Let Them Talk: lo firma Cremonini, ci sono anche io, esce per Mondadori. Enjoy

Oggi, esce l’ottantesimo titolo della mia bibliografia, in questa anomala situazione di semi lock down non potendo festeggiare come vorrei, vi invito a farlo simbolicamente con me, a distanza


INTERAZIONI: 1029

La necessità aguzza l’ingegno. Aguzzare è un verbo strano, perché aguzza non è solo la terza persona singolare presente del verbo aguzzare, fare la punta, ma anche il femminile singolare di un aggettivo, aguzza, appuntita, e come aggettivo, aguzza, indica qualcosa di potenzialmente pericoloso, che potrebbe pungerci, ferirci, che se ci tiri contro un pallone potrebbe bucarlo.

È proprio di palloni che voglio parlarvi. E di come la necessità, appunto, ha aguzzato il mio ingegno. Niente di pericoloso, in questo caso, anzi, di assolutamente tondo e morbido.

Quando ero bambino non potevo giocare a pallone. L’ho già raccontato, e mi rendo conto che parlare continuamente di calcio potrebbe sembrare poco attinente al mio essere un critico musicale, ma come ho spiegato giusto ieri, la critica musicale fa parte dei Cultural Studies, e il calcio è sicuramente parte di quegli studi, alcuni calciatori sono popstar, la recente morte di Maradona ce lo ha ben spiegato. E comunque il calcio, in quanto terreno molto fertile per una epica contemporanea, è sicuramente partente stretto di una forma d’arte che ha fatto di un divismo che spesso tracima nell’eroico uno dei suoi aspetti più propri.

Io ho sempre avuto una grande passione per il calcio, passione che ho ereditato da mio padre, Learco, e da mio fratello, Marco. Sì, esistono caratteristiche si ereditano patrilinearmente, il calcio, nel mio caso, il naso non esattamente alla francese e una tendenza neanche vagamente malcelata a parlare in pubblico.

Ma qui si parla di calcio.

Per farvi capire quanto mio padre fosse e sia tutt’ora appassionato di calcio, della Juventus in modo particolare, vi basti sapere che mio fratello Marco si sarebbe dovuto chiamare Omar, in omaggio al campione di quegli anni, gli anni in cui è nato mio fratello, il 1961, Omar Sivori. A opporsi fu mia madre, e non certo per questioni di tifo, a lei il calcio non è mai piaciuto, o meglio, non le è mai interessato, mio fratello non si è chiamato Omar più che altro perché il nome Omar non le piaceva affatto, infatti mio fratello si chiama Marco, e come mio padre tifa Juventus.

Anche i miei figli tifano Juventus.

Io no, tifo Genoa, e tifo Genoa perché quando ero bambino non potevo giocare a pallone, ma avevo una grande passione per il calcio. Non potevo giocare a pallone non perché la natura me lo avesse impedito, succede, a volte, che non si può, per un qualche problema fisico, di salute, e immagino sia doloroso e spiacevole. Dolorosissimo, anche, perché il calcio è davvero democratico, altrimenti, ci possono giocare ricchi e poveri, e spesso i poveri, la storia del calcio ce lo ha insegnato in tutte le lingue del mondo, giocano anche meglio dei ricchi, abbiamo visto tutti, appunto i Maradona, i Cristiano Ronaldo, lì a palleggiare con arance o palle fatte di stracci. A calcio si gioca in squadre, e nel calcio conta di più il talento di tutto il resto, in una squadra essere socialmente più elevati, anche essere più istruiti, volendo spostare il discorso sul piano culturale, non conta nulla. Però ci sono persone che non possono giocare a calcio, perché hanno impedimenti fisici. Non era il mio caso.

No, io non potevo perché mia madre, quella che decise che mio fratello non si sarebbe chiamato Omar ma Marco, il mio nome non lo decise né lei né mio padre, lo decise più che altro una suora, ma questa è una storia che con il racconto che vi sto facendo non c’entra, non potevo perché mia madre aveva una grande passione per la musica classica. Suo nonno, cioè il mio bisnonno, era stato un direttore d’orchestra, altrove, e in qualche modo questo amore per la musica era arrivato fino a lei, e da lei a me. Esattamente come l’amore per il calcio era passato da mio padre fino a noi figli, l’amore per la musica mi era arrivata matrilinearmente.

