Tennis, Tv, trigonometria, tornado e la genialità della musica degli Sparks

Sto cercando una via d'uscita ora che questo incubo del lockdown è tornato ad occupare le nostre giornate


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Mi affaccio dalla finestra, che per buona parte della giornata non è solo una finestra, ma una vera e propria porta di accesso al mondo là fuori, una sorta di Stargate che però non ci proietta altrove, ma semplicemente dove solitamente eravamo soliti stare in carne e ossa. In realtà non ho finestre in casa. Non perché viva recluso, ma perché ho porte finestre praticamente in tutte le stanze. Ciò non cambia lo stato delle cose. Mi affaccio di lì, se non è freddo, troppo freddo, vado su uno dei balconi, e quello è il mio punto di contatto col mondo. Oltre a quello che un tempo avremmo chiamato virtuale, la rete, e che oggi è diventato parte integrante del nostro rapportarci con gli altri e col mondo, i social sono diventati pervasivi. Questo succede perché il vivere in una zona rossa, e il voler seguire le indicazioni che alla zona rossa sono applicate, mi ha privato della possibilità di fare tutto quel che solitamente facevo, a parte andare a portare e prendere i miei figli piccoli a scuola, i grandi fanno la DAD, e andare una volta ogni tot giorni a fare la spesa. Lo so, potrei approfittare di maglie decisamente più larghe, e uscire con una certa costanza. Di più, visto il lavoro che faccio potrei anche andarmene a spasso, nel mio lavoro è contemplato anche raccontare quel che succede in giro, ma onestamente sono dell’idea che essere furbi non ci porterà molto lontano, in questo momento. Per cui mi affaccio alla finestra e guardo il mondo, un po’ come cantava Gianni Togni in quella sua pregevole canzone che porta il titolo di Luna, solo che lui parlava di oblò non di porte finestra.

Del resto c’è una famosa frase, attribuita a più autori, ma mi par di capire nata dalla mente e dalla penna oscuramente illuminata di Joseph Conrad, nella quale il nostro spiegava alla moglie che “anche quando guardo dalla finestra sto lavorando”. Parole sante. Lavoro mentre guardo dalla finestra. Lavoro quando guardo la TV, su questo David Foster Wallace ha scritto un illuminante saggio contenuto in “Tennis, Tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)”. Lavoro quando sto sui social, sia che intervenga sia che mi limiti a guardare il mondo da lì. Lavoro quando vivo, quando cioè lascio che gli input esterni, qualsiasi tipo di input certo, anche se poi pratico una selezione non tanto all’ingresso quanto all’uscita, decidendo da cosa lasciarmi travolgere, di cosa scrivere, mi avvolga e mi lasci segni addosso.

In questi giorni non ci sono più input esterni, per dirla con Neffa “nessuno chiama e non so chi chiamare”. O meglio, gli input ci sono, ma sono tutti della medesima fattura, tutti uguali, tutti cupi, catastrofici, di morte. Meglio forse non lasciarsi avvolgere dalla morte, mi dico, lasciando per una volta che metafora e reale coincidano.

Solo che se uno decide di far coincidere il mondo esterno con se stesso, non avendo un mondo esterno a disposizione, o non avendone uno accettabile, il rischio di scivolare non solo nell’egoriferimento, ma addirittura nella follia è talmente alto da diventare di difficile gestione.

Un bel dilemma, direi, sapendo che considerare dilemma da che parte andare a pescare input nel momento in cui c’è una fetta consistente di popolazione che non sa dove andare a pescare il pane. Fatto, questo, che finirà nel calderone dell’annosa discussione sul ruolo degli intellettuali, così scollati dal mondo, e via di “con la cultura non ci si mangia”, via di “professoroni”, via di “ecco perché i populisti si prendono i voti delle periferie”, “radical chic di merda”. Chiariamo subito un punto, per me fondamentale, di questa discussione a me non frega nulla. Fossi tra quanti ritengono che le rose non siano necessarie quanto il pane, direi che è quasi superfluo star qui a sottolinearlo, non avrei scelto di dedicare la mia vita alle parole e per di più spesso e volentieri per raccontare la musica. Sono fermamente convinto che le parole abbiano un peso quantificabile, né più né meno come qualsiasi oggetto, pane compreso, anche se non credo ci sia da nessuna parte una unità di misura a riguardo.

