Molecole, la Mostra di Venezia parte da un film intimista segnato dalla pandemia

Apre il festival il documentario di Andrea Segre che, sorpreso dal lockdown a Venezia, ha cominciato a girare un bloc-notes di appunti visivi. Che si è trasformato in un toccante diario della propria storia familiare. Dal 3 settembre in sala

Molecole

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Era quasi destino che questa edizione singolare e “fragile” della Mostra del Cinema di Venezia, primo dei grandi festival a svolgersi dopo il Coronavirus, cominciasse da un film segnato, scolpito intorno e dall’emergenza. La preapertura del primo settembre di Venezia 77, il cui programma comincia ufficialmente oggi, è stato caratterizzato infatti dalla proiezione fuori concorso di Molecole di Andrea Segre, documentario nato dal Covid-19, perché il lockdown ha sorpreso il regista a Venezia, dove stava seguendo due progetti, un nuovo film di finzione sul turismo e uno spettacolo per il Teatro Stabile del Veneto sul tema delle acque.

Pronto a girare, il 22 febbraio, Segre viene travolto, come tutti, dall’emergenza sociosanitaria. A quel punto decide di aprire un bloc-notes visivo di appunti, raccogliendo brandelli di testimonianze di cittadini, un vecchio pescatore, una donna che per lavoro insegna a vogare ai turisti, una giovane coppia che esprime l’amore viscerale per una città che non abbandonerebbe mai.

Soprattutto, emerge l’autobiografia, col bloc-notes che si trasforma in diario, seguendo il filo di un racconto intimista nel quale il protagonista è il padre di Andrea, un fisico scomparso una decina d’anni fa – dai suoi interessi professionali deriva l’evocativo titolo di Molecole – del quale Segre recupera anche filmini d’epoca girati in Super8, sovrapponendoli alle nuove immagini di una inedita Venezia sgombra di persone e imbarcazioni, spettrale e bellissima – come non mancano di sottolineare i veneziani affascinati dall’opportunità di riappropriarsi di un luogo modellato sulle esigenze dei turisti.

Molecole quindi nasce dall’occasione e dentro l’occasione scopre la sua necessità drammaturgica, l’urgenza di una narrazione che intreccia l’interrogazione personale con la grande storia della città e l’improvvisa emergenza. Racconta anche, questo film, la forza di uno sguardo capace di ridefinirsi sull’onda del momento, in cui il genere documentario mostra la sua autentica vocazione nella capacità di farsi scrittura dello spazio e del tempo, reagendo come materia viva alle sollecitazioni che giungono dalla realtà.

Arrivato a Venezia con due idee legate al turismo e alla acqua alta, Andrea Segre si è trovato senza visitatori e senza acqua alta, per un’improvvisa secca. E da questo vuoto quasi naturalmente è emerso tutto il resto, domande sulla storia familiare, i sentimenti, le parole non dette col padre, in cui l’incastro di immagini, filmate da entrambi, idealmente dà vita a un dialogo intimo, sentito e pudico.

Regista per sua stessa ammissione “razionale”, Segre mette da parte l’esigenza di chiarezza assoluta e approfitta della fragilità manifesta legata all’emergenza Covid per inseguire la propria fragilità interiore in cui si rispecchia quella storica di una città instabile per definizione. Il racconto si muove alla ricerca dei “piccoli elementi fisici che non vediamo ma che determinano la nostra vita”, quelle “molecole invisibili che avevano cominciato a sconvolgere il mondo, e che nessuno voleva o poteva capire, nemmeno io”, come dice il regista, voce fuori campo, in chiave appunto diaristica, del flusso volutamente incerto e non conchiuso d’immagini.

L’apparizione di Andrea Segre, che si ritrae fuggevolmente nel suo stesso film

Quella notte in quel vuoto ho visto Venezia nella sua fragilità”, dice Segre quando scatta il lockdown, aggiungendo che “quella improvvisa sensazione di debolezza stava iniziando a insegnarmi qualcosa”. In Molecole non è la realtà a farsi metafora del Covid, semmai è il contrario, è la frattura rappresentata dall’epidemia a rendere lampanti fratture di altra natura e di lunga durata. Che sono quelle di un luogo irripetibile, città-laguna galleggiante e indefinibile – “i veneziani fuggono in terraferma perché a Venezia la terraferma non c’è”, chiosa il regista – e le cicatrici interiori da suturare e a cui dare parole e immagini che aiutino a ristabilire un senso.

A un certo punto, quando il blocco è divenuto totale, Andrea Segre che fino a quel momento si è tenuto fuori campo, si riprende allo specchio, rendendo manifesta l’autobiografia ma anche ammettendo il rischio di ombelicalità insito in una narrazione sempre più ripiegata su di sé, anche per la difficoltà di raccontare il vuoto di vita della città deserta.

Davanti a questa “materia che sta scricchiolando” il film trova la sua ragion d’essere, inabissandosi in quell’altro mare dell’interiorità. Molecole ricerca forse troppe risposte per silenziare l’inquietudine: “Avere la pazienza di perderti per trovare qualcosa e non essere sicuro di capire, ma sapere di doverci essere, di dover rimanere nel cuore di una solitudine che ti può tenere in vita”. Sono le pecche di eccesso di letterarietà d’un racconto che mantiene un’onestà ammirevole, che ripete nella sua fragilità la fragilità della realtà che preme tutt’intorno ai confini di immagini che quella insicurezza puntano a riorganizzare in una visione accettabilmente coerente. È un piccolo film imperfetto che sa di esserlo, che cerca una forma di serenità con la quale è difficile non entrare in empatia.