La passione della musica di mia madre si era tradotta nel nostro andare a vedere concerti di musica classica molto spesso. Quasi tutte le domeniche, io, lei e mia sorella Caterina, perché ho anche una sorella, sul cui nome però non ho informazioni precise, andavamo nell’Aula Magna del Liceo Classico della mia città a sentire questa o quella sinfonia, questa o quell’opera classica. Normale che, già ai tempi della prima elementare, io chiedessi di imparare a suonare uno strumento, va detto, un po’ spinto dal mio maestro dell’epoca, stupito dal mio intuire che dietro Il lago dei cigni ascoltato in classe, ci fosse una qualche storia tragica. Normale che mia madre assecondasse questa mia richiesta. Così a sei anni ho cominciato a suonare il clarinetto nella Banda della mia città. Andavo in un vecchio edificio del centro storico, il Buon Pastore, ora tirato a lucido, e un signore anziano, con le mani callose e i capelli grigi, mi insegnava come tirare fuori bei suoni da quello strumento di legno nero con l’ancia molto più larga di quella che mia sorella usava per suonare l’oboe. Sì, perché mia sorella suonava l’oboe, ci si sarebbe poi diplomata al Conservatorio Rossini di Pesaro. Lei l’oboe, io il clarinetto, quindi. Solo che il clarinetto non era uno strumento che mi piacesse particolarmente. Non mi piace anche oggi, a dirla tutta. Ho sempre avuto difficoltà a capire cosa mi piacesse, io, sin da piccolo. Ma in genere capisco al volo cosa non mi piace, e ci azzecco quasi sempre. Il clarinetto non mi piace. E non mi piaceva neanche quando lo suonavo. Così ho mollato la banda e le lezioni al Buon Pastore e ho iniziato a studiare violoncello, al Pergolesi, dove oggi si trova la caserma dei vigili urbani di Ancona. Anzi, no, quando ho iniziato io era in un palazzo del corso vecchio, ho cominciato lì, poi si è spostato sopra Piazza Roma e le tredici cannelle, che di Ancona è uno dei monumenti più noti. Ho iniziato a studiare violoncello che avevo sette anni. Sono stato a lungo il più giovane violoncellista marchigiano, con uno strumento piccolo piccolo che il Conservatorio locale presso il quale studiavo aveva fatto arrivare da non so che parte d’Europa. Ero talmente giovane che si sarebbe potuto parlare di me come di un enfant prodige, non fosse che non ero chissà che fenomeno a suonare. Studiavo violoncello col maestro Moscardelli, e solfeggio con la maestra Rosignoli. Il maestro Moscardelli era un tipo basso e tozzo, sembra che il mio destino fosse di avere maestri di musica bassi e tozzi, che abitava esattamente di fronte a casa mia, io al numero 1 di via Vittorio Veneto, lui al numero 2. La cosa non mi rendeva particolarmente felice, perché con la scusa che abitava davanti a casa mia quasi tutti i pomeriggi mi ritrovato a andare da lui a studiare, in una stanza con le tapparelle sempre abbassate e l’aria satura di odore di pece. La pece serviva per far scorrere l’archetto, fatto di crine di cavallo, sulle corde del violoncello, e, fidatevi, puzzava parecchio. Era una sorta di cubetto nero, si dice nero come la pece, del resto, appiccicaticcio. Una cosa il cui utilizzo, a parte il passarlo sulle corde degli strumenti ad arco, mi sfugge. Se anche oggi ripasso davanti a dove abitavo da piccolo, in auto, perché non è zona dove uno capita a piedi, per caso, seppur a due passi dalla piazza principale di Ancona, ecco, se anche oggi ripasso davanti a dove abitavo da piccolo, guardando il palazzo nel quale sono cresciuto, quello dove ho passato la mia infanzia e l’inizio della mia adolescenza, e di conseguenza guardando il palazzo del maestro Moscardelli, immediatamente vengo proiettato in quella stanza buia con la puzza di pece proprio davanti a casa mia. La cosa di abitare proprio davanti al mio maestro di violoncello, del resto, è stato un incubo della mia infanzia, anche perché, e qui torniamo alla mia passione per il calcio, il maestro Moscardelli mi aveva categoricamente proibito di giocare a calcio. “Ti romperesti sicuramente le cartilagini dei polsi,” aveva detto, guardando con aria severa anche mia madre, “non devi assolutamente andare a giocare a calcio coi tuoi amici”. Il che più che altro sembrava una imposizione regia impartita a mia madre, che in maniera molto ligia la metteva in pratica. Non potevo andare a giocare, per non rompere le mie cartilagini.

