Qualcosa di nuovo di Max Pezzali è un album che soffia via quella pesante patina di cupezza che ormai ci portiamo dentro

Ne avevamo bisogno, ne abbiamo bisogno ancora, decisamente. Grazie, Max


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A me questa cosa dell’accondiscendenza con cui viene genericamente trattato Max Pezzali in certi ambienti della musica manda fuori di testa. Nel senso, sembra che poter parlare male di Max Pezzali come persona sia praticamente impossibile, quasi che lui fosse, per dire, lo Ying del suo essere artista, tanto quanto Maradona era lo Yang del suo essere un genio del calcio. Per questo, non potendo parlar male del Max Pezzali persona, ma evidentemente volendo prendere le distanze dalla sua musica, seppur senza passare per spocchiosi che guardano al pop come si guarda qualcosa di scarso valore, di risibile, quasi, incapace di cogliere lo zeitgeist nonostante il medesimo pop parli a milioni di persone, ecco che si tirano fuori il fatto che sia molto simpatico, che sia un grande conoscitore di musica, specie del rock, nonostante la musica che poi fa, va sempre aggiunto, che sia uno che se lo incontri per strada o a un concerto, immagino un concerto rock, appunto, non solo ti saluta, ma se ne sta a parlare con te come se nulla fosse. Poi, ovviamente, seguono risatine sotto i baffi, come a dire, è simpatico, sa di rock, è alla mano, ma fa canzoni pop, santo Dio, pop.

A poco è valso, sembra sempre, almeno guardando sempre a un comune sentire, e per comune intendo di quella categorie di persone su descritta, spesso addetti ai lavori, critici musicali, prevalentemente, che di colpo una intera generazione di rapper, quella appena precedente ai trapper, per intendersi, lo abbia riabilitato, come se davvero avesse bisogno di essere riabilitato, e a poco è valsa anche la famosa compilation di Rockit, dove a omaggiarlo erano invece artisti della scena indie (del resto Max ha collaborato tra gli altri con Niccolò Contessa, alias I Cani, mica peanuts), pensateci, rapper e indie a omaggiare il medesimo nome, roba sulla carta, almeno quando non c’erano i trapper ma i rapper, impossibile, perché dopo quella fiammata d’amore per cui un po’ tutti hanno perso la testa dietro rapper e artisti indie, la consapevolezza che quei nomi non fossero poi così centrali si è impossessata nuovamente di chi ha sempre guardato al pop con aria di sufficienza, e di conseguenza Max Pezzali è tornato a essere quello simpatico etc etc, poco conta che ci siano due San Siro belli pieni a attenderlo, quando si tornerà a suonare dal vivo.

Io Max lo conosco. E lo conosco perché, non certo per spirito di bastian contrario, non ho mai preso in considerazione i miei colleghi, né quelli della carta stampata né quelli di Rockit, figuriamoci se vado a scrivere qualcosa per differenziarmi da chi neanche considero, lo conosco perché ai tempi in cui scrivevo su Il Fatto Quotidiano ho scritto un pezzo nel quale indicavo quello che i suoi detrattori hanno spesso additato come uno dei suoi principali difetti, lo spostare gli accenti per mettere parole in metrica che, in apparenza, in metrica non ci starebbero, lo accomunava a personaggi della foggia di Paolo Conte e Ivano Fossati, facendo debiti esempi, anche essi spesso alle prese con forzature linguistiche, si pensi, senza che ora ripeto il discorso, a come Fossati ha caratterizzato la sua scrittura spezzando le parole a metà, tenendo quindi l’accento su una sillaba, o come Conte li abbia direttamente messi in mezzo, con tanto di rime. Certo, mettere sullo stesso piano Conte, Fossati e Pezzali poteva suonare una forzatura, ma credo fermamente che Pezzali sia stato per un pop che, seppur esploso negli anni Novanta, prendeva le mosse dagli anni Ottanta, esattamente quel che Conte è stato per la canzone d’autore slegata al politico degli anni Settanta e Fossati dagli anni Ottanta in poi.

