Partiamo da un dato di fatto, dover star qui a scrivere ogni giorno questo diario mi sta costringendo a confrontarmi non solo con questa anomala quotidianità odierna, ma anche con la mia vita passata.
Se uso il verbo costringere, detto per inciso, è perché mettermi ogni giorno davanti alla tastiera è una fatica, e lo dico consapevole di non essere uno che per lavoro si deve rimboccare fisicamente la maniche, sudare, che so?, per scaricare un camion, per alzare pesi, sudare al tornio, ma ugualmente consapevole che star qui a cercare ogni giorno le parole, tante parole, tantissime parole, sia difficile, manca la voglia, sicuramente, la concentrazione, anche, con tutte le giornate che si susseguono una uguale all’altra, tutta la famiglia intorno, a occupare gli spazi che solitamente sono solo miei, l’assenza di input, da una parte, intendendo con input gli spunti che solitamente attingo dal mondo della musica, con invece una serie piuttosto violenta di suggestioni e emozioni da gestire, canalizzare, metabolizzare e quindi mettere sulla pagina, cercando di essere originale e comunque interessante.
Insomma, una fatica, una fatica che vedo come una costrizione, una costrizione, però, cui mi sono sottoposto per mia stessa volontà, con la complicità dell’editore, certo, perché so che in assenza di questo compito quotidiano le giornate sarebbero ancora più lente, uno stillicidio credo si dica, e che in tutti i casi sarebbero prive di quella lettura sul mondo che lo scrivere mi concede, lì a sedere nella posizione privilegiata di chi ha un punto di vista unico su quanto sta accadendo, una visione.
Dover star quindi qui a scrivere ogni giorno questo diario mi sta costringendo a confrontarmi non solo con questa anomala quotidianità odierna, quella che infilo ogni giorno dentro queste pagine del mio diario del contagio, anche se spesso non così visibili come un diario potrebbe o dovrebbe prevedere, non sono un esperto del settore, non saprei dirlo con certezza, ma anche con la mia vita passata, quella sì ben visibile in queste pagine, immagino spesso per ragioni che risultano comprensibili solo a me, che di questo diario sono l’autore, più che a voi, che di questo diario siete i lettori, sappiate che a volte non risultano così comprensibili neanche a me, a dirla tutta.
Questo confronto, quello che poi voi trovate condensato in queste righe contorte, intrecciate, spesso sorrette su un equilibrio instabile, togli una tessera del domino e crolla tutto, questo confronto tra me e il mio passato, perché quello tra me e questa anomala quotidianità odierna credo che sia più facilmente decifrabile, non troppo differente, immagino, da quello che anche voi vivete con la vostra anomala quotidianità odierna da reclusi, e già dire condensato per qualcosa che si dipana dentro un percorso di migliaia di parole è di per sé una forzatura, non troppo diversa dalla forzatura che applico alla narrazione o alla logica che dir si voglia, questo confronto è una sorta di sfida all’OK Corral che ingaggio ogni giorno, più spesso ogni notte, quando cioè inizio a ragionare su cosa andrò a scrivere l’indomani, lì mentre mi rigiro nel dormiveglia nel letto, una sfida all’ultimo sangue che ingaggio con la mia mente, la Fortezza della Solitudine dentro la quale i miei ricordi se ne stanno arroccati, spesso semi- cancellati, più spesso rielaborati narrativamente dal me stesso narratore, sempre e comunque nascosti dietro una qualche barriera apparentemente impenetrabile se non in presenza di quello sforzo sovrumano di cui vi ho parlato anche solo poche righe fa.
Mi tocca, in sostanza, e senza dirlo con troppe parole, entrare in una sorta di trance che mi consenta di andare a pescare ricordi o rielaborazione di ricordi che in qualche modo possano impattare, Dio che parola orribile, con quello che la quarantena mi pone di fronte, un modo magari originale, questo mi auguro da autore, ma sicuramente non sanissimo di provare a dare un senso a quello che apparentemente un senso non ha, non essendo la mia vita dotata di un’autrice geniale come Shonda Rhimes, una cioè capace di spiegarmi oggi quel momento specifico di venti anni fa che all’epoca mi è sembrato semplicemente l’ennesimo accadimento privo di significato di una vita non esattamente avventurosa.
