L’ultima volta che Diego Armando Maradona e il cinema si sono sfiorati è stato pochi mesi fa, quando il suo avvocato annunciò di star valutando la possibilità di una querela contro Netflix e Paolo Sorrentino, per diffidare il regista dall’usare immagini del calciatore nel suo prossimo lungometraggio, È Stata La mano Di Dio, che nelle intenzioni del regista dovrà essere “un film intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e doloroso“. Un racconto autobiografico dunque e non certo un film sul Pibe de Oro: ma tanto bastò per mettere in allarme l’entourage dell’ex campione.
Adesso che Diego Armando Maradona è scomparso, è ancora maggiore la curiosità verso il ruolo che potrà rivestire nel prossimo film del regista napoletano. Probabilmente solo simbolico, e quindi in assenza, come s’addice a un’icona che, persino banale dirlo, è stato molto più di un calciatore e poco meno di una divinità, almeno per il suo popolo napoletano e argentino. E le divinità, si sa, fanno sentire ancor più la propria potenza sottraendosi allo sguardo, mantenendo il proprio mistero e la propria invisibilità.
Il rapporto tra Diego Armando Maradona e il cinema è stato spesso nel segno dell’assenza, in film che finivano più che altro per alludere al calciatore, quasi a propiziarne l’apparizione, senza riuscire fisicamente ad ottenerla. È una sorta di curioso paraMaradona Paulo Roberto Cotechiño, “imperioso centravanti di sfondamento” di una tarda e scombiccherata commediaccia del 1983 con Alvaro Vitali, in vistosa parrucca riccioluta (però bionda) e maglia del Napoli. In realtà Cotechiño, fuoriclasse italo-brasiliano, inizialmente s’ispirava a Paulo Roberto Falcão che però, letto il copione, diffidò dall’uso della sua immagine e della casacca della Roma. Allora nel film diventò un calciatore del Napoli, sebbene Maradona sarebbe arrivato nella terra di Partenope solo un anno dopo, nel 1984. Quasi un vaticinio. Potenza del mito, capace di anticipare la sua stessa venuta.
Altro incontro mancato quello di un film pensato per celebrare in presa diretta i fasti del Napoli del primo scudetto del 1987, Quel ragazzo Della Curva B, in cui Nino D’Angelo, ai tempi del suo caschetto biondo, interpreta il supertifoso di buon cuore in lotta contro la violenza e la camorra. Ci doveva essere anche Diego Armando Maradona: ma il Pibe de Oro, come spesso gli capitava, chiese uno sproposito, e non se ne fece nulla. E così il film, nonostante le presenze di campioni come Bruscolotti, Carnevale, Giordano, ne uscì fiacchissimo.
Maradona aleggia anche in un altro cult popolare degli anni Ottanta, L’Allenatore Nel Pallone (1984) con Lino Banfi. Basta che il presidente della Longobarda durante il calciomercato dica al mister Oronzo Canà di essere in procinto di acquistare il fuoriclasse argentino per far cadere il poveretto svenuto all’istante. Giusto il tempo di un’esclamazione geniale, “Maradonna benedetta dell’Incoronata”, che nel congiungere sacro e profano descrive perfettamente il mistero sovrannaturale di cui è circonfusa la figura del calciatore più talentuoso della storia. E tra sacro è profano è il titolo ammiccante Santa Maradona (ripreso dalla canzone dei Mano Negra), che col filmetto giovanilistico del 2001 con Stefano Accorsi sulle insicurezze della generazione dei trentenni non c’entra nulla. Ma, appunto, basta solo il suo nome per evocare una potenza che trascende anche il cinema.
Qualche anno dopo poi Nino D’Angelo potrà coronare il suo sogno, in Tifosi (1999), di Neri Parenti, in un episodio nel quale, costernato, scopre di star derubando l’appartamento del suo idolo. Sarà pur vero, come spietatamente asserisce il Dizionario Mereghetti, che “fa male vedere il grande Pibe de oro che recita con l’espressività di uno zampone di Modena”. Ma non si può misurare l’apparizione di Maradona con il metro della buona recitazione. La sua sola partecipazione fa vibrare lo schermo, persino se completamente dissonante con un contesto filmico già di suo dimenticabilissimo. Lui è lì, e tanto basti.
Un dato questo, la potenza mistica della sua presenza, che ha capito benissimo Paolo Sorrentino. Che nel sanatorio di Youth (2015) improvvisamente fa comparire un grassissimo Diego Armando Maradona, interpretato da Roly Serrano, che s’affanna e cammina a stento aiutandosi con una bombola per l’ossigeno. Ma palleggia ancora da Dio: e tutti lo guardano come si guarda un fenomeno della natura, un animale fantastico, una reliquia, un prodigio. Qualcosa che non è di questo mondo: e infatti la pallina da tennis la scaglia verso il cielo.
