Il jazz: uno dei generi “black” simbolo di libertà, in musica e in politica

In campo musicale, come in tanti altri, gli afroamericani hanno saputo produrre una rivoluzione che non ha eguali nella storia eppure devono ancora combattere per un miglioramento della loro posizione sociale come dimostrano gli episodi legati a George Floyd e Jacob Blake

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La brutta storia di George Floyd, l’afroamericano ucciso da un poliziotto bianco – solerte e autoritario al punto da non capire la differenza che esiste tra il fermare una persona e il soffocarla – ha riacceso i riflettori sulla questione razziale. Ha fatto emergere il disagio sociale che ancora oggi esiste negli Stati Uniti d’America, la brutalità delle forze dell’ordine (è proprio dell’ultima ora la notizia di Jacob Blake, l’afroamericano che rischia la paralisi per essere stato colpito più volte alla schiena dagli spari di un poliziotto), la disparità di trattamento fra cittadini dello stesso Paese, la persistenza di ideologie diaboliche come quella del suprematismo che vorrebbe il primato della razza bianca.

La questione è necessariamente entrata nel dibattito pubblico così che, anche in vista delle prossime elezioni presidenziali, l’impegno della parte politica progressista è divenuto quello di una maggiore tutela dei cittadini afroamericani.

Dover ragionare ancora oggi di questioni razziali – ad oltre 150 anni dall’abolizione dello schiavismo e dopo lotte memorabili e tributi di sangue come quello di Martin Luther King – è doloroso. E particolarmente ingiusto è il fatto che gli afroamericani debbano tornare a negoziare un posto più dignitoso nel sistema attuale, a reclamare un diritto di cittadinanza non diverso da quello riconosciuto alla popolazione bianca. Il paradosso è proprio nel fatto di dover negoziare un miglioramento della condizione sociale, quando il contributo della popolazione nera nella storia, nell’economia e nella cultura del Paese è stato enorme.

In campo musicale gli afroamericani hanno saputo produrre una rivoluzione che non ha eguali nella storia; i generi “black” come lo spiritual, il blues, il soul, il jazz non hanno semplicemente rinnovato la cultura musicale americana ma l’hanno realmente fondata, creando linguaggi e concetti straordinariamente originali, un patrimonio prezioso per un Paese altrimenti destinato a stazionare tra l’imitazione dei modelli classici europei e la tradizione country dei pionieri e delle comunità rurali. Alla fine dell’Ottocento, il compositore classico Antonin Dvorak, di origini ceche e trasferitosi a New York per insegnare al Conservatorio Nazionale americano, rimase affascinato dai canti spiritual al punto da sostenere, in un saggio dal titolo “Il reale valore delle melodie dei neri”, che queste avrebbero dovuto essere le fondamenta di qualunque scuola di composizione americana. “Nelle melodie dei neri d’america – scrive Dvorak – ritrovo tutto ciò che serve a una grande e nobile scuola musicale. Sono toccanti, tenere, appassionate, malinconiche, solenni, religiose, coraggiose, allegre, festose o quello che preferite. (…) Non c’è nulla nell’ambito della composizione che non possa venir realizzato con temi provenienti da questa fonte”.

Negli anni Venti numerosi critici e scrittori, fra i quali Carl Van Vechten e Gilbert Seldes saranno folgorati dai generi afroamericani, sostenendo che la musica classica aveva ormai esaurito la propria forza espressiva al cospetto delle nuove tendenze nate nei contesti popolari degli afroamericani, e delle geniali e potenti personalità di Will Marion Cook, Duke Ellington, Louis Armstrong e molti altri creatori del Jazz. Nel 1939, il giovane Leonard Bernstein, allora studente ad Harvard, sosteneva in un suo elaborato che la musica nera non soltanto aveva ampliato gli orizzonti culturali, ma aveva spinto il rinnovamento morale del Paese dopo un’epoca di violenza e disgregazione, e che proprio mediante questa musica aveva elaborato i conflitti creando un patrimonio artistico universalmente condiviso. La riprova che la musica nera poteva rappresentare i valori dell’intera nazione si avrà nel dopoguerra, quando le truppe americane in Germania attueranno i cosiddetti programmi di “riorientamento culturale” della popolazione contro i possibili rigurgiti del nazismo, basati sull’educazione al Jazz come espressione del libero pensiero e antidoto a quel romanticismo e a quella musica tonale su cui la Germania aveva basato la presunta superiorità della cultura ariana. Insomma, il Jazz, la musica e la cultura afroamericana in genere hanno rappresentato i valori della democrazia statunitense nei momenti nevralgici della sua storia. Gli ultraconservatori americani, quelli con la mascella dura che cantano l’inno con la mano sul cuore mentre issano la bandiera “stelle e strisce”, dovrebbero capire meglio su quali travagli e su quali talenti il Paese ha costruito la propria identità.