È quindi mentre sto qui a rimestare nel torbido del mio passato spesso anonimo che mi torna in mente un momento specifico della mia vita, sempre in quella metà degli anni Novanta che ormai da tempo è assurta a leit motiv dei miei scritti pre e post Coronavirus, che in qualche modo a uno specifico aspetto del Coronavirus stesso è legato a doppio filo, o almeno al suo immaginario più folkloristico.
Quando infatti ero un giovane punkettone coi capelli lunghi fino al culo, uno che stava svolgendo il suo servizio civile presso il dormitorio per senza fissa dimora di Falconara, la Tenda di Abramo, uno che suonava la chitarra negli Epicentro, uno che veniva schedato come anarchico presso la locale questura su indicazione del capo della Digos, uno che si cominciava a pensare come uno che nella vita sarebbe sempre stato un outsider, dalla parte sbagliata della strada, per dirla con quel Lou Reed che di lì a pochi anni avrebbe conosciuto, lui giovane traduttore di belle speranze, Lou artista piuttosto antipatico che aveva già dato il meglio di sé, e che meglio, a sceglierlo per tradurre la raccolta ufficiale dei suoi testi, quel Ho camminato nel fuoco che uscirà per la collana Strade Blu, la stessa presso la quale quell’uno, che poi sarei io, aveva esordito appena un paio di anni prima come romanziere, allievo di Nanni Balestrini forse troppo innamorato dell’avant-pop, uno che era già innamorato perso di colei che di lì a qualche anno sarebbe diventata sua moglie, nonché la madre dei suoi quattro figli, anche lei presente ai fatti tra poco narrati, quando, in sostanza, ero un venticinquenne in cerca della sua strada, strada che mi ha portato, venticinque anni dopo qui, dentro questa casa con queste sei persone, il Coronavirus là fuori a tenerci in ostaggio con la complicità di un governo incapace di trovarsi la punta del cazzo, figuriamoci se di tirarci fuori da una emergenza pandemica, un giorno ho avuto un incontro molto ravvicinato con un pipistrello, l’origine del Covid19 e di questo incubo senza fine.
In realtà, tanto per non tacere niente, avevo già avuto un incontro ravvicinato con un pipistrello qualche anno prima, gli anni novanta neanche cominciati, sempre in compagnia di Marina, mentre ero alla guida di quella Vespa 125 Primavera che poi sarebbe finita citata nel titolo di uno dei miei settantotto libri, il già citato Lo zen e l’arte della manutenzione della Vespa 125 Primavera.
Era sera tardi, in una di quelle giornate di fine estate nelle quali l’aria comincia a non essere più così calda come durante il giorno, in quelle che tecnicamente si chiamano escursioni termiche, e io e Marina stavamo tornando da non so che posto dalle parti del Conero. Questo, il fatto che stessimo tornando da qualche posto dalle parti del Conero me lo ricordo solo perché so perfettamente che la strada in cui quel primo incontro con un pipistrello avvenne è quella che si trova tra il centro di Ancona e il Conero, e siccome io e Marina eravamo lì a tarda notte, tornando verso casa, è evidente che avessimo passato la serata da qualche parte tra Portonovo, Sirolo, Numana o Marcelli.
Eravamo infatti lungo la strada che da Pietralacroce porta verso il Passetto, lo dico per gli anconetani all’ascolto, il Forte Altavilla alla nostra sinistra, pronti a imboccare la discesa che porta verso via Santa Margherita, l’aria che arrivava dal mare, alla nostra destra, tagliente come una lama sulle mie gambe e braccia ancora scoperte.
Marina aggrappata a me, così funzionava andando in Vespa, io guidavo e lei stava seduta dietro, aggrappata ai miei fianchi, la mia pancia prominente di questi anni odierni allora anche solo impensabile.
La Vespa 125 Primavera, primo mezzo di locomozione della mia età semiadulta, prima avevo giusto avuto una Graziella celeste di seconda mano, mai usata, uno skateboard rosso e qualche cariolo fatto da mio cognato Mauro montando cuscinetti su sportelli di una vecchia cucina, era arrivata nella mia vita poco prima di mettermi con Marina, la patente A presa e mai usata, ma è stato con l’arrivo di Marina nella mia vita che mi ero deciso a usarla.
