Alzi la mano chi di voi non ha almeno una volta sorriso degli umarell, sì, gli umarell, i pensionati che presidiano i cantieri, le braccia dietro la schiena, la testa chinata per guardare l’andamento dei lavori attraverso una fessura della staccionata, il cappello sempre calato sulla testa e la voce pronta a alzarsi per dare questo o quel consiglio a architetti e muratori, gente che, in tutta onestà, del consiglio dell’umarell, lì, non è che abbia proprio bisogno. Ne abbiamo sorriso tutti, ammettiamolo, a volte ne abbiamo anche riso apertamente, per quella deriva anche tenera, volendo, che la nostra vita prende nella sua parte finale, il tanto, troppo tempo libero, la volontà se non addirittura necessità di sentirsi ancora utili, necessari, il cantiere che di colpo diventa il luogo principe per concentrare tutte queste nuove caratteristiche che l’esistenza ci ha posto sul piatto che abbiamo di fronte.
Umarell è una parola del dialetto bolognese, codificata per chiamare quei pensionati, presenti a Bologna come in tutte le città italiane, forse del mondo, dallo scrittore Danilo Masotti. Più recentemente qualcuno, per altro senza passare da lui, ha messo in commercio dei piccoli pupazzini di plastica rappresentanti gli umarell, da tenere sulla scrivania, a controllare il PC.
Bene, mettiamo momentaneamente da parte gli umarell e il nostro sorriderne.
Da piccolo, non saprei circostanziare meglio quando durante il mio essere da piccolo, ma abbastanza da piccolo da rientrare in quel lasso di tempo da aver in qualche modo stabilito un imprinting nella mia formazione, e come nella mia immagino anche nella vostra, o almeno in quella porzione di voi che, come me, è cresciuto, è diventato adulto, nella parte finale dello scorso millennio, mi sono sentito ripetere allo sfinimento che nella vita è fondamentale avere il “dono della sintesi”. Non credo mi sia stato detto esattamente così, nella vita è fondamentale avere il “dono della sintesi”, o se è successo è successo in un momento non altrettanto fondante della mia esistenza, perché la mia memoria non deve aver conservato traccia di quel determinato istante, ma me lo sono sentito ripetere così, tra le righe, infilato in mille frasi, da persone diverse, spesso da quelle persone che hanno forgiato la mia crescita e formazione, i miei genitori, i maestri, i miei professori, più in generale il mondo degli adulto, nella vita è fondamentale avere il “dono della sintesi”, al punto che, quando la vita mi ha posto di fronte la possibilità di vivere, nel senso di mantenermi, pensa te di che valenza carichiamo il lavoro, se arriviamo ad associarlo così pesantemente al verbo “vivere”, quando la vita mi ha posto di fronte la possibilità di vivere di scrittura, di parole, ecco che ho preso quella frase, quell’insegnamento impostomi attraverso un lavoro sottile di cesello, la goccia che scava la roccia, e l’ho buttato nel cesso. Son fatto così, del resto, prova a impormi qualcosa e è la volta buona che faccio il contrario, ostinatamente.
Ho scelto appunto di fare un mestiere, quello di scrittore e di critico musicale, ma più in generale quello di uomo che vive di parole, che contemplasse in sé proprio la possibilità di fare un po’ il cazzo che mi pare, sempre stando al fatto che poi devo vivere, appunto, e con me deve vivere anche la mia famiglia, quindi il cazzo che mi pare deve trovare riscontro presso un editore, si tratti di libri o articoli, o programmi tv o radio, e di conseguenza deve passare dall’essere un’opera, in alcuni casi opera d’arte, in altri più di manifattura, all’essere un’opera, in alcuni casi opera d’arte, in altri più di manifattura che viene pubblicata, diventa prodotto, genera economie.
