Mank di David Fincher, da oggi su Netflix, è il film dell’anno

Attraverso la storia dello sceneggiatore di “Quarto Potere”, Fincher racconta il rapporto tra cinema, politica e propaganda. Con uno sguardo critico che accomuna passato e presente

Mank

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Bisogna ringraziare Christopher Nolan per Tenet e ora David Fincher per Mank. Nel bene e nel male, in questo disgraziatissimo 2020, i loro sono stati gli unici due film capaci di scatenare attesa, interesse, autentico dibattito intorno a un cinema che, a guardarlo dalla malinconica prospettiva delle porte sbarrate delle sale, sembra sul punto di collassare una volta per tutte. Però, mentre Nolan veste il ruolo dello strenuo custode della settima arte che manda il suo film su grande schermo a costo del fallimento, Fincher, meno sentimentale, sceglie Netflix, che Mank ha prodotto e distribuito, saltando la filiera tradizionale, direttamente sulla piattaforma a partire dal 4 dicembre.

Nolan insomma ci fa la figura del romantico passatista. Invece Fincher ci racconta il punto esatto in cui è l’industria del cinema oggi, la cui sopravvivenza sta nell’integrazione tra il nuovo dispositivo produttivo e distributivo via streaming e un modo di fare film inequivocabilmente figlio di una tradizione che proviene dall’altro secolo. Forse anche per questo Mank è un film in bianco e nero ambientato negli anni Trenta/Quaranta che ruota intorno a quello che è per definizione IL capolavoro della settima arte, Quarto Potere. Fincher prende l’esempio più grandioso e vistoso, l’opera del genio capriccioso Orson Welles, per ricapitolare l’arte simbolo del Novecento e spiegarla così a uso del nuovo millennio, del nuovo medium e di una nuova generazione di spettatori.

Mank è un corso accelerato di cinema classico tradotto per i nostri tempi. Il film di Fincher, una sceneggiatura scritta da suo padre Jack e rimasta in un cassetto per oltre due decenni, è una sintetica enciclopedia del linguaggio cinematografico per come si è evoluto: non solo per il discorso metacinematografico e il bianco e nero rétro, ma per l’uso dei flashback, il piano sequenza, i trasparenti, i dialoghi velocissimi sovrapposti come in una screwball comedy di Howard Hawks, il cinismo tagliente di dialoghi calibrati come in un film di Joseph Mankiewicz.

O meglio del fratello maggiore Herman J. Mankiewicz, il Mank del titolo, interpretato magistralmente da Gary Oldman. Il quale, all’altezza del 1940, sebbene sia uno scrittore di grande talento e nobili natali (ex membro dell’esclusivissimo Algonquin Round Table dell’intellighenzia newyorkese) per la sua cattiva reputazione e la tendenza a bere troppo, è stato estromesso dall’industria del cinema. Però l’enfant prodige Orson Welles, 24 anni e in tasca un contratto della RKO che gli dà carta bianca per realizzare un film senza ingerenza alcuna degli studios, vuole che sia proprio Mank a scrivere il suo primo film da regista. E lo sceneggiatore, con una gamba rotta, viene spedito in un ranch nel bel mezzo del nulla, affinché non si distragga, non beva (impossibile) e si focalizzi sullo script, assistito da una segretaria (Lily Collins), una fisioterapista (Monika Gossman), e le importune visite di un ansioso John Houseman (Sam Traughton), socio di Welles al Mercury Theatre (ma pare poco più d’un galoppino).

Immobilizzato, Mank trae l’ispirazione e i protagonisti della sceneggiatura dalla sua vicenda personale, che si srotola attraverso numerosi flashback relativi agli anni Trenta, che coinvolgono figure influenti come il capo della MGM Louis B. Mayer (Arliss Howard), il tycoon Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley), il magnate dell’editoria William Randolph Hearst (Charles Dance) e sua moglie l’attrice Marion Davis (Amanda Seyfried).

Nel raccontare la Hollywood di una volta al pubblico di oggi, però, Fincher evita accuratamente l’effetto nostalgia. Mank non è una celebrazione sdolcinata della “fabbrica dei sogni”, né una sfilata vintage di divi d’epoca (“Più stelle che in cielo”, recitava il celebre slogan della MGM). Il sentimentalismo è bandito: o meglio è messo in scena, come dimostra il più grande attore di tutti, Louis Mayer, capace di piangere a comando ogni volta che serve. Il film non edulcora il passato né lo mitizza. Lo ricrea, con tutta evidenza, mantenendo lo sguardo ben fisso sull’oggi, indagando il rapporto tra cinema, politica e manipolazione, con Mayer (ed Hearst) produttori di filmini propagandistici (oggi sarebbero definiti fake news) che mettono in cattiva luce il candidato democratico alla carica di governatore della California Upton Sinclair, reo di avere delle posizioni socialiste temutissime dai padroni del vapore.

Certo, poi Fincher mostra anche lo scintillio dell’intelligenza al lavoro, con il folle isterico creativo mondo degli sceneggiatori che plasmano dal nulla all’impronta una storia, rimpallandosi trovate e battute taglienti al ritmo d’uno swing frizzante in colonna sonora. Il sottotesto però resta amaro, e il prezzo da pagare, professionale e umano, altissimo. Mank, non va dimenticato, è anche un film sul tema dell’autorialità, e la storia di uno sceneggiatore assoldato a condizione che accetti di non firmare un lavoro che deve appartenere in tutto e per tutto al titano che lo produce, dirige, interpreta e che quindi vuole anche poter dire di averlo scritto. Un Orson Welles non meno tronfio, nelle sue non a caso poche apparizioni, dei Mayer e Hearst. E destinato anche lui, come gli preannuncia Mank, a scontare la sua protervia da grande artista.

Non inganni perciò la patina quasi filologica del bianco e nero d’annata. Non siamo all’omaggio o alla calligrafia citazionista. Al contrario la ricercata grana visiva è il dispositivo necessario per dissimulare il fatto che il film, nel ricostruire il lato oscuro di quel cinema, proietti le sue ombre sull’oggi, col discorso critico acquattato velenosamente dietro la vernice distanziante di una fotografia vintage. E nella sua capacità di raccordare il passato al presente, Mank è senza dubbio il film dell’anno: non nel senso opinabile del più bello, ma in quanto capace di descrivere la rivoluzione in corso d’opera che coinvolge i modelli produttivi, l’estetica e l’immaginario del nostro tempo.