La prima volta, me lo ricordo perfettamente, era stata pochi mesi dopo che ci eravamo messi insieme, nel 1988, Marina indossava una gonna larga color salmone che le aveva fatto sua madre, sarta. Il tempo di partire che l’ampia gonna, bellissima, era finita dentro i tagli della carrozzeria atti a far prendere aria al motore, distrutta dentro la ventola del medesimo motore. Ancora entrambi ricordiamo l’incazzatura di sua madre, al momento di là in cucina, anche lei bloccata in casa dal Coronavirus come tutti noi.
Quella sera, invece, non ricordo come eravamo vestiti, so solo che era fine estate e faceva fresco, quasi freddo.
Passo a usare il presente, il passato, quando scrivo, mi dà i nervi.
Siamo lì su quella strada scura, poco illuminata, il Forte Altavilla sulla sinistra, il mare giù sotto il dirupo sulla destra, sto già mettendo la freccia per imboccare a destra la discesa che porterà al Passetto quando ecco che di colpo sento un colpo soffocato e molle sul collo, una cosa che non saprei descrivere meglio di così, un colpo soffocato e molle, anche doloroso, a dirla tutta.
Inchiodo, fortunatamente quella è una strada molto poco frequentata, la vespa che rimane di taglio, in diagonale sulla linea di mezzeria, con me e Marina a bordo.
Mi porto la mano alla gola, perché è lì che il colpo soffocato e molle è arrivato, e lo sento pulsare, dolorante.
A terra, a pochi passi da noi, c’è lui, il pipistrello che mi ha colpito, immagino morto sul colpo. Non sono un esperto di zoologia, non credo di aver mai studiato in vita mia un animale, anche se immagino che qualcuno di voi tenda a associarmi a alcuni miei scritti che tirano in ballo buchi di culo di cavalli, merde di wombati, libellule stuprate, zebre che si mangiano le palle e altre amenità del genere, e visto anche che il mio sito, in realtà praticamente fermo a un annetto fa, si chiama il Tasso del Miele, non sono un esperto di zoologia, ma ricordo perfettamente che a un certo punto della mia vita, immagino della mia vita di bambino, qualcuno mi ha spiegato che i pipistrelli sono ciechi, anche se poi nei supereroi a essere cieco non è quello che prende il nome dai pipistrelli, Batman, ma Devil, e che si muovono in cielo, mammiferi della famiglia dei topi capaci di volare come uccelli, solo in virtù del loro saper usare la bocca come fosse un radar.
In pratica, questo ricordo, i pipistrelli lanciano dei suoni nel vuoto, suoni che sbattono contro quello che sta loro davanti e che rimbalzano indietro esattamente come funziona il radar delle navi, di qui le loro gigantesche e caratteristiche orecchie.
Tutti abbiamo visto pipistrelli volteggiare in cielo, anche in città, sopra i lampioni.
Nessuno ha mai visto un pipistrello prendere in pieno un lampione, del resto, o andare poi a sbattere contro un palazzo, hanno il radar, loro.
Bene, quel pipistrello lì deve aver avuto il radar difettoso, o io e Marina siamo arrivati troppo velocemente con la vespa, prendendolo in pieno. Propendo più per la prima ipotesi, però, perché io sono sempre stato uno molto prudente alla guida, ricordo per dire che la prima volta che con quella vespa abbiamo percorso quella strada, diretti al Teatro alle Cave di Sirolo, Teatro alle Cave di Sirolo dove avremmo assistito al nostro primo concerto di Enrico Ruggeri, era il suo primo tour senza i caratteristici occhialoni, e l’idea che un giorno saremmo diventati ottimi amici non credo mi abbia neanche lontanamente sfiorato la mente, in quell’occasione, ricordo che la prima volta che con quella vespa abbiamo percorso quella strada, in una fresca serata di luglio, siamo andati talmente piano lungo la strada del Conero, un budello contorno che unisce Portonovo a Sirolo, da aver creato dietro di noi una lunga fila di auto clacksonanti, figuriamoci se sono mai stato tipo da correre con la vespa, grande concerto, comunque, quello di Rouge, anche in quell’occasione.