A proposito di Diego Armando Maradona e il cinema, d’altronde, quale maggior prodigio cinematografico (e poetico) del suo gol, IL gol, all’Inghilterra ai mondiali del 1986, in cui dribblò l’intera squadra avversaria. Una magia, un effetto speciale che, anche a rivederlo, non sembra vero e che di diritto appartiene non alla realtà ma al grande schermo. Una sequenza che, oltretutto, realizza il grande auspicio di Pier Paolo Pasolini, poeta cineasta e calciatore, che aveva scritto: “Il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai”. E invece…
Il calciatore poi è stato raccontato in un film biografico di piatta correttezza quasi televisiva, Maradona – La Mano Di Dio (2007) di Marco Risi, che ne segue scolasticamente fino al Duemila l’ascesa e la caduta, il trionfo ai Mondiali del Messico e la schiavitù dalla cocaina, le frequentazioni malavitose e i problemi familiari. Nulla di più di quello che già non si sapesse di uno degli uomini più inseguiti dai media che la storia ricordi. E peccato per la generosa interpretazione di Marco Leonardi.
Un documentario curioso e affettuoso, anch’esso in assenza, è Maradonapoli (i giochi di parole che fanno la crasi tra Maradona e qualcos’altro non si contano). Nel quale, a molti anni di distanza – il film di Alessio Maria Federici è del 2017 – sono i napoletani stessi a essere interpellati per rivivere e raccontare tutto quello che il fuoriclasse argentino ha rappresentato per loro e per la città, a rinnovare un legame quasi mistico tra l’uomo e il suo popolo eternamente riconoscente. E dopo la sua morte, è facile prevedere che un’operazione di questo genere sarà ripetuta.
Nel rapporto tra Diego Armando Maradona e il cinema però, tralasciando i tanti resoconti strettamente calcistici che ne omaggiano le gesta in un tripudio di highlights, a offrirne un’immagine autentica sono i due documentari di Emir Kusturica e Asif Kapadia. Il regista serbo in un film che ha l’impudenza di intitolare Maradona di Kusturica (2008), osando mettersi allo stesso livello del Pibe de Oro, racconta un’amicizia tra due uomini bigger than life che si stimano e vogliono bene. Non è un’agiografia, c’è spazio anche per la tossicodipendenza. E lo stile frammentato del regista, grazie a una narrazione volutamente disordinata, restituisce appunto il disordine e la vitalità di un calciatore (un artista) generoso, avventato, indifeso, che si lancia in dichiarazioni pro Cuba, Castro, Chavez e rilancia i suoi strali contro il nemico di sempre, il politicante Sepp Blatter. Un film scomposto e diseguale che di Maradona coglie lo spirito e le contraddizioni, con amore grandissimo e senza infingimenti.
Chirurgico e analitico invece è il lavoro di Asif Kapadia nel bellissimo Diego Maradona (2019), visibile su Netflix, che partendo da sterminati materiali d’archivio (500 ore) in gran parte inediti costruisce un racconto degli anni napoletani del calciatore. Il film comincia con una macchina che sguscia a folle velocità tra le strade: ma non è l’inseguimento di un poliziottesco anni Settanta, si tratta dell’auto del servizio d’ordine che accompagna Maradona al San Paolo il giorno in cui viene presentato alla città nel 1984 (anche questa, un’ostensione che ha a che vedere col sacro). Il montaggio continua serratissimo secondo questo stesso principio di urgenza narrativa, descrivendo il calciatore e il mondo asfissiante che gli gira perennemente intorno, i corpi della gente che vuole essergli vicino, toccarlo, venerarlo. “Ai napoletani non interessa dei figli, della mamme, vivono per il Napoli”, commentava sgomento Diego Armando.
Quella venerazione, è storia nota, lo distrusse emotivamente e fisicamente, insieme alle pessime abitudini e le pessime frequentazioni. Ma lui con l’usuale generosità per quella comunità si immolò, sacrificando la sua salute fisica (le continue infiltrazioni cui si sottoponeva per poter giocare) e mentale per offrire al suo popolo l’occasione di riscatto che attendeva da decenni – “Sentivo di rappresentare una parte dell’Italia che non conta nulla”, disse.
Il film racconta un’anima divisa in due: Diego, l’adorabile ragazzo argentino venuto dalla poverissima cittadina di Villa Fiorito. E Maradona, la maschera difensiva, capricciosa e autodistruttiva, che quel ragazzo ha indossato per venire a patti con una fama fagocitante. Il Pibe de oro appare come una divinità intossicata dal culto esorbitante di cui è stato oggetto, che ne ha fatto esplodere le contraddizioni e l’umanissima fragilità. Tutto questo nel film di Kapadia emerge con chiarezza. Anche perché Maradona tra i suoi numerosi talenti non ha mai avuto quello della dissimulazione. Per questo probabilmente ha sempre cercato di evitare che lo sguardo della camera si indirizzasse su di lui: non sarebbe riuscito a nasconderle la sua dolorosa verità.