Altro tema spesso discusso, o meglio, dileggiato, perché in genere chi dileggia non discute, nel senso che non prevede di entrare nel campo della dialettica, postula senza che si lasci mai spazio a una risposta, e ancora più spesso senza neanche conoscere bene quello di cui parla, mai ascoltato un album per intero, ma visto un concerto, intendiamoci, anche io non andrei mai a un concerto di Sfera Ebbasta, ma ho ascoltato la sua musica e non ci andrei proprio a partire da quel che ho ascoltato con attenzione, studiato, non certo così, per pregiudizio o partito preso. L’altro argomento che si butta fugacemente sul tavolo volendo scherzare su Max Pezzali, e convengo che scrivere un pezzo nel quale ci si sofferma a lungo sulle critiche mosse a qualcuno potrebbe non suonare come una cosa buona e giusta, perché in genere si tende a prendere una posizione e sposarla, o architettare una teoria e esporla, non si comincia sgomberando dal tavolo dai resti del pranzo di qualcun altro, l’argomento che si butta fugacemente sul tavolo volendo scherzare su Max Pezzali è il fatto che, superati i cinquanta, e la cosa si diceva anche superati i quaranta, lui continui a parlare di una vita adolescenziale, come se si fosse ancora al liceo, usando un linguaggio fatto di molte immagini efficaci, certo, chi potrebbe negare che “Tappetini nuovi, arbre magique” sia uno degli incipit più potenti di sempre, anche il mio amico Enrico Ruggeri ha pubblicamente sostenuto si tratti di una sequenza di parole che rasenta il capolavoro, ma anche di parole troppo semplici per essere ascritte al grande libro degli Autori, un po’ come dire che esistono i cantautori, certo, e che Max Pezzali è un cantautore, ma non abbastanza cantautore da potersi fregiare del titolo.

Ora, ho già tirato in ballo Fossati, che per la cronaca ritengo il più grande autore di canzoni italiane vivente, e Paolo Conte, che ovviamente ha la mia stima assoluta seppur non rientri esattamente nei miei ascolti giornalieri, vi sarà quindi chiaro che io rientri nella genia di quelli che considerano Max Pezzali non solo un grande autore, ma un grandissimo autore, una sorta di genio.

A partire proprio da quelle due particolarità, per altro, l’aver inventato un modo tutto suo di suddividere le sillabe e appoggiarle sulla melodia, e per quel suo riuscire a trattare con semplicità temi eterni, quali l’amore, certo, il crescere, l’amicizia, la vita di provincia, il tutto con un tocco di finta ingenuità che a volte viene confusa con superficialità (nel senso che viene confusa per superficialità, ma viene confusa per superficialità con superficialità, senza ragionarci su troppo). Perché le canzoni di Max Pezzali, quelle a nome 883, prima, a nome proprio, poi, sono tutt’altro che superficiali. Sono semplici, nel senso che esprimono in maniera non complicata una visione del mondo molto precisa, scritta da un uomo colto che ha trovato il modo di far diventare le sue parole le parole di una massa variegata di persone, e sono semplici perché rifuggendo le artificiosità del massimalismo hanno optato per una specie di minimalismo barocco, so che detto così sembra un ossimoro, ma non lo è, cioè un linguaggio carico di immagini e di figure retoriche che però non risulta mai sovrastrutturato, artificioso, appunto, sincere, in pratica.

Anni fa, tanti anni fa, diciamo una quindicina, Max Pezzali tirò fuori uno dei suoi primi album a nome proprio, e nel tirarlo fuori disse che si era ispirato a Johnny Cash. Sulle prime fui tra quanti ne sorrisero, che diamine c’entrava Max Pezzali, quello di Sei un mito o Come mai con il tizio che cantava di aver ucciso un uomo a Rheno solo per vederlo morire? In realtà aveva perfettamente ragione lui, l’ho capito dopo, e ci ripenso sempre con quella patina di vergogna che si prova verso noi stessi nel momento in cui ci rendiamo conto di esserci creduti dei fenomeni nel momento in cui, nei fatti, dicevamo una grande fesseria. Perché è quella semplicità da storyteller tipica di chi si è mosso nel campo del country, del folk, radici popolari che non potevano che generare il pop, che Max va a pescare la propria modalità di scrittura, pop-oular music, la chiamano in America. Chiunque abbia assistito a un suo concerto ben lo sa, le sue canzoni sono cantate in coro da tutti quanti perché tutti quanti i presenti, provenienti da ogni angolo di una qualsiasi città, si riconoscono perfettamente in quel modo di spiegarci la vita e il mondo, parole precise, semplici, efficaci, dirette.