Ma non è di quell’incontro ravvicinato lì, che voglio parlarvi, perché quello è in realtà stato più un impatto che un incontro, roba di una frazione di secondo, lui, il pipistrello, che sbatte contro il mio collo e muore. Io che fortunatamente tengo la strada, salvando me e soprattutto Marina.
Con Marina, ma questa è altra storia, ca va sans dire, saremmo poi andati al Castello di Dracula, a Bran, in Romania, con tutti e quattro i nostri figli, in una strepitosa vacanza che abbiamo fatto tra il delta del Danubio e la Transilavania, e lì iconograficamente i pipistrelli sono ben presenti, seppur la faccenda dei vampiri e dei pipistrelli è più una confusione tipica dei bambini, e a dirla tutta il Conte Vlad l’Impalatore non era neanche un vampiro, spero di non aver spoilerato a nessuno il finale di questa storia.
L’incontro ravvicinato col pipistrello che voglio raccontarvi, invece, quello vero, è avvenuto un giorno nella metà del 1994 a Palazzo d’Arcevia, in una casa di proprietà del parroco del paese che con gli amici eravamo soliti affittare per andare a passare il fine settimana.
Funzionava così, siccome buona parte della compagnia degli amici di Piazza Cavour, quelli con cui ero cresciuto, compreso quel Roberto che con me aveva dato vita agli Epicentro, erano stati scout e siccome gli scout sono soliti affittare case nei paesi della provincia per far passare le nottate di inverno ai lupetti, cioè agli scout in età da scuola primaria, avevamo a nostra disposizione una fitta rubrica di numeri da contattare nel caso volessimo avere a prezzi contenuti case molto grandi e un po’ sgaruppate nelle quali passare un fine settimana dedito a grigliate e bevute di birra.
Anche in quell’occasione era andata così, uno dei miei amici ex scout aveva chiamato il parroco di Palazzo d’Arcevia, dalle parti dei monti nei quali i nostri partigiani avevano combattuto il nemico nazifascista, e aveva concordato l’affitto per un fine settimana. Aveva ovviamente taciuto il fatto che nessuno dei presenti era più parte del corpo degli scout, ma va anche detto che nessuno glielo aveva esplicitamente chiesto, e semmai fosse servito, almeno un paio dei ragazzi della compagnia avevano ancora appiccicato addosso nomignoli presi dal Libro della Giungla di Kipling, nello specifico Kabubi e Akela, fatto tipico di chi viene da quel mondo, come promemoria di un passato evidentemente non troppo passato.
A quel punto eravamo partiti con le nostre auto cariche di carne e birra, magari anche qualche bottiglia di tequila e caffè Borghetti, i nostri sacchi a pelo e eravamo arrivati nel primo pomeriggio del sabato.
Il tempo di fare la legna, in un modo che ancora oggi ricordo alla perfezione e che poi vi andrò a raccontare, non fondamentale per l’aneddoto del pipistrello ma comunque sufficientemente folkloristico per trovare spazio in queste pagine di diario, e ecco che i più esperti di fuoco si erano messi a preparare la grigliata. Nel mentre alcuni preparavano la tavola, qualcuno faceva buffe mosse di Chai Ki nel prato antistante, perché era il periodo in cui andava di moda il Chai Ki, e io e un paio di amici ci siamo messi a perlustrare la parte della casa solitamente chiusa.
Nel seminterrato c’era, questo avremmo scoperto forzando una serratura malandata, una sorta di piccola chiesetta, costruita in quello che un tempo doveva essere o un fienile o un garage, vallo a sapere. Dentro c’erano ammassate delle panche, l’una sopra l’altra, e nella parete di fronte alla porta d’ingresso c’era qualcosa che sembrava una sorta di rudimentale altare. Fortunatamente c’era la luce, perché altrimenti non ci sarebbe stato l’incontro che sto per raccontarvi, sempre che la fortuna sia in effetti da tirare in ballo per un racconto del genere.
