chiedeva chi fosse il più grande scrittore francese. Questo non per indicare qualche primato specifico del Benigni attore e regista ma per sottolineare come, quando si parla del rapporto tra cinema e Olocausto, il suo La Vita È Bella costituisce un punto di riferimento inaggirabile. Un film al centro di una disputa infinita sin dalla sua uscita, acuita dell’enorme successo, quasi 230 milioni di dollari d’incasso e tre Oscar nel 1999. Premi salutati positivamente dalla stessa comunità ebraica, col direttore dello Yad Vashem, l’ente nazionale per la memoria della Shoah, Avner Shalev, che si disse “molto commosso per il potente messaggio umano del film di Benigni”.
Non basta però questa pur prestigiosa voce a porre fine alle questioni poste dal film e più in generale alle questioni che ciclicamente tornano al centro del dibattito – è accaduto più recentemente con un’opera dall’approccio innovativo come Il Figlio Di Saul di László Nemes, altro premio Oscar – quando si discute dell’ammissibilità o meno di una rappresentazione in immagini, e quindi a forte rischio di spettacolarizzazione, della Shoah. Un tema che oscilla tra due posizioni autorevoli: l’interdetto di Claude Lanzmann, autore del documentario Shoah, composto di sole testimonianze di prima mano di sopravvissuti e tecnici tedeschi coinvolti nel funzionamento della macchina concentrazionaria, che ha teorizzato l’impossibilità di mettere in scena l’orrore concentrazionario; e l’approccio possibilista del filosofo Georges Didi-Huberman, che nel suo saggio Immagini Malgrado Tutto ha rivendicato la necessità del raccontare, perché “Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile”.
- Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio Cantarini (Actors)
- Roberto Benigni (Director) - Roberto Benigni (Author)
La Vita È Bella aggiunge un ulteriore elemento, legato alla scelta di un registro insieme comico e tragico che guarda evidentemente a Chaplin. L’uomo qualunque Guido Orefice, il personaggio di Benigni, è mosso da un’incrollabile fede nella bellezza della vita, da uno spirito ottimista e una fiducia nel valore della cultura (la sua ambizione è quella di aprire una libreria). Nell’Italia del 1939 e delle leggi razziali – Orefice è ebreo – la sua propensione alla felicità è messa a dura prova. Il film segue nella prima metà le sue farsesche avventure, dal lavoro di cameriere ai buffi tentativi per conquistare il cuore della maestra Dora (Nicoletta Braschi). Pur nel tono leggero della commedia, coronata dal matrimonio tra Guido e Dora e la nascita di Giosuè (Giorgio Cantarini), s’addensano i segnali cupi della discriminazione, sino all’improvvisa deportazione di padre e figlio al campo di concentramento tedesco, con la scelta di Dora, che pure potrebbe evitarlo, di salire deliberatamente sul treno destinato al Lager.
La Vita È Bella è un film spezzato in due, tra la commedia della prima parte e la tragedia della seconda. Benigni però, con la fondamentale collaborazione in sceneggiatura di Vincenzo Cerami, rimodula anche la tragedia, tingendola del tono fiabesco che è il filtro che Guido frappone tra l’orribile verità e lo sguardo innocente del figlio Giosuè. A cui fa credere che il Lager sia la sede di un gioco a punti in cui il primo premio è un vero carrarmato. Quando un soldato nazista spiega le regole del campo, Guido, che non conosce il tedesco, s’improvvisa traduttore reinventando completamente il senso di quelle parole, trasformandole a uso del figlio nelle regole di quell’enorme gioco collettivo.
È lecito il trattamento comico della tragedia? In sé non è nemmeno inedito, già Billy Wilder negli anni Cinquanta in Stalag 17 raccontava la vita di un campo di prigionia per militari – non un Lager però – con un tono sulfureo, amaramente divertente, che fece parlare a un critico di un dispositivo fondato sulle “risate in posti spiacevoli”. I momenti in cui Benigni e Cerami si prendono i rischi maggiori sono quelli in cui il film crea un’autentica sovrapposizione tra comicità e tragedia. Come quando Guido si finge un ispettore scolastico che impartisce ai bambini una lezione sulla superiorità della razza ariana mostrando sé stesso come esempio di bellezza insuperabile. Lì La Vita È Bella tocca le corde più efficaci dello smontaggio comico, che svela l’assurdità di quell’accozzaglia di teorie senza senso prendendole alla lettera e sottoponendole alla prova del suo corpo comico. Lo stesso vale per le regole del campo del soldato tedesco, talmente folli e terribili da essere intraducibili nella lingua degli esseri umani, l’unica che Guido conosca.