Ora Max Pezzali è tornato con un nuovo album. Dopo cinque anni, per altro. Un album che si intitola Qualcosa di nuovo, in nomen omen, e che arriva a distanza di parecchi mesi da quando era annunciato, doveva uscire a aprire per anticipare i due concerti dello scorsa primavera a San Siro, rimandati causa Covid, e che prende il titolo proprio dalla canzone arrivata durante il lock down, una canzone che, lo dico subito, se la vede coi suoi classici più classici, come Gli anni, una canzone che dovrebbe stare nella Top 10 delle canzoni più belle del nostro pop di tutti i tempi, lo dico e lo confermo nella stessa frase, come un matto. Una canzone che è in qualche modo un inno a non mollare, decisamente più efficace di tante canzoni che inneggiavano all’andrà tutto bene uscite durante il lock down. Una cosa che però balza agli occhi, o orecchi, andrebbe detto, ascoltando le tracce dell’album, è come Max Pezzali, apparentemente di colpo, abbia spostato il suo privilegiato punto di osservazione del mondo, lo sguardo della sua visione, trasformando quella che era la constatazione di una purezza di valori nei quali ci si riconosceva da giovani, e che in qualche modo cementavano nel binomio amore-amicizia il senso della vita, in una sorta di nostalgia per un passato che non tornerà più, la morte o l’idea della morte che, neanche fosse davvero Johnny Cash, serpeggia tra le strofe, l’amore, sempre presente in canzoni quali Se non fosse per te e Non smettere mai, dedicate alla sua Debora, che per altro è stata la fautrice del nostro conoscerci, oltre a Sembro matto, in compagnia di un ispirato Tormento, che di colpo diventa quello di un uomo di mezza età che punta a qualcosa di stabile, non nel senso di eterno, quella è l’aspirazione di qualsiasi storia d’amore, parlo di costruzione, di lavoro, di dedizione. Certo non mancano episodi nei quali l’ironia domina, Max è simpatico, ricordate?, come in Più o meno a metà, canzone che in qualche modo guarda all’essere uomo di mezza età scherzando sulle difficoltà che noi boomer viviamo nel vano tentativo di stare al passo con quel che ci succede intorno, o 708090200, dove in compagnia di J Ax, uno dei primi a riconoscere la paternità pezzaliana di un certo modo di raccontare la periferia e la provincia, qualcosa che mi verrebbe da definire springsteeniano, non fosse altro che per far incavolare i tanti puristi di cui sopra, torna a ragionare sui medesimi temi, temi che invece guardano solo al presente in Siamo quel che siamo, con Gionny Scandal e I ragazzi si divertono. C’è l’atto d’amore rivolto a Roma, In questa città, canzone che avrà fatto stringere il fegato a tanti milanesi o pavesi, tanto è capace di infondere in tre minuti o poco più il trasporto che evidentemente Max prova verso la capitale, e più in generale c’è la sensazione di un artista che con trent’anni di canzoni alle spalle ha trovato una nuova stagione di ispirazione al top, lui che negli ultimi anni si è concesso poco, solo quando aveva cose da dire.