Facile a dirsi, difficile a farsi, se hai una grande passione per il calcio. Ogni volta che provavo a sgattaiolare fuori per raggiungere i miei amici, impegnati in una di quelle partite che potevano durare anche quattro, cinque ore al campetto del Pincio o della Lunetta, nel mio quartiere, i calzoncini corti e le scarpe da ginnastica già addosso, lui mi faceva segno di no dalla finestra di casa sua, come un giudice impietoso, per una volta quelle cazzo di tapparelle magicamente alzate. Ogni santa volta.

Non è un caso che, complice quella irrequietezza che mi spingeva a cambiare così tante volte idea nel corso del tempo, poi sia passato a studiare pianoforte e che, quando alle medie mia madre mi ha chiesto in maniera ferma, dopo l’ennesima volta che avevo provato a andare a tirare due calci al pallone “Scegli, o il calcio o la musica,” io abbia di nuovo indossato pantaloncini e scarpe da ginnastica e abbia raggiunto in miei amici al campo. Immagine molto romantica, questa, lo so, magari neanche realmente accaduta, almeno in questo preciso susseguirsi di eventi. Resta che io ho mollato il Pergolesi e lo studio del piano, che aveva seguito lo studio del violoncello e prima ancora del clarinetto, proprio per andare a giocare a calcio, il mio primo amore.

Tornando però a quegli anni, il calcio mi era proibito. Non potevo giocare o mi sarei rotto le cartilagini, cosa che in effetti in seguito avverrà con una precisione quasi millimetrica, entrambe quelle dei polsi, più tutta una serie di infortuni che mi vedrà abbastanza di frequente al Pronto Soccorso dell’Umberto I, l’Ospedale che un tempo sorgeva proprio al centro cittadino, e che oggi è un cantiere fermo da anni, l’ipotesi di una sorta di cittadella per ricchi andata a puttane con la velocità della luce.

Niente calcio. Solo musica e musica classica, quindi. In Tv davano però la pubblicità di quello che veniva definito come “il calcio in punta di dito”, il Subbuteo. All’epoca non c’era la rete, noi giovani guardavamo i programmi del pomeriggio a noi dedicati in tv. Il Subbuteo, vedevamo negli spot che nessuno chiamava spot, era un gioco che si faceva su un panno verde, come quello da biliardo, sul quale erano però segnate le linee di un campo di calcio. Su quel campo si disponevano ventidue pupazzetti che rappresentavano i ventidue giocatori di due squadre di calcio, tutti con le loro maglie dipinte addosso, e con una base circolare atta a farli scivolare sul campo e colpire la pallina. I portieri avevano una stanghetta attaccata alla base, una stanghetta che stava oltre la rete della porta, e con la quale si poteva spostare il portiere per parare i tiri degli attaccanti. Ogni giocatore, si giocava in due, poteva colpire la palla dando una schicchera, come dalle mie parti si chiama un colpo dato con la punta del dito, una schicchera sulla base di un pupetto. Ogni giocatore poteva toccare la palla per un massimo di tre volte. Le regole erano ovviamente molto più complesse, non credo sia interessante descriverle qui per filo e per segno.

u. Tutti i miei amici che, come me, comprarono il Subbuteo, volevano la Juventus. Sì, perché ovviamente già allora avevo una certa capacità oratoria, mi piaceva parlare, oggi il mio lavoro è parlare e scrivere di musica, pensate l’ironia del destino, e questa mia capacità spinse molti dei miei amici a comprare il Subbuteo. Tutti volevano la Juventus. Al secondo posto delle squadre più ambite c’era la Sampdoria. La Juventus perché vinceva sempre, un po’ come negli ultimi anni. La Sampdoria per la maglietta da ciclisti, a strisce orizzontali, una maglietta che a molti sembrava bellissima.

