Amadeus il 17 dicembre annuncerà il cast di Sanremo

Questa notizia mi fa sentire come uno di quei pappagallini verdi che si vedono in cielo, completamente spaesato


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Casa mia è piena di balconi. È uno dei suoi punti di forza, della casa, avere i balconi. Da una parte ce ne sono due, affacciati verso i monti, sul lato stretto ce n’è uno, che dà sul palazzo di fronte e sulla via di ingresso del palazzo, dall’altro lato lungo uno solo, lungo però quanto è lunga la casa, con porte finestre che danno dentro tutte le stanze da quel lato. Quel lungo balcone si affaccia su una piazza. Nella piazza ci sono degli alberi molto alti, più alti dei miei balconi, che si trovano comunque al settimo piano di un palazzo di otto piani.

In questi giorni di dicembre, giorni piuttosto freddi qui a Milano, ha anche nevicato, a inizio mese, gli alberi, ormai spogli o con su solo foglie morte, come quelle che tirava Mariolino Corso, sono frequentati da un nutrito gruppo di pappagallini verdi.

Sì, pappagallini verdi.

In una piazza di Milano, zona semicentrale.

A dicembre.

Inizialmente mio figlio Tommaso ne ha visto uno, nascosto tra i rami. Il suo verde fluo ha attirato la sua attenzione, e nel giro di pochi minuti tutta la famiglia era affacciata alla porta finestra, in buona parte muniti di smarphone per fare foto, Lucia, appassionata di fotografia, con la sua Canon. Tutti siamo rimasti colpiti da questa singola presenza insolita. Marina, mia moglie, ci ha detto che a un suo collega era scappato il pappagallo, e che era poi morto di freddo, indicando quindi il futuro prossimo del pappagallino verde su quell’alto ramo fatto di stenti e di una prematura morte. In famiglia ci passiamo spesso il testimone da Cassandra.

Ci siamo tutti inteneriti a pensarci. Abbiamo tutti inconsciamente fatto il tifo per lui, il nostro amico pappagallino verde appollaiato su un ramo sbagliato, in una città sbagliata, probabilmente anche in un continente sbagliato. Del resto siamo marchigiani, parlare di pappagallini o passeri solitari ci viene naturale.

Tempo qualche minuto il pappagallino si è spostato di ramo, costringendoci a aguzzare lo sguardo, confesso che io sulle prime ho guardato di sotto, per cercare di vedere se si intravedeva il cadavere del povero pennuto da qualche parte. Aguzzando lo sguardo lo abbiamo subito trovato, circa mezzo metro sotto il ramo dove lo avevamo visto la prima volta, sempre da solo, lì a togliersi immagino parassiti dalle piume. Solo che, nel cercarlo, ci siamo accorti che anche negli altri alberi li di fianco, la piazza che si vede al nostro lungo balcone è piuttosto spaziosa e tutta circondata da una fila alta di alberi, era piena di altri pappagallini verdi. A occhio ne abbiamo contati almeno una quindicina, e solo concentrandoci sui due alberi che si trovano proprio davanti a noi.

Ora, non essendo un appassionato di bird watching, e non avendo nessuna competenza nel settore, non saprei dire se questa cosa sia o non sia normale, se cioè tutti gli anni, a dicembre, la piazza davanti casa mia si riempie di pappagallini verdi. Non so se è scappata una nidiata di pappagallini da qualche parte, se uno stormo di pappagallini verdi, sempre che anche i pappagalli diano vita a uno stormo, abbia cannato le coordinate della sua migrazione, e magari ora sono convinti di essere in una piazza di Marrakash, non so nulla riguardo i motivi per cui di colpo dalle mie finestre vedo pappagallini verdi, so solo che la cosa inizialmente mi ha riempito di tenerezza, tenerezza che è poi diventata una strana forma di ansia, come se realmente la natura, come ci siamo ripetuti per mesi, specie durante il primo lock down, non solo ci avesse voluto presentare in qualche modo un conto, piazzandoci tra capo e collo una pandemia capace di metterci tutti al palo, ma addirittura si stesse letteralmente riprendendo tutto, prima i pappagalli verdi, poi, chissà, le zebre, poi i leoni e le tigri, come in un remake di Io sono leggenda nel quale, però, invece di esserci Will Smith ci siamo noi, infine, quindi, terrore, come se i pappagallini non fossero tanto un segno della natura che vuole riprendersi quel che è suo, tipo un fiume che si riconquista il proprio letto alla prima alluvione, quanto piuttosto uno di quei segnali dell’Apocalisse imminente che, confesso, di mio avrei associato più a draghi fiammeggianti e a cavalieri di nero vestiti e brandenti spade infuocate, ma magari nella testa di Dio, più simile a un Douglas Adams di quanto pensiamo, ha nei pappagallini verdi che ancora son lì tra i rami il proprio segno ineludibile.