In questi momenti La Vita È Bella è davvero, come ha scritto lo studioso del cinema comico Giorgio Cremonini, “un luogo privilegiato dell’ossimoro, ovvero di una contraddizione comico/tragico che non chiede superamenti, ma solo coesistenza”, forte di uno spirito autenticamente umoristico – memore del pirandelliano “sentimento del contrario” – che, come ha sottolineato Moni Ovadia, “è la critica della ragione paradossale che spiazza la violenza e sfibra il pregiudizio”. Un approccio persino tonificante, nelle parole di Terrence Des Pres, autore d’un saggio sul tema, Holocaust Laughter: “Il paradosso dell’approccio comico è che ponendo le cose a distanza permette una risposta più brusca e attiva. Le opere d’arte comiche o che includono un elemento comico ci offrono il beneficio della risata senza tradire le nostre più intime convinzioni. Incoraggiano la resilienza e riaffermano la vita”.
Il senso della vita capace di sopravvivere di fronte all’estremo è uno degli aspetti che più hanno toccato gli spettatori. Alcuni autorevoli come Imre Kertész, scrittore ungherese sopravvissuto al Lager e premio Nobel per la letteratura, che per La Vita È Bella ha parlato di un film in cui “da dietro la maschera del clown appare il mago: innalza la sua bacchetta e da quel momento ogni parola, ogni scena si trasfigura. Lo spirito, l’animo di questo film sono autentici, questo film ci tocca con la forza della magia più antica, quella della favola”.
Benigni ricorse alle parole di Kertész per rispedire al mittente le affermazioni dell’allora segretario del partito dei comunisti italiani Oliviero Diliberto, che attaccò il revisionismo de La Vita È Bella, che si chiude col falso storico degli americani che entrano nel Lager per liberarlo, mentre ovviamente si trattava dell’Armata Rossa. Le parole del premio Nobel sottolinenano la capacità della vera arte di attingere a una verità più profonda slegata dalla stretta osservanza della verosimiglianza storica. Kertész si spinge a dire che è una fortuna che il film, nonostante gli sforzi degli autori, non sia riuscito a riprodurre correttamente la quotidianità del Lager, perché, scrive, “l’autenticità si cela nei particolari, ma non necessariamente nella somiglianza degli oggetti”.
Qui si tocca un altro punto essenziale de La Vita È Bella, la sua veridicità, aspetto all’origine di feroci critiche al film. Nel rintuzzarle, Benigni stesso ha oscillato tra posizioni diverse. Talvolta sottolineando come il film fosse “una favola, non dissimile da quelle fiabe dove c’è un orco cattivo […] niente a che vedere dunque con la filologia dell’Italia degli anni Quaranta, né di quella dei campi di concentramento”. Talvolta invece ribadendo lo sforzo di attendibilità storica e di accuratezza nella ricostruzione scenografica, che si avvalse della consulenza di Marcello Pezzetti, storico del Centro di documentazione ebraica contemporanea, e dei sopravvissuti ai campi Shlomo Venezia e Nedo Fiano.
La Vita È Bella soffre di questa ambiguità, del difficile tentativo di equilibrio tra favola e realismo, trasfigurazione fantastica con ambizioni di universalità – non si nomina mai Auschwitz, volutamente – e correttezza storica. La scrittrice di origini ungheresi Edith Bruck, sopravvissuta ai campi, ha infatti parlato di “un campo immaginario, in cui i prigionieri non erano sorvegliati o rinchiusi, né radunati per l’appello e i conteggi all’alba e al tramonto”. E Benigni si muove inspiegabilmente a suo piacimento in un Lager che la storica Inga Clandinnen ha definito “un campo vacanze di cartone”.
Questo potrebbe avere a che vedere con una voluta sottolineatura, e torniamo a Claude Lanzmann, dell’impossibilità di mettere in figura la Shoah. Questo sostiene l’accademico australiano Peter Christoff, che a proposito di La Vita È Bella parla di “realismo magico”: “L’importanza del film consiste in questa tensione insostenibile generata dalla sua intenzionale dissonanza narrativa, il rifiuto di rappresentare la realtà”. E ciò sarebbe coerente con l’impostazione del film, in cui Guido creerebbe per il figlio un racconto di secondo livello non solo per non spaventarlo e tutelarlo, ma anche perché non c’è modo di tradurre in immagini e parole l’indicibile, quel ribaltamento della logica e del sentimento che è Auschwitz.
