Troppo (Tommaso) Paradiso

Il titolo potrebbe trarre molti in inganno, quindi chiarisco: ambisco a un mondo in cui uno come me non sappia che esiste uno come Tommaso Paradiso

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Mi chiamo Michele Monina, come tutti.

Se mai mi decidessi a raccontare in un’unica soluzione quello che ho provato a fare negli ultimi cinque anni è così che partirei. Anzi, è così che dovrei partire, senza tante possibilità alternative. Ve lo accennavo in questi giorni di clausura, ci provo ora.

Mi chiamo Michele Monina, come tutti.

Chiaramente il titolo sarebbe “Troppo (Tommaso) Paradiso”, perché di spiegare troppo nello specifico cosa ho fatto, è chiaro, non mi interessa più di tanto, e vorrei lasciare fosse quanto già fatto da altri a parlare per me.

Mi chiamo Michele Monina, come tutti.

Suona anche bene, diciamocelo.

Il titolo, invece, a parte la boutade, potrebbe trarre molti in inganno, perché di Tommaso Paradiso si parlerebbe poco o niente, ambisco a un mondo in cui uno come me non sappia che esiste uno come Tommaso Paradiso, credo sia noto, ma le citazioni sono citazioni, sono pegni che vanno pagati, anche quando giocano sulle assonanze, o meglio, sulle parodie, per cui va bene così.

Il fatto è che mi sono sempre trovato a metà di un guado, dove per “sempre” intendo dal momento esatto in cui ho deciso di provare a scrivere qualcosa che non risultasse troppo derivativo, che avesse una lingua riconducibile a me, uno stile mio, e che soprattutto raccontasse qualcosa che mi interessava raccontare.

Da quando, in sostanza, ho smesso di scimmiottare prima Nanni Balestrini, nel mio tentativo goffo di darne una versione pop, postmoderna e postmodernista, contemporanea, e soprattutto da quando ho smesso di inseguire gli autori avant-pop americani, quelli sì scimmiottati a loro insaputa. Quando si comincia a scrivere, del resto, come quando si comincia a suonare, ci si fa le ossa copiando chi c’è già stato, non credo di avere avuto un percorso particolarmente originale, da questo punto di vista.

Il guado in cui però mi sono trovato, nel momento in cui ho deciso che era giusto il giorno di inseguire la mia strada, è stato quello che si trova esattamente a metà strada tra la famosa frase di Ernest Hemingway, quella che recita “Si deve scrivere solo di ciò che si è vissuto, che si conosce“, e il motto di Hunter Thompson e dei gonzo jounalist, “si può essere veritieri anche senza essere rigidamente oggettivi”.

Ora, partendo dal presupposto che nessuna delle due frasi tra virgolette è esattamente come Hemingway e Hunter Thompson le hanno pronunciate, sempre che le abbiano mai realmente dette, e che quindi quelle virgolette sono a loro volta una mistificazione, come buona parte della mia vita, potete ben intuire da che parte di quel guado io mio sia spostato, senza se e senza ma.

Anche se dire che io abbia scelto Thompson e il gonzo journalism invece che l’hemingwayana tendenza a scrivere di ciò che si è vissuto è a sua volta un falso, perché, magari ci avete fatto caso, tendo a essere dentro tutto quello che scrivo e tendo a scrivere quasi esclusivamente di faccende che in qualche modo mi abbiano visto nei paraggi, se non addirittura di cui ero protagonista.

Come è possibile questo paradosso?

Oops, tocca che mi fermo, di nuovo, dopo parecchi giorni, non ricordo più quanti, perché ho appena superato i due milioni di battute, boom, oltre trecentotrentaquattromila battute. Badaboom. Posso riprendere dove mi ero fermato.

Come è possibile questo paradosso?