Quindi torno a guardare dalla finestra, la porta finestra, il balcone, e poi torno a consultare la rete, i social nello specifico, ma anche siti e quotidiani online, cercando stimoli che difficilmente trovo. E li trovo ancor più difficilmente perché quella che prima era una quotidianità ora è stata sostituita da un’altra quotidianità, il vivere reclusi, che prevede nuove regole e nuovi tempi, oltre che nuovi attori.

È dal 2005 che lavoro in casa. Nel senso che è dal 2005 che non ho più un mio ufficio, un ufficio fisso. Certo, ho avuto uffici e luoghi che ho frequentato con costanza per lavoro, dalle redazioni di alcuni giornali, pochi in realtà, perché ho sempre cercato di tenermi distante dalle logiche delle redazioni, dopo averci lavorato per anni, a quelle delle radio e delle televisioni per le quali ho scritto e presentato programmi, da MTV a Rtl 102,5 passando per Pop Economy e altre, passando per le scuole di musica presso le quali ho tenuto i miei workshop e altri luoghi altrettanto popolati di gente, gli studi di registrazione.

Ma casa è diventato il mio ufficio. Una scelta, la mia, appunto. Il non voler avere un ufficio nel quale andare. Il non voler avere colleghi da incontrare con metodicità. Il non avere capi, anche, se non momentanei e comunque non nella possibilità di trattarmi da dipendente.

Casa è il mio ufficio dal 2005. Un ufficio nel quale passo le giornate, in questo lasso di tempo ho scritto, e pubblicato, oltre settanta libri e qualche migliaio di articoli, figuriamoci se non passo del tempo a casa, consapevole di poter uscire come e quando voglio, uscire è parte del mio lavoro, e di avere anche posti nei quali andare nel caso di bisogno, anche posti nel quale non andare, volendo, seppur ne avrei bisogno, vi ho già parlato più volte di quanto io mi tenga alla larga dalle conferenza stampa e dalle round table. Casa, quindi, è il mio ufficio. Solo che è sempre stato solo il mio ufficio. Non uno spazio di co-working per citare qualcosa molto di moda a Milano negli ultimi anni, proprio l’ufficio mio e basta. Per anni ho passato le giornate da solo. Almeno fino al ritorno da scuola dei miei figli, e poi quello di mia moglie. Certo, finché non sono arrivati i gemelli, nove anni fa, capitava che saltuariamente venisse a trovarci per un po’ di tempo mia suocera, ma io avevo i miei spazi, spazi miei e miei soltanto. Poi, appunto, sono arrivati i gemelli, mia suocera si è trasferita da noi con più costanza, per darci una mano, mia moglie ha avuto modo di usare parte della sua maternità, insomma, per un certo tempo non sono poi stato così solo. Poi i gemelli sono cresciuti, sono andati alla materna e poi alle elementari, e io ho ripreso a vivere i miei spazi, casa mia, come il mio ufficio.

Questo fino a febbraio. Perché da quel momento casa è diventata l’ufficio anche di mia moglie, oltre che la scuola dei miei figli più grandi. Anche il rifugio di mia suocera, per altro. Da solo che ero siamo diventati, fissi, almeno cinque, coi gemelli i soli a uscire per andare a scuola, durante la settimana. Poi tutti a casa, ogni singola ora. Questa cosa, il fatto di non avere la possibilità di staccare mai, di passare come se niente fosse dal luogo in cui lavori al luogo nel quale vivi la vita familiare, al luogo nel quale ti rilassi, ha un suo peso, e lo dico consapevole di vivere una vita privilegiata, di chi cioè ha spazi che magari tanti altri non hanno. Lungi da me l’affrontare poi le differenza tra work at home e smart working, di come, cioè, nel 99% dei casi il lavorare a casa, parlo soprattutto di chi in genere non lo faceva, i lavoratori dipendenti abituati a una presenza in azienda, lo smart working tutto sia tranne che smart, molte più ore di lavoro, senza stacchi, magari anche nel weekend, con una richiesta di performatività che spesso si mangia anche quei tempi morti necessari per ricaricarsi.

