Georgetown è il primo film diretto da Christoph Waltz, che nei titoli di testa si firma solo come C. Waltz. La vicenda è tratta da una storia vera raccontata dal New York Times nel 2012, in un articolo dal titolo Albrecht Muth e Viola Drath: il peggiore matrimonio di Georgetown.
Il protagonista qui diviene Ulrich Mott (lo stesso Waltz), tedesco emigrato in America, che fa carriera col metodo più rapido, sposando una donna di cui sfrutta l’enorme patrimonio di relazioni. La fortunata, Elsa Brecht (Vanessa Redgrave), celebre giornalista, è però un’anziana con trent’anni più di lui. Ulrich entra nelle sue grazie approfittando del suo smarrimento per la recente vedovanza, con grande sconcerto della di lei figlia Amanda (Annette Bening).
Da quel momento in poi Ulrich sfrutta le conoscenze della donna per accedere a quella comunità esclusiva ed endogamica che gestisce il potere a Washington. Politicanti, imprenditori, opinion leader presso i quali accreditarsi come un lobbista di vaglia con la sua società dal nome reboante, Gruppo Persone Eminenti. L’intraprendente Ulrich partecipa a party, convegni e pranzi che contano e diventa l’uomo “impossibile da ignorare” nei salotti giusti. Talento da attore consumato, è capace di presentarsi a delicate riunioni diplomatiche con una benda sull’occhio neanche fosse Moshe Dayan.
Georgetown ricostruisce il profilo di Ulrich Mott attraverso capitoletti che ne seguono l’ascesa, guardata però dalla prospettiva del suo fallimento. Perché una sera, dopo l’ennesima cena casalinga con alti papaveri e l’ennesima lite con Elsa, che ormai comincia a nutrire sospetti, la donna viene ritrovata nottetempo priva di vita. E ad essere accusato del delitto è l’ineffabile Ulrich, arrestato e messo sotto processo.
In tribunale le cose non migliorano: lui tratta con sufficienza i suoi avvocati e continua a mischiare le carte attribuendosi persino alti gradi militari. Ed è difficile capire cosa sia vero e cosa no. Anche perché, tra i successi millantati, ce n’è uno che non può essere messo in discussione, ottenuto sull’incendiario scacchiere mediorientale. E quindi: mitomane, truffatore, guitto o genio incompreso?
Georgetown ribadisce quanto, nel cosiddetto paese delle opportunità, certe comunità restino inaccessibili a chi non appartenga per nascita o diritto all’esclusiva aristocrazia wasp. E il tedesco Ulrich non ha tutti i torti nel difendersi dicendo: “Mi sono fatto da solo. È un crimine? Forse a Washington lo è”. Il film ricorda a tratti Big Eyes di Tim Burton, nel quale Waltz interpretava un bugiardo manipolatore della propria compagna o L’Incredibile Vita Di Norman con Richard Gere, altra storia (im)morale di un aspirante faccendiere scandita in capitoli.
Ma non è neanche nelle palesi somiglianze la debolezza maggiore di Georgetown. Che da un lato dipende proprio dal Waltz attore: interprete magnifico nelle mani del regista giusto, come il Tarantino di Bastardi Senza Gloria e Django Unchained – due Oscar meritatissimi –, o il Polanski di Carnage. Altre volte l’attore tende a esasperare gli accenti, gigioneschi in Big Eyes o come qui privi della necessaria grandezza mefistofelica. E poi, sorvolando sull’anonima direzione del Waltz regista, il vero problema è la sceneggiatura.
Lo spettatore vede passare Mutt da una stretta di mano a un pranzo a una riunione con alti papaveri senza che si capisca mai davvero nulla dei suoi piani. Più che nel segno dell’ambiguità, il racconto procede fumoso, impreciso, incapace di delineare intorno al protagonista una storia paradigmatica o altri personaggi incisivi. Così che, alla fine, la resa dei conti del capitolo intitolato “La Verità”, si sgonfia in colpi di scena telefonatissimi e ininfluenti. Georgetown appartiene a un genere che funziona solo con uno script di ferro, senza il quale le ambizioni da apologo, inevitabilmente, naufragano. Ed è esattamente il caso di un film che, come il suo protagonista, simula una grandezza e un’esemplarità molto al di là dei meriti effettivi.