Semplice, volendo fare mia la massima di zio Ernest, ma al tempo stesso non essendo minimamente interessato a andar per guerra, come in effetti lo zio Ernest ha fatto, vivere in modo assoluto al solo scopo poi di scriverci su libri e a un certo punto uccidersi, sorte del resto toccata, sempre che il suicidio sia una sorte che tocca, anche a Hunter Thompson, a volte gli estremi si toccano, non dico niente di particolarmente originale, lo so, ho optato per muovermi nell’apparentemente meno pericoloso mondo della musica, andando quindi a vivere quello di cui avrei scritto. Non quindi, come l’incipit poteva ingannevolmente lasciar intuire, raccontare poi cose che ho vissuto, facendole confluire in un’opera di fantasia che da quelle situazioni vissute prendeva il via, ma, al contrario, rendere reali situazioni che pensavo e penso possano in qualche modo rendere possibile un mio racconto, racconto dentro il quale io non mi limito a essere il narratore e la voce narrante, e ben sapete che le due figure, che spesso coincidono, specie in Italia, non sono necessariamente la stessa cosa, anzi, possono non essere neanche entrambi presenti, figuriamoci, ma racconto dentro il quale io sono sia il narratore che la voce narrante, ma sono anche uno dei protagonisti, se non il protagonista assoluto, incarnazione del mio stesso immaginario che, in quanto incarnazione del mio stesso immaginario, tende a influire direttamente nell’immaginario stesso e nella poetica che da quell’immaginario scaturisce.

Ho in realtà fatto qualcosa di più, quindi, di quanto ipotizzato da Ernest Hemingway, sono entrato nella storia, non in quella con la esse maiuscola, ovvio, ma quella meschina di chi scrive di pop, di musica leggera, italiana, e in qualche modo mi sono andato a mettere lì, in un angolo, provando a diventarne in qualche modo attore.

Certo, avessi voluto provare a farlo con la storia con la esse maiuscola, la Storia, avrei dovuto imbracciare un fucile, indossare una qualche divisa più o meno ufficiale, magari morire, qui si è trattato di entrare in un ecosistema certo fragile, ma non eccessivamente selettivo, e farmi largo. Ecco, il modo di dire “farsi largo” è quantomai appropriato, e per una volta sono poco narrativo e molto cronachistico, non me ne voglia lo spirito indomito di Hunter S. Thompson. Perché io ho fatto esattamente questo. Sono entrato dando spallate, a volte anche testate, sempre e comunque entrando a gamba tesa, e mi sono andato a prendere quello che ho raccontato più volte come “mio”, ma che in realtà era un ruolo e uno spazio che fino a quel momento nessuno aveva reclamato semplicemente per assenza di una visione da parte dei tanti che già stavano operando nel settore, vuoi per miopia, vuoi per pigrizia, vuoi per interesse o più semplicemente per incapacità di avere una visione.

Come se, dovendo mettere in scena una qualche piece teatrale, gli attori e il regista si fossero dimenticati di assegnare un ruolo, o magari come se, durante le prove di una qualche piece, un ruolo venisse fuori dal nulla, prima neanche immaginato. A dirla tutta, nel mio ruolo hemingwayanamente incarnato e raccontato l’arroganza e la spavalderia ha un peso specifico molto alto, lo so bene me lo sono inventato io, quel ruolo, a dirla tutta è come se regista e attori, mettendo in scena una qualche piece teatrale, si fossero dimenticati di assegnare un ruolo e che quel ruolo poi, guarda a volte il destino, si sarebbe rivelato come uno dei ruoli principali.

Lo so che non dovrei star qui a raccontare queste cose, perché da una parte passo per uno sbruffone che se le canta e se le suona, e quella dello sbruffone è una figura che in effetti ben si lega a uno che ha appena detto che si è fatto largo nel mondo della musica leggera italiana, stocazzo in mezzo a tanti stocazzetti, dall’altra è un po’ come se un prestigiatore andasse a spiegare il proprio trucco, tanto per giocare la carta del modesto, non esattamente l’aggettivo che suppongo venga più spesso associato al mio nome, volendo anche uno di quei prestigiatori da quattro soldi che fanno gli spettacolini in parrocchia, che li vedi e già sai che hanno nascosto la moneta che faranno comparire dietro l’orecchio del bambino chiamato a fargli da collaboratore tra il pubblico dentro il polsino della camicia.

Ecco, è come se io fossi quel prestigiatore lì, e lo so che aver giocato la carta del falso modesto è ancora più irritante del fare lo sbruffone, non pensiate che lo abbia fatto a caso, cuccioli che non siete altro, che proprio nel momento in cui sta per tirare fuori goffamente la moneta che ha nascosto in precedenza nel polsino della camicia, il tutto mentre muove platealmente l’altra mano per distrarre il pubblico, un pubblico parrocchiale, composto in prevalenza da anziani e bambini, intendiamoci, sono quel prestigiatore lì che però, sul più bello, si ferma e svela che la moneta è nascosta, mandando a puttane un trucco che, per lo più, anche i bambini più piccoli avrebbero potuto intuire. Ma lo faccio, io che scrivo, usciamo da questa poco riuscita metafora, a ragione veduta. Perché ci tengo a sottolineare come tutto questo sfoggio di autobiografismo, più o meno reale, comunque come tale venduto, non è frutto di un rincoglionimento dovuto all’avanzare dell’età, allo stordimento dovuto al lock down, alla paura per un futuro incerto che, dopo il Coronavirus, appare legittimamente anche più incerto, né il vezzo di uno che in qualche modo pensa di poter fare un po’ il cazzo che gli pare, anche se fare un po’ il cazzo che mi pare è in fondo una delle peculiarità proprio del mio lavoro di scrittore e non a caso sono uno scrittore che da anni si è presentato nel music business come un critico musicale.