Ora, a parte aver capito che i pappagallini verdi, dietro quella loro aria sorniona, simpatica, pacifica, sono in realtà piuttosto temuti, almeno dagli altri volatili, perché da che sono comparsi loro non vedo più la solita Gazza Ladra che si diverte a saltabeccare da quelle parti, né i tanti piccioni che frequentano abitualmente quei rami, dovrei provare a trarre una qualche morale da questo episodio, non fosse altro che per giustificare, sempre che io sia tenuto a farlo e sempre che io lo faccia abitualmente, la presenza di questo specifico aneddoto del mio vissuto all’inizio di un capitolo del mio diario, capitolo che non si trovi, quindi, un incipit che guarda da qualche parte non ben identificata salvo poi virare in maniera vigorosa da altra parte, lasciando che questa suggestione iniziale cada nel vuoto, falsa partenza bella e buona.

Al momento non trovo nessi plausibili, facciamo che è una falsa partenza, se poi strada facendo trovo un qualche collegamento con quello che voglio andarvi a raccontare, beh, sarà mio agio farvene partecipi, tanto se siete giunti fin qui, cinquemila e passa caratteri, solo a leggere di pappagallini verdi, direi che siamo entrati sufficientemente in confidenza per potermi permettere di giocare a carte scoperte, senza dovermi sforzare troppo di giocare con le parole.

Girano le solite liste dei probabili cantanti di Sanremo.

L’anno scorso, giusto per rinfrescarvi le idee, ero in possesso di quella giusta qualche giorno prima che divenisse di pubblico dominio, giuntami da uno che a quella lista lavora, ma non l’avevo pubblicata, rispettando un patto tacito di mutuo soccorso, lui/lei aveva passato a me la lista in anticipo, per non rovinarmi la serata del giorno nel quale Amadeus la avrebbe dichiarata urbi et orbi, io non la avrei spolierata, non avrei, cioè, rovinato il lavoro di quanti a quella lista dedicano tempo e fatica, tecnicamente avrei rispettato un embargo, così si dice tra noi addetti ai lavori. Credevo, povero fesso, che in molti la avessero, seppure io continuassi a leggere liste sui social che non erano esattamente quella definitiva. Anzi, in alcuni casi non era neanche lontanamente vicina alla lista definitiva. Quando poi Chi ha pubblicato la lista, spacciandola per definitiva, seppur con delle imprecisioni marchiane, e quando di conseguenza Amadeus, in preda a una forma di black out mentale, ha dichiarato la lista non a tutti i giornali, ma solo a Repubblica, ho sbottato sui social, parlando di “errori che si pagano col sangue”. Frase, questa, che è stata ovviamente interpretata alla lettera, quando stavo chiaramente usando una figura retorica anche piuttosto usurata, e quando, soprattutto, non intendevo dire che io gliela avrei fatta pagare col sangue, non sono in condizioni di farla pagare a Amadeus, anche volendo, intendendo piuttosto che gliela avrebbero fatta pagare quelli che possono, vedi alla voce altri quotidiani generalisti, altri media generalisti, cosa che è puntualmente accaduta, si pensi alla polemica sulle gaffe riguardo il femminile.

