Lady Gaga esce con Chromatica nel giorno dell’orgoglio Freak: è un caso?

Amo Lady Gaga, le ho dedicato un libro che poi è stato il primo a lei dedicato al mondo

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Oggi è la giornata internazionale dell’Orgoglio Freak. Non ho idea di che tipo di freak si tratti, poco importa.

Questa settimana esce Chromatica, il nuovo album di Lady Gaga, già anticipato dai due singoli Stupid Love e il recentissimo Rain on Me, con Ariana Grande, Lady Gaga che ha una nutrita fanbase i cui componenti si fanno chiamare Little Monsters, artista capace come pochi altri di prendere la diversità, tutte le diversità, e farne una leva con cui sollevare il mondo. Freak e Monsters vanno a braccetto, nell’immaginario, anche se dubito ci sia una qualche attinenza tra questa giornata e la scelta di questa medesima settimana per pubblicare il nuovo lavoro di Mrs Germanotta, in realtà atteso un paio di mesi fa ma poi rimandato per il Coronavirus.

Io amo Lady Gaga. Le ho dedicato un libro, ve ne parlavo giorni fa, libro che è stato il primo a lei dedicato al mondo. La amo a prescindere dalla sua musica, per il messaggio che la sua musica e qualsiasi cosa lei faccia veicolano, la amo anche per la sua musica.

Dovendo scegliere da che parte stare, è ovvio, sto sempre dalla parte dei freak, dei mostri, dei diversi, dei perdenti.

I vincenti mi sono sempre stati sul cazzo, li ho sempre trovati estremamente banali. Anche gli eroi, almeno nell’accezione che ultimamente si è data a quella parola.

Perché lo confesso, mi sono sempre trovato in difficoltà di fronte alla parola eroe. Perché mi è sempre stato chiaro, o quantomeno mi è chiaro da che ho un minimo di consapevolezza di quel che mi succede intorno, che la parola eroe è una parola che si presta parecchio a un uso personalistico da parte di troppa gente, opportunistico, specie da quella gente con la quale, per mia natura, preferisco non avere a che fare. Se considerate che sulla mia prima chitarra, quella che prima che mia era stata di mio fratello Marco, credo che abbia studiato giusto qualche mese, ma abbastanza per farsi comprare una chitarra classica poi passata più legittimamente a me, e che poi sarebbe diventata di mio nipote Davide, c’era attaccato un adesivo che diceva “Quando lo stato ti chiama a morire si fa chiamare patria”, credo non sarà necessario che io vi spieghi di quali persone sto parlando. Del resto, a meno che non siate appena arrivati in questo paese da un paese lontano, fatto impossibile, le frontiere sono ancora chiuse per gli stranieri, o a meno che non vi siate svegliati da un lungo coma, sprovvisti della memoria, e in caso sarei curioso parecchio di sapere perché mai stiate leggendo queste mie parole, va beh, a meno che non siate del tutto sprovvisti di un minimo di capacità di analisi del contemporaneo vi sarà piuttosto chiaro che la parola eroe è stata abusata e usurata da decenni di utilizzo sbagliato, roba da sovranisti, di quelli che hanno il profilo con la bandierina italiana, o di populisti, quelli che fanno un uso smodato di citazioni a cazzo di cane e e di punti esclamativi.

Per dire, a me un mercenario che in punto di morte dica “vi faccio vedere come muore un italiano” non sembra un eroe, ma siccome non voglio accanirmi su chi è appunto morto, mi guarderò dal dichiarare che termine avrei usato, contando sul fatto che l’insieme di queste mie parole siano sufficienti a veicolare il mio pensiero anche senza doverlo sintetizzare in una singola parola di uso gergale. Non mi sembrano eroi neanche i Marò, sempre stato dalla parte dei pirati, io, e con questo, credo, il concetto sia passato.

Non voglio star qui a citare Brecht e la famosa frase sulla terra che ha bisogno di eroi, già la conoscete e, se siete dotati di buon senso, la condividete, ma tenderei a usare questa parola, eroe, come la parola genio, con molta più parsimonia.