Intendiamoci, l’aver giusto ora messo le mani avanti, l’aver, cioè, indicato due non-cause della china che la mia scrittura ha preso nel corso dei mesi, degli anni, l’aver quindi negato che questa china dipenda da quelle che in apparenza potevano essere le due motivazioni più scontate e plausibili, perché questa faccenda del Coronavirus, diciamolo, la stiamo usando davvero in troppi per giustificare la piega che la nostra vita ha preso, non è poi una scusa così originale, rende meno sbruffone il mio essermi dipinto come sbruffone, lo so. E da una parte questo potrebbe anche aiutarmi nel posizionarmi come uno di voi, uno che ammette le proprie fragilità, gli occhi velati di lacrime, il fiato corto, dall’altro, e siamo temo più dalle parti del vero, è un semplice trucchetto narrativo, ma proprio uno di quelli elementari che chi scrive usa per tirare dalla sua parte lettori che si teme stia cominciando a provare antipatia per la voce narrante, nel caso di chi scrive articoli ovviamente la voce dell’articolista, ma io non scrivo articoli in genere, figuriamoci se si possono chiamare articoli i capitoli di un diario del contagio che proprio oggi tocca le novantuno puntate e ha seraficamente perforato il muro i due milioni di battute, mica cazzi.

I fatti in realtà sono semplici.

Non essendo Ernest Hemingwy, non essendo cioè portato per mia natura al volermi dare all’avventura lucidamente, solido nelle mie sicurezze seppur fragile all’interno del mio animo, non essendo, men che meno un folle genio come William T. Vollmann, capace di andare a puttane e drogarsi nel Tenderloin di San Francisco per raccontare il sottobosco del Tenderloin di San Francisco, capace di andare in guerra in Afghanistan per raccontare la guerra in Afghanistan, capace di vestirsi e truccarsi per mesi da donna per scrivere il Libro di Dolores, ma al tempo stesso non essendo, che so?, il compianto Eduard Limonov, uno cioè che ha vissuto una vita talmente avventurosa da essere quasi incredibile quando poi la racconta nei suoi libri autobiografici, morto non di Coronavirus proprio durante il Coronavirus, outsider anche nell’uscita di scena, ho optato per vivere quello che volevo raccontare, andando quindi a costruire un personaggio abbastanza simile a me che fosse però credibile per il lettore, e soprattutto che fosse credibile per il mondo nel quale questo personaggio doveva muoversi, quello della musica.

Quindi ho cominciato a scrivere articoli che lasciassero trapelare uno spirito punk piuttosto spinto, seppur articoli, scritti mi piace chiamarli, visto che non sono un giornalista, scritti che usassero lo stile per connotare l’animo dello scrivente, la forma che si fa sostanza. Un passaggio dal “mi sono fatto largo” al “sono entrato a gamba tesa”, non che esistano troppe differenze tra i due modi di dire. Ho anche giocato sin da subito la carta dei social, almeno da quando questo mio ritorno nelle scene, avevo già iniziato a percorrere questo sentiero una quindicina di anni fa, ma in maniera meno ragionata, meno d’autore, prima non c’erano i social, non erano neanche vagamente ipotizzabili, ho anche giocato quindi sin da subito la carta dei social, come ormai tutti fanno, dove da una parte mi sono caratterizzato come uno senza peli sulla lingua, riottoso e violento, sempre e comunque borioso e arrogante, dall’altra mi sono mostrato per quello che in realtà sono, un amabile padre di famiglia, innamorato perso di sua moglie.

