La realtà ha superato la fantasia e Hollywood non riesce a starle dietro. La vita vera produce vicende incredibili e il cinema americano le traduce in film incolori: vedi recentemente The imitation game, sul matematico Alan Turing e ora Big Eyes, biopic della pittrice Margaret Keane. Ma stavolta, essendo Tim Burton il regista, la delusione è maggiore, e inutilmente si cercheranno tra le pieghe delle immagini tracce del suo visionario talento.
La storia offriva molti spunti. Anni Cinquanta: abbandonato il marito, la pittrice Margaret (Amy Adams) incontra a San Francisco Walter (Christoph Waltz) e lo sposa. Lei dipinge bambini dai grandi occhi tristi, che dànno ai quadri un tono di malinconico mistero. Negli anni dell’espressionismo astratto le gallerie d’arte rifiutano opere figurative così tradizionali. Ma Walter le rende un successo con geniali trovate di marketing: affitta le pareti di un famoso locale per esporle; apre una galleria di soli quadri di Margaret; stampa e vende, primo nella storia, riproduzioni delle opere.
Insomma rivoluziona il mercato dell’arte: da aristocratico svago dell’élite a passatempo per tutte le classi sociali. C’è un solo problema: Walter si spaccia come autore dei quadri. È cioè un tipico personaggio di Burton, come l’Edward Bloom di Big Fish: l’uomo che plasma la realtà a uso dei propri sogni, talmente immerso nelle proprie storie inventate da convincersi della loro veridicità.
L’altro tema è la trasformazione dell’arte in fenomeno di massa: ai feticisti dell’aura e della irriproducibilità dell’opera d’arte, Walter risponde commercializzando copie e gadget ispirati ai quadri, trattandoli alla stregua di una merce qualunque.
Le sue intuizioni anticipano chiaramente la Pop art, che teorizzerà il superamento della distinzione tra originale e suo duplicato, con l’opera stessa che diventa copia di prodotti di consumo. Una filiazione che Burton rende esplicita quando mostra un supermercato nel quale le riproduzioni dei “big eyes” fronteggiano banconi zeppi di ordinate scatole di merci, a loro volta del tutto identiche a Campbell’s soups e Brillo Boxes warholiane.
Walter Keane, insomma, muta lo statuto dell’arte, traghettandola nell’epoca dei consumi di massa. Per questo, alla ragazza che afferma “Oh, allora sei come Warhol”, lui può giustamente ribattere: “No, è lui che è come me. Io avevo una factory quando ancora lui non sapeva neanche cosa fosse un barattolo di zuppa”.
Purtroppo sono le sole intuizioni di un film inerte, che un Burton impersonale incarta in colori sgargianti e rassicuranti, poco adatti a una favola nera. Lo sfaldarsi della coppia è narrato con tono piattamente cronachistico, con una superflua e grottesca appendice processuale. L’autore si tiene lontano tanto dal mistero dei malinconici “big eyes” di Margaret quanto dai caratteri singolari dei coniugi Keane. Così Amy Adams si affida a uno scolastico mimetismo per interpretare una Margaret impalpabile e bidimensionale. Mentre il solitamente bravissimo Waltz tratteggia con insopportabile gigioneria un Walter mitomane e persecutore, macchietta privata dell’ambiguità e della genialità del personaggio. E il film rinuncia a immergersi nei risvolti perturbanti di una vicenda paradigmatica.
Stupendo! Veramente da grande attrice .
Lo trovo misogino e troppo meschino non è impraziale.