Tonya, la storia vera della pattinatrice che sconvolse il mondo

Su Rai Tre alle 21.20 Margot Robbie è Tonya Harding, squalificata a vita per il complotto ai danni della rivale Kerrigan. Un film sulla stupidità umana e i conflitti di classe. E su un paese che ha bisogno di idoli da amare e bersagli da odiare

Tonya

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Tonya (I, Tonya, 2017) è una storia di cadute senza redenzione, di rapporti spezzati che non si ricuciono, di colpe cui non è possibile porre rimedio. Sorprende quasi che si sia atteso così a lungo per trarre un film da una vicenda vera talmente paradigmatica da sembrare già di suo una sceneggiatura. Tutto ruota intorno a Tonya Harding, sgraziata, povera, provinciale, che ostinatamente cerca di primeggiare in uno sport, il pattinaggio artistico, che per definizione pretende reginette smorfiose e aggraziate e punisce con l’esclusione chi non si conforma al modello richiesto. E allora tutti, compresi giudici di gara e soprattutto stampa e tv, all’inizio degli anni Novanta, quelli della miglior squadra di pattinaggio artistico che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, parteggiano apertamente per l’elegante Nanci Kerrigan, contribuendo a creare a tavolino una rivalità, che in termini mediatici si vende benissimo, col suo esatto contraltare Tonya Harding.

Il caso volle, o forse il destino, o meglio ancora la stupidità umana, che l’entourage ruotante intorno alla Harding, comprendente Jeff Gillooly il marito manesco, Shawn Eckardt la guardia del corpo mitomane e Shane Stant, lo sbandato che ne fu l’esecutore materiale, escogitò il più improbabile dei complotti per mettere fuori gioco la Kerrigan, che venne ferita a un ginocchio durante gli allenamenti per i campionati americani. La Harding sapeva? Lei alla fine – dopo le Olimpiadi invernali del 1994 di Lillehammer, cui partecipò, con modesti risultati, dopo aver minacciato di intentare una causa milionaria – fu costretta a pagare una multa salata per evitare il processo, con squalifica a vita della federazione di pattinaggio, che le tolse anche il titolo nazionale vinto nel 1991.

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  • Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan (Actors)

La vicenda, già incredibile di suo, diventa ancora più ingarbugliata nelle mani del regista Craig Gillespie. Il quale mescola le carte, trasformando il caso in un apologo sulla menzogna e l’ambiguità, nel quale è difficile distinguere vero e falso e distribuire le colpe. Il film infatti, come recita una didascalia in apertura, è “basato sulle interviste prive di ironia, apertamente contraddittorie e totalmente vere rilasciate da Tonya Harding e Jeff Gillooly“. Ed entrambi, interpretati da Margot Robbie (anche coproduttrice di un film che ha l’intelligenza di non sagomare narcisisticamente su di sé) e Sebastian Stan, disorientano lo spettatore guardandolo dritto negli occhi, mentre gli dicono che le scene cui sta assistendo sono, di volta in volta, corrispondenti alla realtà oppure completamente false.

L’assunto di Tonya, marcato pure con troppa insistenza, è che si tratti di una vicenda plasmata su misura dai media che ci sguazzarono, esagerando e inventando di loro. Così il film applica al racconto lo stesso filtro manipolatorio, con finte interviste e sguardi in macchina dei protagonisti con rottura della quarta parete. Forse tutto ciò non aiuta a ristabilire la verità: però serve a offrire un ritratto fedele e disilluso del mondo che ha prodotto quel genere di storia.

Si tratta di un mondo che ha poco a che vedere con quell’idillio fasullo che le pattinatrici tutte mossette e vestitini di tulle mettono in scena sulla pista di ghiaccio a uso e consumo di un pubblico che vuole essere coccolato con una versione artefatta e rassicurante della realtà. “Lei non rappresenta la vera famiglia americana”, confessa un giudice di gara a Tonya che gli chiede perché venga sempre discriminata in sede di punteggio. E come potrebbe rappresentarla quell’immagine idealizzata, lei che è figlia d’una madre spaventosamente anaffettiva (Allison Janney) e d’un padre sparito a gambe levate quand’era bambina. Lei, che non avendo la benché minima idea dell’amore si è legata a un uomo frustrato e aggressivo proprio perché frustrato e aggressivo.

Questo è dunque il materiale di cui è fatta la storia vera di una donna che non possiede il curriculum e gli strumenti che le consentano di rientrare nei canoni richiesti dal modello della pattinatrice perfetta. Gillespie, spingendo il pedale sul grottesco, punta sulla radiografia di una stupidità clamorosa, occhieggiando apertamente al cinema dei fratelli Coen e impiegando uno stile veloce e modaiolo che incastra formati diversi montati con musiche belle ma prevedibili, dai Fleetwood Mac a Goodbye, Stranger dei Supertramp (già in Magnolia di Paul Thomas Anderson) sino all’abusato The Passenger, nella versione di Siouxsie & The Banshees.

Oltre alle forzature stilistiche, Tonya tradisce l’intenzione fin troppo scoperta di tirare fuori una morale, usando la storia della Harding come specchio del paese che l’ha prodotta. “L’America – dice lei – vuole qualcuno da amare e anche qualcuno da odiare”. E Tonya costituisce l’obiettivo perfetto, da un lato entusiasmante per la storia di riscatto di chi ce l’ha fatta senza possedere quarti di nobiltà, dall’altro riprovevole esattamente per la stessa ragione, con l’aggravante della caduta sordida e repentina. Il risultato è quello ribadito dalla protagonista quando tira le somme: “Sono stata amata per un minuto, poi odiata, poi sono diventata una barzelletta. Fu come essere maltrattata di nuovo, solo che questa volta da voi”.

I primi piani che interrogano tanto il personaggio quanto lo spettatore di Tonya

Nonostante i suoi squilibri, però, il film colpisce nel segno. In primo luogo per la qualità degli attori. Bravissimi la Robbie, insieme furiosa e smarrita, con dei primi piani fieri e disperati che non si dimenticano, il giustamente sottotono Stan, il torpido Paul Walter Hauser (che grazie a Tonya si guadagnò il ruolo da protagonista in Richard Jewell di Eastwood) e, su tutti, la magnifica Janney nel ruolo della vita, la madre che nessuno vorrebbe mai avere, giustamente premiata con l’Oscar.

Ci sono anche, sotto la scorza un po’ urlata della messinscena, metafore che non si dimenticano. In particolare il momento in cui, raccontando la seconda vita da pugile della Harding – sì, è successo anche questo –, il montaggio accosta la durezza di un ko sul ring alla leggiadria del triplo Axel che solo lei era capace di eseguire sulla pista. Facendo così intuire quanta violenza si nasconde sotto le movenze impalpabili del pattinaggio su ghiaccio. Il quale rappresenta soltanto una modalità della lotta per la vita (e della lotta di classe) combattuta con altri mezzi.