Lo so, sto facendo quello che si lamenta, quello che, immagino, agli occhi di alcuni si lamenta nonostante abbia la pancia piena e il culo al caldo.

Sono a mio modo una rockstar, lo sono nel mio ambito, quindi avendo proprio pochi giorni fa sottolineato come star lì a fare il piagnone, alla Tiziano Ferro, sia esattamente la negazione del concetto di rockstarritudine, non starò qui a dire come la fine neanche troppo lontana del mondo dello spettacolo, quello degli amici artisti che ci fanno divertire e emozionare, riguardi molto da vicino anche me, come la crisi dell’editoria e più in generale quel senso di incertezza che sta spingendo molti se non tutti, temo a ragione, a non partire con nuovi progetti, anzi a aver abolito in toto l’idea di progettare. Non è questo il punto, sempre che in effetti ce ne sia davvero uno.

Il punto è che guardare fuori dalla finestra, la porta finestra, la finestra virtuale dei social, toh, anche la televisione, come se il discorso fatto da David Foster Wallace fosse ancora attuale, non basta.

Mi mostra un loop, e un loop può essere interessante per un tempo determinato, non all’infinito (seppur il loop tenda, per sua natura, a procedere all’infinito). Non ho mai capito gli trainspotter, per dire, e in tutti i casi quelli raccontati da Irvine Welsh, mica a caso, si facevano di eroina.

Dovrei, forse, ricorrere a sostanze psicotrope per poterne trarre una qualche tipo di stimolo, scivolare nella psichedelia, ma non è un campo che mi interessa, non mi ha interessato fin qui e non credo cambierò idea superati i cinquant’anni.

Allora, siccome non è possibile trovare stimoli nel mondo esterno, che ci è in qualche modo precluso, e soprattutto nell’oggi, cupo e lineare nel suo incedere verso il precipizio, non mi rimane che cercare confortevole rifugio nella musica e nella musica che, riuscita nell’epica impresa di andare fuori dal tempo, è di ieri ma potrebbe essere serenamente di oggi come di domani.

Prima che questo incubo tornasse a occupare militarmente le nostre giornate, prima cioè che si riparlasse di lock down, con tanto di paternalismi agghiaccianti come il permesso ventilato di vedere i propri cari a Natale, le risposte alle letterine dei bambini, avevo preso l’abitudine di accompagnare gli spostamenti in auto con una colonna sonora particolarmente a me cara, gli Sparks. Li ho sempre considerati, e li considero tutt’ora, una delle realtà più interessanti a livello mondiale, intrisi di una genialità debordante, al pari di un Elvis Costello, degli XTC di Andy Partridge, di Frank Zappa, vari e sorprendenti a ogni loro uscita, che si tratti di flirtare col pop o con la classica, di creare armonie degne dei Beach Boys o di intuire soluzioni inusitate, con cambi di ritmo, di melodie, a volte addirittura di generi all’interno della stessa canzone. Cosa che ha del miracoloso, credo, gli Sparks sono la band preferita dei miei figli più piccoli, i gemelli di nove anni Francesco e Chiara. Erano loro a chiedermeli, mentre magari andavamo a fare una scampagnata nel weekend, o si andava al parco per passare un po’ di tempo all’aria aperta e senza troppa gente intorno.