Ecco, questa frase, così sdolcinata, piazzata qui, avrebbe sì potuto portare almeno una buona parte di voi dalla mia parte, ma non è questa la mia intenzione, infatti son qui a disinnescarla in tempo reale. Intendiamoci, sono davvero molto innamorato di mia moglie, chi mi segue sui social lo sa, e se siete tra quanti hanno seguito anche solo una parte di questo mio diario del contagio lo avrà ben capito, sono davvero molto innamorato di mia moglie Marina e i nostri quattro figli sono uno spettacolo, anche di loro vi ho a lungo parlato, sono uno spettacolo, ci potete scommettere, ma spesso gioco la carta del padre di famiglia innamorato della propria moglie anche per spiazzare chi mi segue, perché ben so che da uno che consideri una testa di cazzo non ti aspetti dichiarazioni d’amore o gesti affettuosi.

Del resto nel mio raccontare questo storia ho commesso proprio un errore nel momento in cui ho dato voce alla mia penna, nel momento, cioè, in cui sono comparso, prima in tv e poi in radio, ricordate mesi fa, ormai, quando vi ho raccontato la faccenda dell’essere e dell’esserci?, perché anche se ho sempre detto quel che in fondo penso, togliete pure quello stupido “in fondo”, perché nel costruire il mio personaggio ho sempre giocato sullo stile ma non ho mai tradito neanche per un secondo il mio reale pensiero riguardo la musica di cui ho detto, un conto è scriverlo, con un uso della penna che, me lo continuo a dire da solo, controllo senza fatica, un conto è farlo a voce, mettendo quei pensieri e quello stile sulla mia faccia e soprattutto sulla mia voce.

Perché, non sono mica nato ieri, se ben so che la mia immagine ha contribuito a creare il mio personaggio, le felpe del West Ham e della Svezia, le t-shirt dei Faith No More o dei Dead Kennedys esibite in contesti ultramainstream, in Rai o a Rtl 102,5, i capelli lunghi, inizialmente, e per inizialmente intendo nei miei primi passaggi al DopoFestival di Savino e della Gialappa’s, mio battesimo televisivo, legati alla Busta Rhymes sopra la testa, la barba incolta, le mie foto di profilo sui social con gli occhiali da mosca rosa e i codini come Frank Zappa, ma so anche bene che la mia voce, affatto spigolosa, il mio accento marchigiano, di una regione, cioè, ritenuta da tutti simpatica, nonostante certi detti che ci vogliono esattori delle tasse ai tempi dello Stato Pontificio, e soprattutto il mio atteggiamento educato, mai aggressivo nei confronti delle persone, seppur duro nei confronti delle opere, ha in qualche modo indebolito quanto fatto fino a quel momento.

Certo, Nek che mi manda a cagare nella diretta del Finalmente Sanremo dell’anno scorso, la lunga diretta dalla riviera fatta per Rtl 102,5 in compagnia delle altre due Emme sparate per giorni negli spot, Mara Maionchi e Cristiano Malgioglio (si parlava di tre Emme, io ero una delle tre), ha aiutato molto in questo frangente, così come, in precedenza, ha molto aiutato essere stato mandato ripetutamente a cagare, più o meno esplicitamente, da tanti artisti, dalla Pausini a Fedez, a proposito di Stocazzo e Stocazzetto, il fatto che Fedez mi rispondesse su Twitter, a proposito di tweet sulla tragedia di Corinaldo, o meglio, che rispondesse a miei tweet in cui lo chiamavo Stocazzetto, come ho sempre fatto nei miei articoli in cui parlavo di lui, beh, è uno dei momenti più surreali di questi tanti anni di vita vissuta nei panni del critico musicale, dalla Pausini a Fedez, quindi, passando per Antonacci e tanti tanti altri.

Anche questo ha contribuito alla mia narrazione, come se il mio essere protagonista di un Mockumentary che vedeva me stesso fare il critico musicale in Italia, oggi, trovasse la collaborazione di un po’ tutti gli altri attori, dagli artisti, inutile citarli tutti, perché proprio di tutti si parla, ai discografici, passando per i promoter, gli uffici stampa e anche i sedicenti colleghi.

Colleghi che mi hanno ovviamente accolto come si accoglie una merda, perché i più giovani mi hanno visto come un vecchio che andava a mangiare nel loro piatto, la rete, mentre i miei coetanei, tutti accasati nei giornali importanti, si sono visti in qualche modo spazzare via, a livello di immaginario, da uno che semplicemente diceva l’opposto di quanto da loro detto per anni, o meglio, da uno che si alzava in piedi mentre loro erano da sempre a quattro zampe.