Faccio il cazzo che mi pare, magari lo avrete già notato, se posso scegliere se dire una cosa in poche parole, usando il dono della sintesi, o dirla in molte, moltissime parole, spesso facendo giri panoramici, che si tratti di panorami mozzafiato o di guardare nel baratro, affondare la testa nelle acque nere delle fogne, non ho dubbi, percorro la seconda strada, sono in sostanza un massimalista.
Ora, la parola massimalista, che insieme alla parola iconoclasta è quella che avrei scelto, nel caso qualcuno avesse deciso di chiedermi di riassumermi in due parole, che so?, vuoi che chi produce il gioco Taboo decida di dedicarmi una carta, dove però le parole che maggiormente mi caratterizzano, quelle che il giocatore non può assolutamente pronunciare, pena la squalifica per mezzo del Buzz, quell’affaretto che fa un rumore fastidioso, buzz appunto, quelle che sono in assoluto le parole che più velocemente conducono a me, cinque nel caso del Taboo, ecco, nel caso qualcuno avesse deciso di chiedermi di riassumermi in due parole, perché di due sto parlando e del Taboo non mi frega nulla, avrei scelto proprio massimalista e iconoclasta, due parole ultimamente entrate a viva forza nei discorsi da social e da bar, con, qui la mia meraviglia, connotati assolutamente negativi, gli iconoclasti sarebbero degli esseri primordiali che, mossi appunto dalla furia iconoclasta passano il tempo (hanno passato il tempo, le mode ormai durano poche settimane) a distruggere monumenti, e poco conta se quei monumenti in effetti meritino o meno di essere distrutti, siamo nel campo delle metafore, lo dico per gli analfabeti funzionali in ascolto, i massimalisti quelli che portano avanti istanze e posizioni radicali, estremiste, nulla cioè che parta dal massimalismo letterario, quello di John Barth o Donald Barthelme, per dire.
Sia come sia non ho il dono della sintesi, o magari ce l’ho, ma non lo pratico, come un asceta che abbia deciso di non fare sesso, senza per questo essere dovuto ricorrere all’evirazione.
Andiamo ancora avanti.
Sono un massimalista, quando scrivo, lo state vivendo sulla vostra pelle. Sono postmoderno, avant-pop, insomma, ci siamo capiti, spero. Quello che scrivo, spesso, prende la forma di una sorta di flusso di coscienza, nel quale passo di palo in frasca, partendo da una introduzione, anche molto lunga, che parla di qualcosa di attinente alla mia vita privata, passando per altre situazioni, sempre riconducibili alla mia vita privata, o a qualcosa che a chi legge deve risultare come attinente alla mia vita privata, vera o presunta che sia, per poi arrivare, dopo giri e altri giri, deviazioni sul percorso principale e divagazioni, didascalie e note a margine, al cuore del discorso, spesso affrontato nelle ultime righe, nelle ultime poche righe, e sbolognato velocemente, molto più velocemente, per dire, di quanto non abbia fatto con tutti i tanti temi trattati apparentemente a sproposito prima.
Quello che però faccio, non credo di lasciare nessuno di stucco, è scrivere, non pensare a voce alta. Scrivo al computer, a volte con l’iPad, ma scrivo, avendo sempre abbastanza chiaro in mente da dove voglio partire e dove voglio arrivare e, soprattutto, avendo ben chiaro in mente come arrivarci. Ho una costruzione delle frasi complicata, complessa, anche questo non può esservi sfuggito, con una punteggiatura che spesso fa sbottare gli haters sui social, ma che a ben vedere, impugnate la matita rossa e provate a dimostrarmi il contrario se ci riuscite, è piuttosto precisa.
Le mie frasi, anche quelle con tante, tantissime relative, incisi, deviazioni, sono costruite con un preciso metodo, vagamente a incastro, togli un pezzetto e crolla tutto, a prescindere che io decida di ingabbiare il tutto in strutture circolari, chiuse, o mi lasci andare a qualcosa di più aperto e sperimentale. Sono l’incubo degli editor, in effetti, sia che si parli di libri sia che si tratti di questi miei pezzi, chiamarli articoli mi viene sempre a fatica, non fosse altro perché, lo rivendico sempre a gran voce, non sono e non voglio essere un giornalista. Lasciare tutto com’è è molto più facile che cancellare qualcosa o cambiare qualcosa, come dire, la vinco quasi sempre io.