Del resto, e ci avviciniamo, almeno vagamente, al cuore di questo capitolo, o almeno alla vera partenza di questo capitolo, ormai sarete abituati al fatto che i capitoli di questo mio diario del contagio, giunto oggi alla novantaduesima puntata, novantadue i giorni di clausura per Coronavirus, siano  una lenta manovra di avvicinamento a argomenti che, in apparenza, poco sembrano attinenti ai titoli che di volta in volta ho scelto per presentarli, avendo optato, arbitrariamente, per non chiamarli sol semplice numero del giorno o con la data del giorno che intendono raccontare o rappresentare, sono pur sempre uno che negli ultimi anni ha speso buona parte del suo tempo nello scrivere articoli, suvvia, una continua deviazione dal percorso principale, come se poi stesse a voi stabilire qual è il percorso principale, che mica sono un tassista che potete rimproverare se per portarvi a casa da Linate, chissà quando cazzo riaprirà Linate, poi?, fa il giro troppo largo, allungando il brodo per farvi pagare di più, queste sono le parole del mio diario saprò ben io quante ne devo usare e a che scopo, no?, non vengo pagato di più se allungo il percorso, quindi se lo allungo è perché ho voluto allungarlo, sta a me stabilire se voglio andare dritto o fare il giro panoramico, se lungo la strada voglio fermarmi a mangiarmi un kebab, per dire, lo posso fare, ricordo una volta, quando ancora scrivevo reportage per Gente Viaggi, al termine di un mio soggiorno a Mauritius, per dire, un soggiorno appassionante, perché Mauritius è un’isola di una bellezza abbacinante, e io mi ero concentrato proprio sull’isola, non sul mare che la circondava, avete presente la psicogeografia, no?, e anche il mio voler essere quel che sono, un iconoclasta, cioè uno che segue la sua strada, appunto, non quella che in genere si segue, quindi se andavo in un posto famoso per il suo mare, per la barriera corallina, le spiagge bellissime, eccomi che raccontavo gli interni, senza mai citare il mare, o quasi, soggiorno pure bizzarro, perché ero finito, come molti lì, in uno di quegli strepitosi resort dove in genere vanno le coppie in viaggio di nozze o le coppie anche non in viaggio di nozze, col risultato che ero il solo single in un resort di coppie, immaginatemi a cena mentre me ne sto da solo a un tavolo circondato da persone che si guardano negli occhi, flirtano, si amano, ancora più strano se penso, ricordo dovrei dire, che appena arrivato l’ente del turismo del luogo, ci ero arrivato su indicazione dell’ente del turismo di Mauritius in Italia, gestito dalla stessa società di Milano che mi aveva mandato anche in Malesia, l’ente del turismo del luogo si era dimenticato di me, lasciandomi il primo giorno da solo nel resort, avevo un planning piuttosto complesso, un tour che toccava un po’ tutti i luoghi fondamentali dell’isola, mare escluso, e per farsi perdonare di questa defaillance, il secondo giorno, sono stato prelevato dal resort e portato direttamente dal Ministro del Turismo, con tanto di siparietto pensato ad hoc per farmi fare due chiacchiere con Miss Mauritius, dopodiché, ovviamente, il mio tour l’ho fatto e a Mauritius ci sono anche tornato, con Marina, Lucia e Tommaso, per un altro tour, mi sembra tre o quattro anni dopo, per festeggiare i nostri primi dieci anni di matrimonio, anche perché io volevo concedere una seconda chance a questa isola meravigliosa, dopo che il viaggio di ritorno era stato funestato da cattivi presagi, la tipa al mio fianco era stata colta da attacchi di panico nel momento in cui stavamo per partire per Roma, complice la notizia che l’aereo aveva un qualche problema a uno dei motori, notizia che ci era stata data giusto prima di partire, ahi il tempismo mauriziano, viaggio quindi piuttosto infernale, provateci voi a viaggiare con a fianco una sconosciuta che ha attacchi di panico, lì a sbraitare e urlare, la testa infilata in un sacchetto di carta per la ventilazione, viaggio che era poi terminato con me che atterro e chiamo casa, i brutti presagi che mi avevano accompagnato per quelle dodici ore, giusto il tempo di sentire Lucia, all’epoca aveva cinque