Se ho in precedenza citato la presenza della tequila è perché, questo pure lo ricordo alla perfezione, nel tardo pomeriggio, all’ora cioè dell’aperitivo, non ricordo bene chi aveva indetto una gara piuttosto bizzarra, oggi si chiamerebbe una “challenge”. La gara in questione era a chi avrebbe bevuto più tequile direttamente dall’incavo della scapola della propria fidanzata. Una challenge evidentemente rivolta ai soli maschi del gruppo, del resto solo dei maschi poco più che adolescenti si sarebbero potuti far prendere da una cazzata del genere, una challenge, però, che vedeva loro malgrado coinvolte anche le ragazze, evidentemente indotte a pietà dalla nostra idiozia.
Senza vanto, è un passato del quale non vado poi così fiero, vinsi io quella sfida, superando, a memoria, le venti tequile di fila.
Anche per questo, immagino, nonostante fosse inverno, mi sono ritrovato a andare in giro per l’esterno della casa alla ricerca di qualcosa di interessante da trovare, senza patire il freddo che i monti lì vicino sicuramente ci avranno regalato e soprattutto senza minimamente sapere se qualcosa di interessante da trovare c’era.
Va anche detto che i miei amici, giuro che però al momento non rammento chi fossero, mi hanno assecondato, venendo con me come se fosse la cosa più normale da fare.
Forzata comunque la porta, accesa la luce, ecco che io e i due amici senza volto entriamo in quella che è evidentemente una chiesetta abbandonata. Chiesetta abbandonata dentro la quale, e qui sta l’incontro, si trova un piccolo esemplare di pipistrello accovacciato sopra una sedia di fronte all’altare. Niente di satanico, sia chiaro, ma comunque un incontro alquanto bizzarro.
Ora, anche questo, come la faccenda del radar infallibile, è un po’ un mito che crolla. Io ho sempre saputo che i pipistrelli, infatti, dormono a testa in giù, aggrappati con le zampette da qualche parte, invece il pipistrello in questione, ripeto, evidentemente un cucciolo, stava lì a dormire accovacciato, come un gufo.
Cosa però non ha tradito le aspettative, sempre che qualcuno di noi avesse in effetti aspettative nei confronti dei pipistrelli, è il fatto che i pipistrelli hanno le orecchie grandi. Il nostro piccolo amico, infatti, le aveva gigantesche, e siccome io avevo da poco vinto la gara a chi avrebbe bevuto più tequile dall’incavo della scapola della propria fidanzata, Marina, e siccome anche gli altri due amici, ancora senza volto, avevano partecipato, non vincendo ma comunque bevendone non poca, ricordo perfettamente che abbiamo passato del tempo accarezzando il piccolo esemplare e urlandogli parole a caso dentro le orecchie, suppongo procurandogli una certa qual confusione.
A ripensarci ora rabbrividisco, tenere un pipistrello a lungo in mano non è stata un’idea proprio geniale, ma confesso che, pur sapendo che era qualcosa di molto simile a un topo con le ali, a nessuno di noi è venuto in mente che avrebbe potuto trasmetterci una qualche malattia, figuriamoci una qualche malattia mortale.
Comunque, a un certo punto, stanchi di questo nuovo incontro, lo abbiamo rimesso a dormire sulla sua sedia, o magari era semplicemente svenuto dallo spavento di sapersi in mano a tre sciamannati, vallo a sapere, abbiamo spento la luce, accostato alla bene e meglio la porta con la serratura scardinata e siamo andati a tavola, perché nel mentre gli addetti alla griglia avevano finito il loro duro lavoro. Nel chiudere la porta, ma questo forse è un dettaglio che mi sono inventato ora, al fine di poter chiudere l’aneddoto dando l’ultimo colpo di scena, ci siamo riproposti di tornare in seguito a vedere come stava il nostro piccolo nuovo amico, pensando con questo di tornare dopo qualche settimana per un altro weekend in stile finto scout.
Purtroppo, però, inavvertitamente alcuni dei nostri amici, questi mi ricordo perfettamente a che nome rispondono, ma non so bene se questi siano reati che cadono in prescrizione, avevano divelto tutta la bellissima staccionata in legno massiccio della casa del parroco di Palazzo per accendere il fuoco del camino e della griglia, fatto che l’indomani, al momento di andarcene, non sarebbe sfuggita al parroco stesso, incazzato come raramente mi è capitato di vedere in altri momenti della mia vita in cui sono stato in presenza di un prelato di campagna, alla faccia di Chesterton.