Del resto, il flusso di coscienza, questo fiume di parole apparentemente in libertà che tende a simulare un ragionamento più o meno a voce alta, è qualcosa che, tra noi e noi, facciamo tutti, la mia scrittura, per quanto complicata e complessa, a volte anche ostile, si presenta come qualcosa di molto naturale, e poco conta che io giochi spesso la carta della ricercata ostilità, con tutte quelle citazioni difficilmente riconoscibili, alte e basse nella stessa frase, molto spesso personalissime, scrivo come se pensassi a voce alta, e tutti noi pensiamo a voce alta.
Per questo, immagino, qualcuno, e presto proverò a unire tutti i puntini stevejobsiani di questo discorso, penserà che la mia scrittura sia appunto qualcosa di naturale, come potrebbe risultare naturale l’assolo di un jazzista o di un chitarrista rock, uno prende lo strumento e tira fuori quelle note lì. Ovviamente le cose non stanno così, affatto.
La mia è una scrittura scrittura, frutto di anni di studio, mio, e di esperienza, sempre mia. Scrivo in quel modo non perché mi venga naturale, come tutti faticherei molto meno a scrivere frasi semplici, tradizionali, e se non lo faccio è perché credo che la forma che do ai miei pensieri debba necessariamente essere questa, la forma è sostanza, scrivo in quel modo perché voglio scrivere in quel modo, e se da qualche parte alberga la possibilità che la mia sia una forma di comunicazione semplice, beh, è una semplicità piuttosto difficile da ottenere, per me che la applico come per voi che poi dovete leggerla.
Riassumo quanto detto fin qui, sono massimalista ma vi voglio bene, in fondo.
Tutti abbiamo riso degli umarell, o almeno ne abbiamo sorriso, quei buffi pensionati che ritengono necessario e utile dar consigli a architetti, geometri, capocantieri e muratori lì, dall’altra parte della staccionata dei cantieri.
Anche io mi sono sentito dire come tanti che è fondamentale il dono della sintesi, dai miei insegnanti come dai miei genitori, ma non ci ho mai creduto.
Sono un massimalista e la mia scrittura, apparentemente a flusso di coscienza, è tutto fuorché automatica o naturale, è una scrittura che prevede ragionamenti e equilibri difficili da ottenere, la semplicità, questo sì, è difficile da ottenere, anche da chi della semplicità se n’è sempre sbattuto.
Ok, riprendo il cammino. Non manca molto alla fine di questo viaggio tortuoso ma, spero, panoramico, una sorta di Highway 1 sul mestiere della scrittura e, nello specifico, veniamo a noi, della scrittura online, quindi, l’esperienza insegna, a breve dovrei tirare fuori il vero argomento trattato in questo pezzo, quello che dovrebbe campeggiare nel titolo (quasi mai sono io a scrivere i titoli dei miei pezzi) e che in qualche modo darà a tutto quanto detto sin qui un senso, come quando si legge un giallo e, scoperto l’assassino, si capiscono tanti indizi disseminati dall’autore lungo le pagine.
Scrivo di musica. Spesso. Ne scrivo qui, quantomeno, e anche quando sembra che io stia parlando di altro, come oggi, sto in realtà parlando di musica, alla fine si capisce. Per andare dal punto A al punto B il tragitto più breve è la linea retta, ci dice la geometria, ma ci si può andare anche avvitandosi su se stessi e facendo arzigogoli.