Anche quest’anno girano le medesime liste, non nel senso che ci siano esattamente gli stessi nomi, alcuni sì, tipo Achille Lauro, identificato ormai come una specie di tassa, presente a ogni passaggio, quanto nel senso che girano come sempre delle liste, più o meno attendibili. Amadeus ha a più riprese messo in dubbio la fattibilità del Festival, almeno per come lo conosciamo tutti, grande sfarzo, assembramenti continui, Sala Stampa piena, teatro pieno, backstage pieno, strade di Sanremo piene, ristoranti pieni, alberghi pieni, sostenendo che o si farà un Festival con la gente o non si farà, affermazioni puntualmente smentite dai dirigenti RAI che, in nome del Dio quattrino, hanno sempre detto che il Festival ci sarà e sarà il Festival per come lo conosciamo.

Sfugge come facciano a sapere cosa sarà di noi, inteso non tanto noi che siamo soliti frequentare con ruoli diversi il Festival, intendo proprio noi razza umana, visto che la pandemia non mi sembra stia procedendo seguendo un copione prestabilito o, se un copione ipotizzabile c’è, non mi sembra che ce lo abbiano raccontato con certezza scientifica, dubito, per intendersi, ci saranno i vaccini per quanti dovranno partecipare al Festival, e se ci fossero spero proprio che tutti gli altri scendano in piazza brandendo cappi e ghigliottine, perché direi che ci sono priorità più importanti del Festival, a meno che il mondo non segua pedissequamente le casse della RAI, ma sfuggono soprattutto altre cose che Amadeus ci ha tenuto a più riprese a ribadire, tanto più se confrontate con le liste di cui sopra, liste che non sono esattamente l’Invincibile Armata della discografia, piene come sono di nomi irrilevanti, alcuni addirittura sconosciuti a buona parte degli addetti ai lavori, tipo quel suo rimarcare che sarà il Festival della Rinascita, intendendo ovviamente della rinascita dalla pandemia, non certo della rinascita del Festival, quello direi che non potrebbe rinascere neanche se alla direzione artistica ci fosse il Professero Viktor Frankenstein, il Festival della Rinascita pieno ovviamente di nomi importanti.

Ora, quest’anno non ho la solita lista.

Non ce l’ho per almeno un paio di motivi piuttosto validi. Il primo è che, dopo aver rotto abbondantemente le scatole all’organizzazione durante le edizioni Baglioni\Salzano, i miei articoli ripresi da Dagospia e quindi da Pinuccio a Striscia la Notizia sono deflagrati come bombe, mettendo in qualche modo non dico a rischio il tutto, figuriamoci se la RAI si fa mettere a rischio da me, ma almeno in ridicolo, l’anno scorso ho tirato un’altra sassata alla Corazzata di casa RAI, indicando un altro conflitto di interessi, nello specifico quello tra Salini, AD Rai, il cui capo della comunicazione è Marcello Giannotti, e la MN Holding, società che proprio Giannotti tra le sue fila ha avuto per anni, fatto che mi ha tenuto fuori da allora e immagino per sempre da tutti i programmi RAI, niente Dopo Festival, per dire, ma anche mai più TV Talk, programma nel quale ero più volte andato come opinionista, ecco, dopo aver in qualche modo scritto a lettere dorate il mio nome nel Libro Nero della RAI, per motivi che non sarà difficile intuire, i miei rapporti con chi sta lavorando a quella lista si sono un filo logorati, quindi non è da quella parte che mi sarebbero potute arrivare informazioni utili e sicure. Dico sicure perché arrivare a occhio su nomi papabili non è esattamente esercizio complicato o impossibile, certi nomi girano ogni anno e ogni due o tre anni in effetti al Festival approdano, metterli nella lista, magari escludendo i nomi simili passati dal Festival l’anno scorso, è facile quanto bere il tradizionale bicchier d’acqua. Le liste sicure sono quelle che passano da certi canali, gli organizzatori, appunto, al limite un certo giro di discografici o promoter, gente che ha interessi diretti in ballo, che partecipa, sia messo agli atti, a una sorta di pacifica spartizione dei posti, manuale Cencelli alla mano, senza pestarsi troppo i piedi, ma certo non abbondando in galanteria. Al gruppetto ristretto di fonti attendibili si uniscono pochissimi altri nomi, tipo il patron di una certa radio che ho avuto il piacere di frequentare, per dire, o certi editori. Insomma, o le liste passano di lì, e per di più coincidono da fonti diverse, o non solo non sono sicure, ma vanno clamorosamente a fortuna, come uno che in passato si fosse trovato a fare la schedina senza nulla sapere di calcio o quasi.