Io non potevo giocare a calcio. Ero il bisnipote di un direttore d’orchestra che però non avevo mai conosciuto. Vivevo in un quartiere di bambini molto più ricchi di me, cosa che in qualche modo mi faceva sentire un passo indietro a loro. Così decisi che avrei scelto una squadra che nessuno voleva, e che da quel momento per quella squadra avrei tifato. Tutti volevano la Juventus, e io ero juventino per eredità paterna e fraterna. Tutti volevano la Sampdoria. Bene, io avrei tifato per l’altra squadra di Genova, quella con la maglia divisa a metà, rossa e blu. Avrei tifato Genoa. Da quel momento, oltre che a studiare per scuola e studiare violoncello, inizia a passare i miei pomeriggi chino su quel panno verde, a esercitarmi con il Subbuteo. Presto sarei diventato un piccolo campione, e il mio Genoa si sarebbe preso delle rivincite sulla realtà, dove il Vecchio Grifone, così viene chiamata quella che è la squadra più vecchia d’Italia, da decenni non vince più nulla. Col tempo sono arrivato addirittura a partecipare ai campionati nazionali, arrivando secondo, in una occasione. Sempre col Genoa, in barba a quanto succedeva nel mentre nella vita reale.

Dalle medie ho anche iniziato a giocare a calcio, diventando anche bravino e diventando una buona ala sinistra, io che sono ambidestro. Ho smesso perché quando i miei figli gemelli, Francesco e Chiara, avevano appena tre mesi, mi sono fatto molto male durante una partita con amici, e a quel punto è stata mia moglie a sancire la fine della mia carriera. La musica è tornata a occupare quasi tutto il mio tempo, sono un critico musicale, è il mio mestiere ascoltarla.

Oggi il mio campo da Subbuteo e alcune delle mie squadre, quelle che sono sopravvissute agli anni e alle cure di mio nipote Davide, il figlio di mia sorella, sono diventate di mio figlio Francesco. Ha una scatola piena di pupazzetti dipinti a mano da me, usando uno stecchino come pennello e gli smalti da modellismo come colori. Man mano che la mia passione per il calcio ha cominciato a sublimarsi col Subbuteo, infatti, ho iniziato a lavorare sulle mie squadre, non solo dipingendole a mano, per dire, facevo i baffi ai pupetti dei calciatori che avevano realmente i baffi, scrivevo i loro nomi sulle basi, basi che toglievo tramite una limetta da unghie per riempirla con piccoli pesi da pesca e mastice, così da rendere i pupazzetti più pesanti, pesantezza che, grazie anche all’uso che facevo di Legnovivo per rendere la parte sottostante particolarmente liscia, erano in grado di compiere traiettorie perpendicolari a velocità molto alte. Chi partecipava ai campionati nazionali giocava in questo modo, era una sorta di doping consentito, e del resto assai poco dannoso sul piano fisico, sempre che non si voglia pensare che quel nostro passare le giornate a dipingere le squadre influisse sulla nostra vista.

Francesco, mio figlio, ha queste squadre, ma presta assai poco interesse alla manifattura che si ritrova per le mani, oggi è tutto più usa e getta. Del resto lui non suona neanche nessuno strumento, nonostante io per lavoro ascolti sempre musica e conosca praticamente tutti i cantanti. Mi sono guardato bene dal suggerigli caldamente di studiare uno strumento, le ore passate nella penombra della sala del maestro Moscardelli, l’odore di pece a riempire l’aria, ancora me le ricordo con angoscia. Se vorrà, da più grande, imparerà a suonare qualche strumento da solo, a casa ce ne sono una decina, tra chitarre, bassi, pianoforti e ukulele, ha davvero l’imbarazzo della scelta. A pensarci bene forse dovrei dirgli che non può suonare nessuno strumento perché altrimenti non potrebbe giocare a calcio, proibirmi di giocare a calcio mi ha fatto diventare un campione di Subbuteo, con me ha funzionato, la necessità aguzza l’ingegno, ve l’avevo detto, no?