anni, che mi dice che non può passarmi Marina, sua madre, perché Marina, sua madre, è in ospedale con Tommaso, suo fratello, Tommaso caduto dal letto, all’epoca aveva un anno, il panico che a quel punto coglie me, insomma, una brutta esperienza che aveva rovinato un soggiorno già di suo movimentato, ecco che arrivo alla faccenda del fermarsi quando cazzo si vuole, o fare il giro che cazzo si vuole, se si è scrittori che scrivono, regola in genere non applicabile se si è tassisti, e il motivo per cui sto parlando di Mauritius è che il tassista che doveva accompagnarmi verso l’aeroporto, il giorno della mia partenza per l’Italia, prima di quel viaggio così poco felice, a sua volta si era presentato con largo ritardo, salvo poi mettersi a correre, perché rischiavo seriamente di perdere l’aereo che mi avrebbe riportato in Italia, e non è che a Mauritius ci siano voli ogni ora per l’Italia, se perdi l’aereo poi devi aspettare giorni, o almeno così era allora, corsa che però aveva bruscamente interrotto per fare una deviazione sul percorso che dal resort portava all’aeroporto, lì a fare una strada panoramica tutta curve a picco sul mare, Vertigo in salsa indiana, strada panoramica che ci avrebbe portato in un porticciolo di pescatori, questo ho pensato mentre ci avvicinavamo, pensiero che ha presto trovato riscontro nel fatto che lui, il tassista, si è in effetti fermato a comprare del pesce da un pescatore, pesce per pranzo, mi avrebbe poi raccontato una volta risalito in auto, una volta risalti in auto e ripresa la corsa folle verso l’aeroporto, sempre meno tempo tra me e la partenza dell’aereo, corsa che a un certo punto è diventata degna di finire dentro un film tipo Fast and Furious, due auto della polizia a uscire da una piazzola di sosta coperta da basse siepi, le sirene spiegate, a inseguirci per il nostro correre assai sopra i limiti di velocità, immaginate la scena, io su un taxi mauriziano che corre a velocità proibitive inseguiti da due auto della polizia a sirene spiegate, un aereo in partenza che non mi aspetterà all’aeroporto, il tassista che di colpo appare meno serafico e calmo di prima, la puzza di pesce nell’auto, come corollario, e mi dice che se lo fermano gli toglieranno la patente e non potrà fare più il tassista, finirà addirittura in prigione, dice, come se meritasse un addirittura il constatare che se scappi dalla polizia poi finisci in prigione, e me lo dice come se il trovarsi in questa situazione fosse colpa mia, che devo essere portato all’aeroporto, non sua che si è presentato con grande ritardo e si è pure concesso il lusso di una deviazione sul percorso principale con tanto di sosta per comprare il pesce per pranzo, e a un certo punto lui, il tassista mauriziano che ha letteralmente la mia vita in mano, sapete che sono sopravvissuto, è vero, mi state leggendo a distanza di tanti anni,  ma sul momento che mi sarei poi salvato mi sembrava una possibilità piuttosto remota, nella mente costantemente le scene di Fuga di mezzanotte, io violentato e maltrattato in una qualche carcere mauriziana, e lo so che lì si parlava delle carceri turche, ho molto amato Alan Parker da giovane, ma quando si è a bordo di un taxi lanciato a folli velocità, inseguiti da due auto della polizia a sirene spiegate la attinenza tra suggestioni e fatti non è poi così stringente, e a un certo punto lui, il tassista etc etc, rallenta, le auto della polizia, in corsa, che quasi ci raggiungono, e sterzando di colpo imbocca una strada che si trova alla sinistra della carreggiata, una rampa posta, sono mauriziani, mica tedeschi, sul lato sbagliato, perché da che mondo è mondo le rampe si trovano a destra, non fosse che a Mauritius la guida è al contrario, come in Inghilterra, seminando letteralmente le due auto, troppo veloci per riuscire a azzeccare la medesima uscita, al che, sarò pur stato sotto shock, ma sono un uomo molto razionale, gli chiedo che senso ha scappare, ché tanto avranno preso la targa e gli faranno il culo una volta tornato a casa, anche se confesso che non ho usato esattamente le stesse parole e figure retoriche, domanda che ottiene una risposta