Un bullo, così sono stato spesso dipinto, che ha fatto del distruggere la propria poetica, ma loro non hanno usato la parola poetica, neanche la conoscono, probabilmente, togliete pure quest’ultima parola. Esattamente come, per molti artisti da quei lecchini mai cagati, sono una sorta di Robin Hood che difende i maltrattati dallo sceriffo di Nottingham.

Come si dice in genere parlando del 25 Aprile, sono divisivo, difficile conoscermi e rimanere indifferenti di fronte a me, o mi si odia o mi si ama, o viceversa, a seconda della fazione cui si decide di appartenere o si appartiene naturalmente (nello specificare questo, con le reiterazioni ridondanti che sono peculiarità specifica della mia cifra, lo so, anche quelli che mi amano sono passati dalla parte di quelli ai quali sto sul cazzo).

Per dirla con il Simon Reynolds di Polvere di stelle, il suo saggio sul glam rock, ho provato a costruire una maschera, esattamente come all’inizio degli anni settanta hanno fatto i protagonisti di quella scena, una maschera che tenesse coerentemente insieme uno spirito a suo modo rivoluzionario con uno decisamente più reazionario, sorte poi capitata con meno consapevolezza ai punk. E visto che parlo di Reynolds, magari impropriamente, è evidente che lui e Chuck Klosterman siano sempre stati lì, da qualche parte nella tavolazza dei colori dai quali ho attinto per dipingere questo quadro, ma è altrettanto ovvio che il loro stare lì, da qualche parte non abbia mai conciso, per me né per il mondo nel quale mi sono trovato a muovermi, con una qualche parentela, assai meno considerato io per tutta quella nicchia di intellighenzia che di musica si occupa e che cita a ragione Reynolds e Klosterman (in realtà Klosterman non lo cita mai nessuno, non ho mai capito esattamente perché), e che magari leggendo queste parole, non perché io pensi che quella nicchia di intellighenzia mi legga abitualmente, intendiamoci, ma magari mi sta leggendo in questo diario del contagio, per noia o per disperazione, anche loro saranno passati tra quanti ai quali sto sul cazzo, è ovvio.

Io sono un critico musicale pop, troppo poco serio per chi si autoproclama serio, troppo poco pop per chi si proclama leggero.

Ma ci sono.

E tanto questa faccenda dell’esserci è stata presa sul serio che sono finito dentro vicende chiacchieratissime, come la famosa questione “conflitto di interessi di Claudio Baglioni a Sanremo”, primo attore sparato in televisione da Striscia la Notizia, Pinuccio l’inviato di turno, e ripreso quotidianamente da Dagospia, il tutto dopo aver ricevuto avance da Maria De Filippi, avance professionali, che pensate?, e aver passato tre anni a discutere di musica demmerda nella patria della musica demmerda, Rtl 102,5, Suraci che mi assolda dopo aver detto che era parte di una triade, e vai di L’Anticonformista Michele Monina, in trio con Pio e Amedeo, vai di Monina Against the Macine, va di Le Tre Emme, Maionchi, Malgioglio e Monina, voce del principale network radiofonico italiano a Sanremo, critico musicale con una rubrica per tre anni in quel medesimo network, Ferdinando Salzano che non mi assolda dopo che gli ho detto che era parte di una triade, sicuro non è me che ha assoldato.

Sono stato intervistato da un po’ tutti i tg come esperto di musica, la libreria di casa mia è finita come sfondo al Tg1 come al Tg5, sono stato opinionista per TV Blog, ospite di Chiambretti alla Repubblica delle Donne, ospite della mia amica Andrea Delogu quando faceva su Radio Rai2 i Sociopatici, fatto cose, incontrato gente.