Io ho smesso di suonare parecchi anni fa. Anche di giocare a calcio, poco dopo, del resto. Ho smesso di suonare quando ho iniziato a frequentare musicisti molto più bravi di me, ma soprattutto quando ho capito che era nella scrittura che riuscivo a esprimermi al meglio, che era cioè più nelle parole che nelle note che mi muovevo a mio agio. Continuo spesso a ragionare in termini musicali, provando a guardare alle parole che metto sulla pagina, seppure una pagina virtuale, come si fa con le melodie e le armonie che quelle melodie vanno a sostenere e a rendere possibili, mettendo nelle strutture che imbastisco anche la dinamica, con cambi di intenzione in quel che dico e, di conseguenza, per come penso che le cose che scrivo vadano lette, il ritmo che ovviamente è una parte essenziale del tutto. Il mio passaggio dalla musica suonata alla parola scritta è stato piuttosto indolore, anche perché nei primi anni in cui questo passaggio è avvenuto, a metà degli anni Novanta, le due cose sono andate avanti in parallelo, finché la musica suonata è in qualche modo uscita di scena lasciando tutto lo spazio necessario alla scrittura. Questo mio arrivare dalla musica, in quel periodo, ha contribuito, magari un po’ anche col mio aspetto fisico, a donarmi una caratterizzazione tridimensionale, sin dal mio esordio ero “quello coi capelli lunghi che suonava in una band punk, che faceva il dj”. In realtà il dj, intendendo con questo quello che mette i dischi in discoteca, siamo negli anni Novanta, è un fraintendimento. Ho fatto lo speaker in radio, lo faccio ancora, e gli speaker in radio all’epoca si chiamavano dj, la radio più nota era Radio Deejay, appunto, e una volta ho anche messo i dischi, perché si usavano ancora i vinili, a una grande festa di carnevale, con migliaia di persone che ballavano, presso l’Aula Magna di Ingegneria della mia città, ma non sono mai stato un dj. Così è stato però scritto nelle note biografiche del mio primo libro, furibonde giornate senza atti d’amore, e così ha scritto parlando di me nel libro Gli Scarti Paolo Nori, uno che, come me, ha fatto un ampio uso di autobiografismo, posso quindi a tutti gli effetti dire di essere stato un dj.

Da allora, parliamo della metà degli anni Novanta, anche se il mio esordio è arrivato alla fine del 1997, ho continuato a scrivere, diventando di volta in volta, reperter, critico musicale, biografo, ma anche autore tv, autore radiofonico, sceneggiatore per il cinema e autore di piece teatrali. Ho pubblicato quasi tutto quello che ho scritto, e le rare volte che quello che ho scritto, finendo poi per pubblicare anche canzoni. Le hanno incise altri, ovviamente, perché come vi ho detto non suono più e non canto più da tanti anni, ma da Marco Carena a Alice Paba, da Jessica Lombardi a Giovanna Lubjan, diverse mie canzoni sono finite incise e pubblicate, senza tirare di nuovo in ballo il disco delle Bikinirama, che è a tutti gli effetti un mio album.

Oggi, proprio oggi, esce quello che sarà l’ottantesimo titolo della mia bibliografia, bibliografia che comprende tutti i libri che ho scritto, ma anche quelli che ho cofirmato o a cui ho collaborato. Ottanta è un numero importante, di quelli che in qualche modo mi inducono a fermarmi un attimo e pensare. Quando nel 2012 è uscito il mio quarantesimo libro, Una Notte Lunga Abbastanza, terzo romanzo incentrato proprio sui miei anni Novanta che andava a comporre, con Questa Volta Il Fuoco e Anime @ losanghe la triologia che solo recentemente è arrivata in un unico volume in libreria col titolo Avrei Voluto Tutto, ho voluto festeggiare con un evento speciale a teatro. Una serata presso il bellissimo Teatro Civico di Vercelli. Con me ho voluto chiamare amici di lunga data, che hanno in qualche modo fatto da colonna sonora a un reading che ha avuto me e Ambra come voci narranti. L’Aura, Alberto Fortis, Marco Ferradini e sua figlia Marta, Andrea Mirò, anche lei ha inciso una mia canzone, a pensarci bene, Quello Che Gli Occhi, Francesco Renga, a presentare il mio socio e amico fraterno Gianni Biondillo. Una serata importante, di festa e di spettacolo. Stavolta non potrei anche volendo festeggiare alcunché, perché siamo ancora in questa anomala situazione di semi lock down, seppur Milano da pochi giorni è diventata zona Arancione. Vi invito quindi a festeggiare simbolicamente con me, a distanza. Ah, il libro si intitola Let Them Talk, lo firma Cremonni, ci sono anche io, esce per Mondadori. Enjoy.