ancora più shoccante, che, cioè, a Mauritius la polizia non può arrestarti per qualcosa cui ha assistito se non lo fa al momento, come dire, o ti arresto in flagranza di reato o la scampi, quindi se riesci a seminarli è fatta, sei salvo, come una sorta di premio alla scaltrezza o alla fortuna, ciò non di meno, il tassista, prosegue la sua corsa folle, stavolta tagliando letteralmente per i campi, vuoi perché ha paura che la polizia sia tornata indietro per continuare a inseguirlo, vuoi perché ha capito che, se mai dovessi perdere l’aereo per queste sue folli gesta l’essere arrestato sarà l’ultimo dei suoi problemi, quando mi incazzo faccio paura anche a distanza di migliaia di chilometri da casa, potere della fisiognomica e di una espressività facciale e corporea che noi italiani gestiamo con evidente naturalezza, per altro anche nel mio secondo viaggio a Mauritius, il nostro viaggio, visto che c’erano anche Marina, Lucia e Tommaso, i gemelli sarebbero nati solo un paio di anni dopo, abbiamo avuto la nostra bella avventura con l’autista che aveva il compito di accompagnarci in giro per l’isola, anche stavolta abbiamo girato gli interni, oltre che goderci il mare, una giornata passata nel resort esclusivo dell’Isola dei Cervi, credo di poter parlare anche a nome di Marina, è stato uno dei più belli della nostra vita, quello uno dei posti più incantevoli mai visti, se ci penso adesso che sono chiuso in casa da oltre tre mesi e che ignoro se riusciremo a passare una estate non dico normale, questo lo escluderei a priori, ma almeno baciata da qualche giorno al mare, il nostro mare lì sul Conero, mi viene da piangere come un vitellino, anche nel mio secondo viaggio a Mauritius, il nostro secondo viaggio,  abbiamo avuto la nostra bella avventura con l’autista che aveva il compito di accompagnarci in giro per l’isola, un ingegnere che si stava specializzando presso la locale università di studi, facendo l’autista per pagarsi gli studi, ce lo avrebbe raccontato lui stesso nelle lunghissime chiacchierate che avremmo fatto strada facendo, lunghe chiacchierate figlie del fatto che, costretto a studiare di notte e guidare di giorno, il giovane autista che ci stava accompagnando si ritrovava spesso a addormentarsi mentre era alla guida, il piccolo van bianco a sbandare rischiando di finire fuori strada con cadenza molto ravvicinata, con me che, quindi, forzando questa mia ritrosia a parlare inglese, ho già raccontato di come sia una mia tara personale, con me che ho letteralmente passato ore e ore a fare conversazione con lui, cercando in tutti i modi di tenerlo sveglio, anche proponendomi di guidare al posto suo, certo cercando di non essere offensivo mentre glielo proponevo, ben concio di quanto sia difficile guidare all’inglese, il volante sulla destra, le marce sulla sinistra, i sensi di marcia invertiti, anche i pedali, freno, frizione, acceleratore invertiti, inchiodate al posto di accelerazioni, ricordo che la prima volta che ho guidato in Inghilterra, una macchina presa a noleggio all’aeroporto di Heathrow, ho imboccato la rotatoria di immissione alla M20 controsenso, rischiando di morire e di fare una strage, rischio comunque contenuto rispetto alla certezza di finire prima o poi fuoristrada a Mauritius, l’autista giovane ingegnere addormentato proprio quando noi si era nell’isola per festeggiare dieci anni di nozze, oltre che quarant’anni miei e di Marina, chissà se c’è una morale che si può trarre da questo mio rapporto con gli autisti di Mauritius, autisti che ho citato per dire che un tassista non può, non deve, permettersi inutili deviazioni sul percorso più veloce e più sicuro, ma che scrive può, e che cazzo, ve l’ho appena dimostrato, ce ne fosse bisogno, del resto, dicevo qualcosa come oltre duemila parole fa, la parola eroe è stata uno dei leit motiv di questi giorni pandemici, troppo spesso associati a figure professionali che fino all’altroieri erano dileggiate e che hanno subito, negli anni, tagli come forse solo l’Istruzione, dire che medici e infermieri sono eroi mi sembra davvero qualcosa di banale, anche di neanche troppo vagamene ipocrita.