Certo, personalmente lo preferisco quando si lascia andare a uno sguardo malinconico e quasi esistenziale, come nella title track o nelle canzoni di tema amoroso, più che quando gigioneggia come nel singolo estivo Welcome to Miami, e in solitaria mi sembra sempre più efficace di quando raccoglie intorno a sé artisti più giovani, accorsi a spalleggiare il loro mito in una narrazione che però non avrebbe affatto bisogno di loro, ma resta che Qualcosa di nuovo è uno dei suoi lavori migliori, nonché un album che, a breve vi dirò perché, arriva nel momento giusto nel posto giusto, tanto quanto la canzone che porta il medesimo titolo è una delle sue canzoni più riuscite di sempre, al pari della già citata Gli anni, ma anche di L’universo tranne noi, una canzone talmente transgenerazionale da essere credo la sola, insieme a La descrizione di un attimo, di un altro nostro coetaneo, per altro, a mettere d’accordo me e mia figlia Lucia, quella che con me firma le pagelle di X Factor da queste parti.

Ho più volte detto di come, nei fatti, l’apparente leggerezza delle canzoni di Pezzali non nasconda affatto un mare poco profondo, se si è a pelo d’acqua lo si può essere a riva come al largo, quanto piuttosto un modo di affrontare la vita, un voler guardare avanti con la consapevolezza di quel che si è stati, non certo con l’assurda volontà di rimanere quel che si era, i piedi ben piantati per terra, certo, ma lo sguardo rivolto in alto.

Quando qualche tempo fa sono andato a vedere Max dal vivo in compagnia di Nek e Francesco Renga, al Forum di Assago, Dio, sembrano passati secoli, anche solo pensare a un concerto sembra roba di ere geologiche fa, una cosa mi ha colpito più delle altre. In questa sorta di karaoke collettivo che era quel progetto, piuttosto inspiegabile da un punto di vista logico, tre carriere che poco avevano in comune e, credo, neanche questa grande amicizia, almeno in partenza, tra i protagonisti, tanto Nek e Renga avevano il ruolo degli scatenati, quelli a saltare tutto il tempo, battendo le mani, quanto Max era immobile, quasi imbarazzato, da una parte. Ci scherzavano anche su, mettendo in evidenza i contapassi a fine concerto, dove era evidente che i primi due facevano chilometri e chilometri mentre Max si limitava a poche centinaia di metri su un palco gigantesco, sorta di anomali all’interno di quel trio. Quando però era il suo turno di cantare le sue canzoni, il motivo della sua presenza in quel trio diventava talmente evidente da lasciare quasi noi in imbarazzo, perché se con Nek e Renga la gente cantava, contenta, con Max il Forum si animava di vita propria, e talmente alto si intonava il canto da far credere un po’ a tutti di essere sul punto di vederlo crollare. Raramente mi è capitato di vedere un pubblico tanto coinvolto dai testi delle canzoni, forse solo con Vasco e Baglioni, che però hanno pubblici decisamente diversi tra loro e dal suo. Una cosa impressionante che non fatico affatto a capire, perché seppure io abbia sposato da tempo il massimalismo, un approccio postmoderno alla comunicazione, non posso che riconoscermi in quella visione del mondo che in fondo è anche la mia. E se qualcuno dovessi mai chiedermi, ma come, tu ti definisci punk, citi tra le tue band preferite il combo di Grant Hart e Bob Mould, Henry Rollins, viri al limite su Perry Farrell e Ian Brown e poi stai qui a identificarsi in canzoni pop, in un artista che per quanto ami parlare di rock ha una chiara matrice pop?, ecco, se uno dovesse chiedermelo gli risponderei seraficamente che sì, amo ascoltare l’hardcore, il punk, ma ascolto con piacere anche il pop, perché la buona musica è buona musica in tutti gli ambiti, mica solo in quelli che riconosciamo più contigui al nostro sentire.

Qualcosa di nuovo non è qualcosa di nuovo, quindi, perché prosegue su un cammino che Max ha iniziato in pubblico qualcosa come trenta e passa anni fa, e di questo non possiamo che gioire, ma Qualcosa di nuovo è qualcosa di grande, una canzone che soffia via quella pesante patina di cupezza che ormai ci siamo abituati a pensare permanente, la pacca sulla spalla amichevole di qualcuno che non vediamo da tempo, ma sappiamo che c’è, ci facciamo conto, e sul più bello arriva. Ne avevamo bisogno, ne abbiamo bisogno ancora, decisamente. Grazie, Max.