Su questo piano il già citato Il Figlio Di Saul trova una geniale soluzione teorica e pratica, attraverso l’uso della semi-soggettiva, con la macchina da presa incollata al protagonista, attraverso i cui occhi smarriti lo spettatore vede il Lager, ritratto come una realtà di pezzi impazziti che non collimano mai. È un mondo asfissiante che, visto da quella prospettiva limitatissima – che il personaggio condivide con pubblico e regista – risulta totalmente privo di senso, impossibile da mostrare e rappresentare in modo coerente.
La Vita È Bella però non sembra voler negare la rappresentabilità della Shoah, semmai trasfigurarla nelle corde di un racconto ottimista sulla forza della vita e dell’amore, in cui il fiabesco e il comico costituiscono i dispositivi che reagiscono al tragico permettendo, dopo l’inevitabile dolore, di recuperare una dimensione in cui la vita può essere ancora bella. L’equilibrismo ambizioso tra troppi registri però è faticoso: e allora la somma dei tanti dettagli del film che smussano gli aspetti più cupi – il campo di cartone – finisce per depotenziare pure gli elementi fiabeschi e comici e la loro capacità di contrastare la tragedia.
Kobi Niv, autore di un volume dall’inequivocabile titolo La vita è bella ma non per gli ebrei, ha scritto che “proprio come Guido usava ogni trucco e faceva ogni sforzo per nascondere al figlio la verità del campo di concentramento dove erano imprigionati, vale a dire la verità dell’Olocausto, così il film fa con i suoi spettatori: nasconde ai loro occhi, tramite i trucchi e l’inganno, la verità dell’Olocausto. [..] un campo di concentramento senza violenza, un Olocausto senza morte”.
Però, ha sottolineato uno studioso avvertito come Enzo Traverso, “se il messaggio che il film vuole trasmettere è universale, la storia che racconta non è ambientata in un luogo immaginario” ma, sebbene senza dichiararlo, ad Auschwitz. A quel punto la coerenza degli elementi, la veridicità dei dettagli, il non ricorrere a (troppi) eufemismi rispetto alla rappresentazione della violenza sono dati essenziali alla credibilità del racconto nel suo insieme e del messaggio positivo di cui il comico e fiabesco vogliono farsi vettori. Altrimenti si finisce per trivializzare, banalizzare la Shoah, sgonfiando la potenza esemplare del messaggio e rendendolo piattamente consolatorio, se non persino equivoco.
Sulla superficialità insiste Alberto Cavaglion, in un bellissimo libro sull’identità degli ebrei italiani: “Quello di Benigni è un distacco senza pathos: nasce da superficialità e dal desiderio di rendere confortevole una storia di afflizione […] Gli autori di La Vita è bella ritengono un punto di forza del film l’idea che il lager possa essere aggirato per forza di amore paterno. Vi sarebbe poco da obiettare di fronte a un così nobile proposito, se si parlasse di un luogo qualsiasi e non di un luogo dove – lo sanno in molti, senza essere specialisti – si davano casi in cui un padre togliesse il cibo al figlio sperando di risparmiargli tanta sofferenza”.
Lo spettatore così si rifugia nel fiabesco annacquato che gli rende sopportabile, e ragionevolmente indolore, il confronto con il racconto del lager. Ma, ammonisce Cavaglion con parole lapidarie, “chi racconta il lager per confortarti, di solito è in malafede. Le storie su Auschwitz non sono state concepite per confortarti, ma per affliggerti”. Anche di quell’afflizione che può sorgere dalla fiaba e dal comico che fanno fino in fondo il loro lavoro, raccontando quella verità nutrita di sofferenza che ne La Vita È Bella affiora solo in pochi momenti.
Positivo è il mio giudizio sull’articolo di Stefano Fedele e condivisibile l’insieme di dubbi e problematiche che il film di Benigni pone. Io credo che un’opera d’arte (qualunque opera d’arte) non debba essere affrontata con una lente d’ingrandimento “politica” (come purtroppo molti fanno, specialmente accanendosi contro questo film). la divisione dell’Europa in zone d’influenza era stata decisa dai principali alleati contro Hitler molto tempo prima. La zona est era stata assegnata all’unione Sovietica e la ovest a Inglesi, Francesi e USA. I campi di sterminio che ricadevano nella zona ovest sono stati tutti liberati dagli alleati occidentali, in base agli accordi presi. ma un film, che come scopo principale ha quello di raggiugere un effetto poetico, è quello che è: un film. E come tale deve essere giudicato.