Sì, era dei medici e degli infermieri che stavo parlando.

Anzi, no, non è vero.

Era del chiamare eroi medici e infermieri che stavo parlando, che non è esattamente la stessa cosa, perché sposta il discorso dai medici e gli infermieri a quanti li chiamano eroi, e soprattutto sullo storytelling che il chiamarli eroi ha generato, questo il vero tema di questo capitolo, forse.

Avete visto tutti le miriadi di spot che sono girati in questi giorni, in modo particolare nel periodo del lock down, intendo, perché ora stanno tornando gli spot pre-Coronavirus, quelli che non necessitano di mettere gli eroi nei pochi frame pagati chissà quanto, che possono non dover dire #IoRestoACasa da qualche parte, che, spot che in sostanza hanno giocato il tutto per tutto sul senso di comunità divisa ma vicina, di comunità che dice all’unisono andrà tutto bene, che si ferma per il bene comune, se c’era da fermarsi, pronta a ripartire per il bene comune, se c’è da ripartire, non eroi, quanti spot hanno usato medici e infermieri per dire proprio questo, noi non siamo eroi come i medici e gli infermieri, ma stiamo comunque facendo la nostra parte per il vostro bene, questo il messaggio, come se imprese e aziende avessero a cuore non il profitto ma il nostro bene, il bene comune, due di questi spot, di due noti formaggi del nord Italia, addirittura identici nella narrazione, seppur distanti nella resa, un po’ come i formaggi in questione, medici e infermieri, i nostri eroi, lì con le mascherine, i guanti, le cuffie, gli occhialoni, le tute celesti, una narrazione sfinita, e in quanto narrazione sfinita incapace di essere credibile, i messaggi lasciati nelle cassette delle poste dei medici, “state portando il Coronavirus nel nostro palazzo”, il non farli passare avanti in coda, al supermercato, il denunciarli per aver curato male qualsiasi cosa lì, a portata di mano.

Personalmente non sono convinto che medici e infermieri siano eroi, oggi.

Lo sono stati anche oggi, ma presumibilmente fanno un lavoro, quando lo fanno bene, che ha in sé qualcosa di eroico sempre, le vite delle persone nelle loro mani. Non tutti, è chiaro, e non è affatto eroico il sistema sanitario italiano. Si fottano quanti hanno tagliato in maniera irrazionale la Sanità, vivo in Lombardia, quel qualcuno ha una faccia, un nome e un cognome, ma si fottano anche quanti, all’interno della categoria, hanno esercitato a cazzo questa professione, queste professioni, tutti abbiamo aneddoti personali di primari che si sono fatti pagare cifre spropositate visite durate pochi minuti e che non hanno portato a nulla, tutti abbiamo casi di infermieri che ci hanno trattati di merda durante esperienze in ospedale, tutti abbiamo casi di malasanità da poter appoggiare sul tavolo, quando necessita.

Ora, ho iniziato parlando di eroi, o di utilizzo smodato e insensato del termine eroe. Ho citato Brecht, per dire. Poi ho parlato di cosa possa o non possa fare chi scrive, allestendo un parallelo con chi guida un taxi, e portandovi a spasso con me per l’Isola di Mauritius, Mauritius è un’isola, non un arcipelago, per la cronaca. Poi sono tornato a parlare di eroi, citando gli spot del periodo di lock down, criticando gli spot del periodo di lock down, l’ipocrisia di fondo di chi vuole promuovere i propri prodotti usando il nostro cuore per arrivare al nostro portafogli.

Ma non era di questo che volevo parlarvi oggi, novantaduesimo giorno di clausura, novantaduesimo capitolo del mio diario del contagio, ora ve lo posso dire.

No, o meglio, non del tutto.