In seguito, in quel viaggio malese che vi ho raccontato settimane fa, avrei visto i pipistrelli giganti nascosti negli antri delle Batu Cave, dalle parti di Kuala Lumpur, pipistrelli giganti che, questo mi ha raccontato la guida, erano stati a lungo oggetto di una forma di caccia sfrenata, perché considerati molto prelibati, e il cui guano, in pratica la merda che si trovava in terra per tutte le caverne sacre, quelle per capirsi immortalate insieme a altri scorci di Kuala Lumpur nel video tamarrissimo della hit Mundian To Bach Ke di Panjabi MC, caverne famose più per le scimmiette cattivissime che vengono a sfilarti il portafogli dalla borsa, ma che immagino siano state un bel concentrato di Coronavirus anche in anni passati.
A questo punto, immagino, qualcuno si potrebbe anche chiedere qual è la morale di questo mio andare a ripescare un episodio all’apparenza irrilevante nel mio passato di giovane scapestrato, e se lo potrebbe chiedere non solo a ragione, ma anche a lungo, perché temo che una morale, in fondo, non ci sia.
Se non che le giornate sono lunghe da passare, i giorni che si seguono a giorni tutti uguali, il tempo che sembra non voler passare se non nei momenti nei quali ti ritrovi a voler fare qualcosa che non sia la didattica a distanza o una di quelle rotture di coglioni lì, perché a quel punto arriva sempre ora di andare a letto e la giornata è finita, così, senza aver concluso niente di significativo.
Non che urlare nelle orecchie giganti di un cucciolo di pipistrello dopo aver vinto la challenge a chi beve più tequile dall’incavo della scapola della propria fidanzata sia poi così significativo, a meno che qualcuno non voglia vedere in tutto questo che stiamo vivendo una sorta di risentita risposta a certi gesti arroganti e guasconi da parte dei pipistrelli stessi, intenzionati a vendicare il loro piccolo e puccioso esemplare di Palazzo di Arcevia.
Ora, siccome però non mi va di aver infilato proprio verso il finale di questo mio ottantunesimo capitolo del mio personale diario del contagio, oggi che sono appunto ottantuno giorni di quarantena, una cagata come la canzone di Panjabi MC, specie dopo aver invece citato il mio amico Rouge, tanto per non spostarmi troppo dai suoni di sitar che quella hit usava a profusione, voglio uscire da questa sorta di trance lucido nel quale mi sono immerso e nel quale, immagino e temo, vi siate immersi anche voi, citando un capolavoro assoluto di quello strano mix tra world music e pop che risponde al nome di My Culture dei 1 Giant Leap.
Qui non devo ricorrere a nessun sotterfugio mnemonico, perché ho sempre ritenuto la creatura nata dall’incontro tra Jamie Catto, il fondantore dei Faithless, e Duncan Bridgeman qualcosa di incredibilmente affascinante, come l’ascolto di quella perla di My Culture, con Robbie Williams e Maxxi Jazz ben dimostra. L’idea dei due artisti era semplice, almeno concettualmente, girare il mondo cercando suoni, voci e suggestioni, registrandole e mixandole poi tornati a Londra, per metterle poi dentro un disco che davvero divenisse quanto di più vicino all’idea di world music. Certo, già Peter Gabriel e David Byrne hanno fatto qualcosa di simile, e rimanendo in ambito elettronico c’è l’opera di Nitin Sawhney, musicista e producer inglese di origini indiane che già percorreva strada limitrofe negli anni precedenti e che proprio in quegli anni lì, i primi anni zero, ha pubblicato almeno tre album da spararsi in loop se si vuole provare a evadere dalle quattro mura di casa in questi giorni nei quali uscire è ancora una chimera, parlo di Human, Philtre e London Undersound.
Ecco, direi che My Culture degli 1 Giant Leap e Fragile Wind di Nitin Sawhney, con la voce flebile e bellissima di Tina Grace contrapposta a quella ancestrale di Jayanta Bose sono il modo migliore per arrivare a domani, il corpo immobilizzato in questo nostro essere rinchiusi, la mente ancora capace di viaggiare. Buon viaggio.