Quindi, escluse le fonti interne RAI avrei dovuto provare a sondare in questi altri luoghi oscuri, ma non l’ho fatto. E va detto nessuno ci ha tenuto comunque a farmi sapere alcunché, escluso un solo nome, che però annovero tra gli amici amici, non tra quelli che tali si fingono perché io possa coi miei pezzi far danni altrove, come un guastatore.

Per dirla come il Neffa di Aspettando il sole, questo 2020 è sempre più una lunga sequela del pezzo in cui cantava “nessuno chiama e non so chi chiamare”, i telefoni tacciono, whatsapp anche. Sembra che tutti stiano temporeggiando, non perché non stiano andando avanti le pratiche per il Festival, il 17 Amadeus annuncerà il cast in diretta su RAI1 e finalmente vedremo, finalmente si fa per dire, se quelle liste erano giuste, e se anche le sue dichiarazioni erano almeno sulla carta veritiere, se il Festival si farà o meno lo scopriremo solo vivendo, letteralmente, quanto piuttosto per una forma di reticenza al volerci credere davvero.

Un po’ come succede coi live nei grandi spazi del 2021, tutti sanno che salteranno, infatti i tour internazionali stanno saltando uno alla volta, ma nessuno ha il coraggio di ammetterlo, in questo caso specifico immagino anche per non dover restituire i soldini incassati dai promoter per quel milione e mezzo di biglietti venduti.

Se prima di tutto questo, prima del Covid19, intendo, buona parte del mio tempo era speso non a scrivere o ascoltare musica quanto piuttosto a parlare al telefono o di persona con artisti e addetti ai lavori, essere un cinquantenne che c’era già una venticinquina di anni fa aiuta, in questo, perché buona parte dei discografici che oggi ricoprono un ruolo importante sono miei coetanei, e ci si conosce da tempo immemore, idem con certi artisti, ora le mie giornate passano nella solitudine della casa. Solitudine si fa per dire. Siamo in sette, in casa, di cui cinque fissi qui dentro, mia moglie in smart working, io che in smart working ci sono dal 2004, e che con studi di registrazione chiuse e discografiche idem non ho da far altro che stare in casa, spesso sul divano a guardare serie su Netflix o Amazon Prime, oltre che a scrivere e ascoltare musica, poca nuova, poca ne esce, molta del passato, mia suocera non lavora, quindi è in casa a fare cose, i miei due figli grandi sono in DAD da quasi due mesi, quindi il silenzio non è affatto una componente della mia vita. Lo è il silenzio inteso nel senso di suoneria del mio smartphone, perché davvero nessuno chiama più. Vedersi neanche a parlarne. Ci si sente di rado, quasi sempre per sapere se siamo vivi. Spesso per lamentarci che non succede niente. Quasi mai progettando qualcosa che, tanto, poi dovremo riprogrammare. Per questo non ci si sente mai, o quasi, per non dover ripetere un canone trito e ritrito, il Covid19, le incertezze, il DPCM, hai sentito che tizio ha sbroccato, hai saputo che quello l’ha preso. Metteteci pure che, negli anni, molti di quei discografici di cui sopra li ho maltrattati, anche in maniera piuttosto violenta, e magari di sentirmi non gli va più di tanto, non gli è mai andata davvero, se la sono fatta andare quando non c’era scelta, perché tutto procedeva su quei binari lì e seppur un outsider io ero uno col quale toccava confrontarsi, ora che tutto è esploso va anche bene ignorarmi, tanto in un qualsiasi Festival ipotizzabile, intendendo con questo un Festival che non sia esattamente come quello dell’anno scorso, io me ne starei sicuramente a casa mia a Milano, sfido chiunque a ipotizzare un altro Attico Monina come quello del 2020, oltre settanta persone transitate da quelle parti, di cui una quarantina quasi fissa in loco notte e giorno.