Perché volevo parlarvi di storytelling, seppur io abbia nei confronti del termine storytelling una sorta di idiosincrasia, parola che, lo confesso, ho appreso negli anni Ottanta grazie a Franco Fasano, autore di svariate hit di quell’epoca, da Ti Lascerò, con la quale Anna Oxa e Fausto Leali vinsero il Festival nel 1989 a Mi Manchi, dello stesso leali, passando per Regalami un Sorriso di Drupi, cantante che ha per qualche volta calcato le assi del palco dell’Ariston, concorrente al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, nonché noto per essere stato a lungo la voce di Topo Gigio, fatto questo, immagino, che non gradirà particolarmente messo in coda a un sunto del suo curriculum, non perché Topo Gigio non sia meritevole, intendiamoci, ma solo perché messo lì così sembra sia la cosa più importante che ha fatto, Franco Fasano che nella canzone E Quel Giorno Non Mi Perderai Più, gran titolo e pezzo piuttosto convincente, almeno nell’ambito del pop melodico che imperava in quegli anni, pronunciava proprio in esergo la strofa “L’abitudine è una scia/ dove nuoti sempre tu/ la corrente è troppo forte/ e tu non ti fermi più/ la tua rotta hai scelto già/ verso l’idiosincrasia”, eccola questa parola bellissima, idiosincrasia, conosciuta attraverso un brano pop eseguito per la prima volta nel Festival del 1989, Fasano era in gara tra le giovani proposte proprio quando avrebbe vinto come autore tra i Big, grande canzone E Quel Giorno Non Mi Perderai Più, con quel ritornello “Ma dimmi dove sei/ Così ogni tanto mi oriento”, perché, quindi, volevo parlarvi di storytelling, seppur io abbia nei confronti del termine storytelling una sorta di idiosincrasia, e di come, volendo, si possa raccontare l’oggi rifuggendo la retorica, e quindi l’ipocrisia, ma riuscendo semplicemente a fare il proprio lavoro, perseguendo e incontrando la propria arte, innalzandola a ennesima potenza.

C’è che ho visto il video New York New York di Spike Lee, e come ormai non mi succedeva da qualche anno, anche perché è da qualche anno che non seguo più il cinema di Spike Lee, solo e esclusivamente per colpa mia, pigrizia mista a scarso interesse per il cinema, sia messo agli atti, come ormai non mi succedeva da qualche anno ho provato quel senso di sublime che, in genere, si dovrebbe provare di fronte all’arte.

Il video in questione, lo trovate serenamente su Youtube, è il suo racconto del lock down nella sua città natale, città verso la quale cova un evidente senso di innamoramento, chi ha seguito il suo cinema ben lo sa, e che stavolta è riuscito a rendere senza dover ricorrere a escamotage narrativi o di prospettiva di nessun tipo. Un giro in auto e a piedi per la città deserta, questo il racconto, con tanti luoghi che fanno parte dell’immaginario collettivo, anche di chi a New York magari non c’è mai stato, ma conosce la Grande Mela per averla vista in tanti film, il tanti telefilm, averla letta, sentita, ascoltata, ricordo che la prima volta che ci ho messo piede, nel 2000, in compagnia di Cristina Donà, prima tappa del nostro coast to coast sulle orme di Springsteen, ve ne ho già parlato, quello che poi sarebbe finito dentro God Less America, ho provato quel genere di spaesamento, la psicogeografia praticata senza neanche sapere cosa fosse la psicogeografia, quando ci si trova a camminare o guidare, l’ingresso lo abbiamo fatto in auto, provenienti dal New Jersey, passando sotto l’Hudson, il fiume di NY, nel medesimo tunnel nel quale si svolgeva un film che proprio in quei giorni era al cinema, un tunnel che nel film veniva inondato dall’acqua dell’Hudson, appunto, ricordo che la prima volta che ci ho messo piede, ho provato quel genere di spaesamento che si prova quando si vive un’esperienza per la prima volta, avendo però la consapevolezza di averla già vissuta, un deja vu, per certi versi, il gatto che passa due volte in Matrix, film incredibile dei fratelli Wachowski, oggi sorelle Wachowski, e già solo questo loro aver cambiato il sesso, entrambe, è di per sé una incredibile storia vissuta da chi ci ha raccontato incredibili storie, conoscevo la sequenza delle strade che percorrevamo in auto, io e Cristina, o a piedi, seppur io non fossi mai andato a New York prima di allora, luoghi iconici, quelli raccontati dal video di Spike Lee, luoghi che fanno parte a pieno titolo del nostro immaginario occidentale, solo che privi di persone, vuoti, deserti, desolati.