Ecco, credo che gli Sparks, al secolo Ron e Russel Mael, fratelli che nel lontano 1972 hanno dato vita a una band che si potrebbe serenamente definire seminale, tanti epigoni hanno provato a imitarli, senza riuscirci, nei decenni a seguire, siano perfetti per provare a trasportarci davvero altrove in questi giorni mesti. Questo del resto a volte, spesso se non sempre, è chiamata a fare l’arte, sublimare il dolore, indicare il bello, curare e al tempo stesso creare turbamento, creare mondi bellissimi e terribili. Gli Sparks sono capaci di tirare fuori dal cilindro canzoni che sono mondi, non storie, attenzione, anche quelle, ma veri e propri mondi, universi lontanissimi, piedi di suggestioni, personaggi buffi, terribili, non fatemi cadere nel cliché della provocazione punk di ostentare i baffetti alla Hitler di Ron, sto provando a volare un po’ più in alto, canzoni che sono la quintessenza del punk rock, quella frangia di punk rock che attinge anche a suoni sintetizzati, penso agli Stranglers, ma non solo loro, ma al tempo stesso sono talmente orecchiabili e perfettamente confezionate da suonare pop, come nei fatti solo gli inglesi sembrerebbero saper fare (gli Sparks sono americani, badate bene). Musica molto complicata, con passaggi di tono, cambi di ritmo, armonie sulla carta improbabili che però si reggono in piedi andando a sostenere melodie spesso martellanti, che ha però il raro dono, rarissimo dono, di suonare semplice, al punto da poter piacere molto a due bambini di nove anni. Certo, lo dico senza autocompiacimento, i miei figli magari possono anche essere piccoli ascoltatori educati a un certo tipo di musica, non lo nego, ma resta che poi hanno gusti spesso e volentieri, volentieri per loro, tipica di quell’età, amano ascoltare quei tormentoni estivi che io non ascolterei neanche se costretto da qualcuno che mi sta puntando un bazooka alla tempia, sono figli di questi tempi. Ma amano gli Sparks, a Francesco, per dire, piace particolarmente Girl from Germany, dall’album A Woofer in Tweeter’s Clothing, del 1973. A Chiara Achoo, dal successivo Propaganda, del 1974, in mezzo il loro capolavoro assoluto, sempre che non siano tutti capolavori i loro, Kimono My House, Dio che anni d’oro che hanno vissuto i fratelli Mael. Io adoro tutta la loro produzione, senza cedimenti alcuni, roba che neanche Lou Reed o David Bowie si sono potuti permettere nelle loro pregevolissime carriere, ma non nego che, intellettualmente, ho adorato alla follia un progetto come Plagiarism, datato 1997, nel quale i due fratelli pazzi hanno reinterpreto e fatto reinterpretare parte del loro repertorio, con le presenze gigantesche di nomi quali Jimmy Sommerville, già dei Bronski Beat e dei Communards, Mike Patton, di troppe band fondamentali per poterle citare tutte, gli Erasure o Giorgio Moroder. Un tentativo di autoplagio, il loro, questo ci indica il titolo, tirando in ballo teorie situazioniste che nel mentre avevano attecchito su più piani intellettuali, da William Burroughs e Brion Gysin fino a Bill Drummond e i suoi KLF, ma anche l’arrogantissimo gesto di prendere alcune canzoni scelte tra album che avevano avuto minori riscontri di pubblico per andare a fare un album di fatto nuovo di zecca, la dance a fare capolino tra i colori della loro tavolozza. Ecco, gli Sparks credo non abbiano lasciato fuori dai loro esperimenti musicali nessun genere, sempre andando a portare un loro punto di vista personale, e siccome non sono ovviamente dell’idea che chi spazia tra i generi lo fa perché non ne ha uno proprio, idea ben espressa in quel Boris che sto citando forse un po’ troppe volte, ultimamente, direi che anche questo finisce per essere segno di un genio musicale, chiamatelo anche solo talento, non a caso molto amato e seguito, se non imitato, da nomi quale il già citato Bowie, ma anche da un Brett Anderson degli Suede o da un Morrissey degli Smiths. Non è un caso l’averli messi allo stesso livello di un Elvis Costello, uno nato dal punk ma capace di andare a lavorare tanto con un Paul McCartney quanto con un Burt Bacharach, oltre che con la London Symphony Orchestra, o con quei geni pazzoidi di Andy Partridge e Frank Zappa, rockettari, certo, ma decisamente non solo questo. Anzi, molto più di questo.

Non bastasse, i fratelli Mael vengono giustamente annoverati non solo come proto-punk, presto diventati new waver, ma anche come a tutti gli effetti glam rocker, quei baffetti appena accennati qualche riga sopra solo l’ennesimo tentativo, forse il più riuscito, di sfregiare la Monnalisa della cultura pop, un po’ come raccontato da Ivan Graziani nella sua canzone dedicata a una delle hit del rinascimento, lasciatemi giocare un po’ con le parole.

Ecco, per qualche minuto, in effetti, sono stato proiettato altrove, in un posto lontano, folle, bellissimo, lunga vita agli Sparks.