Non ho quindi nomi buoni da fare, non li faccio. Credo che alcune delle liste, per dire quella del buon Toni Vandoni, ci si avvicinino parecchio, perché evidentemente lui conosce gente esattamente come me, l’anno scorso l’aveva azzeccata, diciamo così, alla perfezione, ma non ho controprove scientifiche, e non vorrei passare per uno di quei virologi tanto di moda oggi, quelli che dicono tutto e il contrario di tutto.

Quello che però mi sento di dire con certezza è che non credo ci sarà un Festival come lo conosciamo. A occhio non credo ci sarà proprio il Festival, a inizio marzo, anche se mi auguro di cuore di essere smentito, nel senso che mi auguro che a marzo questo incubo sia finito per sempre, bye bye pandemia. Ma anche fosse non credo ci saranno folle oceaniche, penso che sarà tutto contingentato, il pubblico, l’orchestra, i giornalisti, gli accompagnatori dei cantanti, niente hotel pieni, niente ristoranti pieni, niente folle oceaniche davanti all’Ariston, strade deserte. Un’altra cosa rispetto al Festival, qualcosa di più simile a quello che andava in onda negli anni Ottanta, quelli presentati dai Figli Di o da Andrea Occhipinti, per intendersi. Magari addirittura in playback, e in alcuni casi, suppongo, ce ne avvantaggeremmo tutti, specie se tornerà davvero sul palco di nuovo Achille Lauro, per dire.

A questo punto, visto che siamo a pochi passi dalla fine, dovrei tirare fuori un colpo da maestro e unire il discorso sulla lista di Sanremo, sulla mia ipotesi di un Sanremo diverso, sempre se ci sarà, col discorso dei pappagallini verdi che albergano negli alberi davanti al mio balcone. Qualcosa, in sostanza che unisca i puntini, manco fossi Steve Jobs.

Potrei azzardare che al momento mi sento esattamente come uno di quei pappagallini, spaesato in un mondo che non riconosco come il mio, solo, come spesso mi capita di essere, anche per mia scelta, comunque destinato a non fare una bella fine, se non a morire, più o meno metaforicamente. Ci potrebbe stare, ma giocherei forse troppo su un cliché, contravvenendo ai miei principi basilari di iconoclastia.

Potrei invece chiosare che Amadeus è quel primo pappagallino, quello che per altro ignora che nell’albero di fianco c’era il pienone di suoi colleghi, lì in balia del freddo e della solitudine, destinato a capitolare, seppur dotato di un suo stile e di colori bellissimi. Ma anche qui, sarei di cattivo gusto, non si scherza con la morte, anche se metaforica, degli altri, e per quanto Amadeus sia bravo a fare spettacolo non è comunque di sicuro paragonabile a un bellissimo pappagallino verde che svetta nel grigio di una Milano dicembrina.

Ecco, credo che a chiudere queste mie parole, le dichiarazioni di Amadeus da una parte, i dati della pandemia dall’altra, le liste di nomi che io, personalmente, in buona parte non inviterei neanche alla Sagra del Bombarello di Massignano, su tutte, penso di poter concludere che i pappagallini verdi siano una perfetta impersonificazione della musica oggi. Lì, convinta di stare in ottima salute, magari in una piazza di Marrakash, in realtà capitati per sbaglio a Milano, in un dicembre particolarmente freddo, pronti a cadere in terra stecchiti, al più immortalati da me e dalla mia famiglia coi nostri smartphone: “poverini, che brutta fine faranno…”.

Il tempo di guardarli con gli occhi lucidi che arriva ora di pranzo, appoggiamo gli smartphone da qualche parte, ci mettiamo a tavola e non ci si pensa neanche più. Del resto se davvero il primo uomo al mondo a ricevere il vaccino si chiama William Shakespeare cosa mai di altrettanto fantasioso potrei mai trovare io, che mi chiamo solo Michele Monina?