Abbiamo tutti visto le immagini delle nostre città deserte, le abbiamo trovate sui siti dei quotidiani, le abbiamo visti nei telegiornali, negli speciali televisivi, fatte coi droni, girate da cameraman che abbiamo immaginato intabarrati come i Ghostbuster, e ci hanno colpito dritti al cuore, impietriti, annichiliti sia dalla bellezza delle nostre città, certo, ma soprattutto da quell’essere di colpo vuote, immobili, ferite.

Vedere New York deserta, almeno nei primi due minuti del video, avrebbe potuto sortire lo stesso effetto, non fosse che Spike Lee ha giocato un jolly di quelli che avrebbero reso vano qualsiasi bluff, ha usato come colonna sonora Frank Sinatra che cantava New York New York. Sentire The Voice scandire come solo lui sapeva fare “mi voglio svegliare nella città che non dorme mai”, pensare alla gaffe clamorosa del sindaco Sala, una delle tante gaffe che ha inanellato in questi mesi, ultima in ordine di arrivo il definire “autogol” la richiesta di commissariamento della Regione Lombardia, per non dire delle altre cazzate, dalla preghiera alla Madunina alla Bella ciao stonata con Saturnino, passando per i toni da sceriffo rivolti ai ragazzi di via Bixio o a quelli de Navigli, alla Milano che deve la-vo-ra-re e non per vezzo, non fatemi fare questo avvilente elenco, dai, pensare alla gaffe clamorosa del sindaco Sala e al suo hashtag Milano Non Si Ferma, sentire The Voice scandire come solo lui sapeva fare “mi voglio svegliare nella città che non dorme mai”, pensare alla gaffe clamorosa del sindaco Sala e al suo Milano Non Si Ferma, provare un lieve senso di disagio e di vergogna, ma poi commuoversi, sì, commuoversi fino alle lacrime nel vedere comparire, così, a tradimento, ma senza retorica, con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto, medici e infermieri, uguali a quelli raccontati male dai tanti spot melensi visti nella nostra televisione, ma spogliati di pelosità, sinceri, lì con le mascherine, i guanti, le cuffie, gli occhialoni, le tute celesti, un omaggio che, in quanto tale, non deve veicolare un messaggio promozionale, non deve farci pensare che questa o quell’azienda sono in fondo degne del nostro rispetto, che quei prodotti lì, quelli che sul finale compaiono, meritano i pochi soldi che questa pandemia ci ha lasciato sul conto, sempre che ce ne abbia lasciato qualcuno, ma vuole comunicare un atto d’amore, e l’amore, è noto, non è un prodotto da promuovere, è l’amore.

Spike Lee ama New York.

È chiaro.

La ama da sempre, ricordo l’effetto sconvolgente che mi ha fatto Fa’ la Cosa Giusta, quando l’ho visto al cinema Goldoni di Ancona con Marina, nel 1989, esattamente l’anno di Ti Lascerò della Oxa e Leali e di Un giorno non mi perderai più, un filo distanti da quell’estetica così urban, l’effetto straniante di quel modo di filmare così sghembo, ritmato, storto, unico, rap che si faceva cinema, e ricordo anche come Giuliano, il fidanzato dell’epoca di Antonella, compagna di studi di Marina, eravamo andati al cinema in quattro, due coppie, non si capacitasse proprio di quell’incredibile estetica, come l’Erminia messa in scena da Alberto Sordi di fronte all’arte contemporanea, “Ma non potrebbe girare le scene in modo più normale?”, una botta di vita e vitalità, poesia urbana, incredibilmente supportata dalla musica dei Public Enemy.

New York New York di Spike Lee è pura poesia, e dentro quella poesia, con quelle immagini senza filtri, la voce di Frank Sinatra che ci culla poggiandoci la mano sulla spalla, le immagini dei medici e degli infermieri, lì sì eroi, senza sovrastrutture e falsità, sono commoventi, gente come noi cui noi ci siamo trovati a delegare il destino delle nostre vite.

Passerò i prossimi giorni a guardarmi tutti i film di Spike Lee che negli ultimi giorni mi sono perso, credo, e pensando che noi abbiamo i Muccino, le Comencini, le Archibugi o quel cinema lì, confesso, mi ritroverò nuovamente a piangere, ma non per commozione.