Ho vissuto quello che ho raccontato, spesso raccontandolo un attimo prima di viverlo. Ho dato del nano all’uomo più potente dello show business italiano, specificando di come mi avesse minacciato di farmi male fisicamente e chiudendo il racconto con una controminaccia a lui rivolta, ho parlato di chitarre e dobro con Zucchero, di cavalli che affogano dal culo con Gianni Morandi, dopo averne scritto a riguardo del disco del suo ex genero, per altro, ho a lungo cullato l’idea di fare un’intervista in sauna nudi con Giorgia, dopo averne fatta una a letto insieme, Gigi D’Alessio mi ha dedicato “Anna se sposa” agli Arcimboldi e Enrico Ruggeri Punk prima di te” in quella Marotta in cui ha scritto Mare d’inverno, Marino Severini della Gang mi ha definito “un guru”, Teresa De Sio “una leggenda vivente”, Tommaso Paradiso, quel Tommaso Paradiso finito incautamente nel titolo di questo articolo, scritto mi piace chiamarli visto che non sono un giornalista, mi ha dedicato il primo pensiero dopo aver tenuto il famoso concerto al Circo Massimo, contento lui, Fiorella Mannoia mi ha dato del maschilista, ho devastato il Concertone del Primo Maggio di Roma per la imbarazzante assenza di donne sul palco, Ivano Fossati, il mio idolo di sempre, mi ha accolto dicendomi “finalmente conosco il temutissimo Monina”, Francesco De Gregori, mio mito d’infanzia, si rifiuta di incontrarmi per quello che ho scritto di lui, a ragione, Emma mi ha perculato per un intero tour, dicendo “anche stasera non c’è nessuno”, per altro non negando il punto fondamentale dell’articolo che così tanto l’ha fatta incazzare, il fatto che ai suoi concerti ci sia sì tanta gente, ma spesso senza pagare il biglietto, durante un Sanremo ho imposto l’hashtag #lafigalaportoio in trend topic, l’anno dopo ho monopolizzato la comunicazione facendo saltare i nervi a Baglioni e al suo entourage, con la direttrice di Rai 1 che ha iniziato la sua prima conferenza stampa rispondendo a una mia domanda fatta su un m io scritto. Sono finito dentro almeno tre o quattro canzoni, al MiAMi, di cui ho sempre detto tutto il male possibile, un collettivo è salito sul palco leggendo miei articoli, scritti mi piace chiamarli visto che non sono un giornalista, indossando maschere con la mia faccia. Mi hanno negato accrediti artisti che neanche conosco, mentre ho ricevuto messaggi e telefonate da miei miti d’infanzia. Ho lanciato una campagna di crowdfunding che aveva per tema il mio ipotetico ritiro, Monina Sì vs Monina No, tirando su 11 mila euro e coinvolgendo a mio favore oltre duecento artisti, da Ligabue a Luca Carboni, passando per un po’ chiunque vi venga in mente, compreso Vasco Rossi. Vasco che non cito, perché che io e lui si sia in sintonia direi che ormai lo sanno anche i sassi,  libri firmati insieme, un film su di lui di cui sono stato autore, e se poteste leggere cosa mi scrive in privato capireste meglio la portata di quel che state leggendo, fidatevi di un mentitore professionista.

Insomma, ci sono e non ho mai inventato niente di quello che ho scritto, sono un intellettuale, certo, uno scrittore, anche, e sono pure un critico musicale, ho studiato per diventarlo, continuo a studiare per esserlo, per questo risulto credibile, per questo sono stato accettato nel sistema musica, pur essendo stato costantemente lì a pisciare sulla sua lapide, a prenderlo a picconate, per questo sono diventato prima visibile, poi rilevante, forse anche imprescindibile, sono un intellettuale, sono uno scrittore, sono un critico musicale, anche se mi sono guardato bene dallo scrivere esattamente le cose per come sono andate, perché lo stile è più importante della verità, la visione più importante del processo che dovrebbe permetterne la realizzazione, la forma è sostanza, e, torno ancora una volta a citare il già citato Neil Gaiman, anche io “Non volevo essere inchiodato alla verità; o per essere preciso, volevo essere in grado di dire la verità senza dovermi preoccupare dei fatti”, quindi, quando i fatti non coincidevano con la verità che volevo raccontare mi sono limitato a cambiare la realtà, entrandoci a gamba tesa, andando poi a raccontarla il meno fedelmente possibile.

Tutto questo sono stato e sono.

Cosa sarò è difficile prevederlo ora, con novantuno giorni di clausura alle spalle e altri ancora a venire, col mondo nel quale sono entrato e mi sono imposto che sembra definitivamente in agonia, moribondo se non già morto, con me stesso passato incautamente dal ruolo di Cassandra, a dire “sta per arrivare l’apocalisse” a quello di Plinio il Giovane, a dire “è solo cenere e lava”, un moralizzatore senza più immorali da moralizzare, uno psicogeografo chiuso dentro una stanza senza droghe, uno scrittore che ha già scritto oltre due milioni di battute di questo diario del contagio.

Cosa sarò e cosa sarà è difficile davvero prevederlo, ora.

Meglio fermarsi alle mie sole certezze, quindi.

Mi chiamo Michele Monina, come tutti.