Ogni volta che scrivo, magari non proprio ogni volta ma spesso, diciamo tutte le volte che quel che scrivo diventa oggetto di dibattito online, e succede spesso, non faccio finta di essere modesto, mai creduto che la modestia sia un valore, la modestia è proprio dei modesti e nessuno ambirebbe, che so?, a andare in un ristorante di cui si legga su Tripadvisor “la cucina proposta dallo chef è modesta”, no?, ecco, tutte le volte che quel che scrivo diventa oggetto di dibattito online, spesso quindi, arriva sempre qualcuno, spesso dotato di una sintassi non proprio brillante, ma quest’ultima frase suppongo mi farà risultare ancora più antipatico ai vostri occhi, come se di sembrarvi antipatico mi fregasse qualcosa, peggio che di peggio, arriva sempre qualcuno spesso dotato di una sintassi non proprio brillante che mi fa notare come io abbia del tutto sbagliato mestiere. Mi dice, cioè, che il giornalismo è altra cosa, e su questo non posso che convenire, non sono un giornalista né voglio esserlo, che parlo poco di musica e troppo di me, come se non sapessi di cosa ho parlato in quel che sono andato a proporre al direttore e che poi è stato pubblicato, che faccio un uso sbagliato della sintassi e della punteggiatura, che, ma qui aprirei un discorso troppo ampio che forse meriterebbe un pezzo a parte, se mi sono ridotto a parlare di qualcosa che non mi piace farei meglio a fare un altro mestiere o a scrivere solo di cose che mi piacciono, commenti, questi, spesso accompagnati dalla massima “de gustibus”.
Tutto molto bello, entusiasmante anche. È pieno di gente che mi accusa di non aver niente da fare, perché perdo tempo a scrivere di Tizio e Caio, di scriverne troppo, per di più, gente che in genere scrive troppo per dirmelo e che, a differenza di quel che succede a me, lo fa gratis su un social, mentre io scrivo pezzi pagato per farlo. Fatto, questo, che è in effetti, uno degli aspetti che più indigna gli haters, il fatto che io, il critico che però poi non vuole essere criticato, come se esistesse la figura professionale del “critico dei critici”, professione che evidentemente trova la sua location solo sui social, dove in effetti le critiche ai critici avvengono con certa frequenza, gente, dicevo, che mi accusa di non aver niente da fare perché scrivo male di Tizio o Caio e la cui accusa più ragionata è “chi non sa fare critica”, che è esattamente quel che in effetti sta facendo in quel momento, cioè critica me che ho fatto, nel senso, che ho svolto un lavoro retribuito.
Ritorno quindi all’inizio di questo mio pezzo, gli umarell. Perché anche questo è un aspetto che mi è sempre sembrato appassionante di questo continuo attacco da parte degli haters, il fatto, cioè, che tutti, gli ingegneri, i geometri, i cuochi, i pompieri, gli infermieri, gli autisti di autobus, gli impiegati, i dirigenti di azienda, tutti coloro che si trovano a scaricarti odio sui social, gente che nella vita fa un altro mestiere che non sia il critico, si sente in dovere e addirittura in necessità di spiegarti come fare il tuo mestiere, esattamente come avviene agli umarell, lì davanti a un cantiere a dire a un architetto, a un muratore, a un geometra, come deve fare il suo mestiere, quello per il quale ha studiato, quello che fa da anni, per cui riceve uno stipendio, che lo autorizza a definirsi architetto, geometra, muratore.
Ecco, sappiatelo, la prossima volta che verrete sotto il post di un mio pezzo, ma anche sotto i post degli altri pezzi o articoli che dir si voglia, per spiegarmi cosa dovrei fare e come dovrei farlo, non siete altro che un umarell che dice al muratore che il palazzo così sta venendo su storto.
Nel titolo ho usato la prima persona plurale per generosità, perché io l’umarell non lo vado a fare, già fatico a svolgere lavori per i quali mi pagano, figuriamoci se andrei mai a farli gratis. Siete voi gli umarell davanti al cantiere, ripeto.
Gli altri, quelli che passano, vi guardano, sorridono, e pensano che non sempre invecchiare ci riservi clemenza.