Se rumore dev’essere allora preferisco ascoltare la musica degli Helmet dotata di senso e ragione

Non credevo mi sarebbe mancato il silenzio: Il rumore delle auto, quello che da una settimana è rientrato nelle nostre vite mi ha semplicemente spinto oltre il parapetto


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Non credevo mi sarebbe mancato il silenzio.

Forse perché, abituato al rumore, non lo conoscevo abbastanza, il silenzio. Avete presente tutti quelle stronzate retoriche dell’accorgersi di una presenza solo nel momento in cui non è più tale, no?, l’assenza che apre la scatola dei rimpianti, dei rimorsi, addirittura, io che quando ho letto Blue che faceva scrivere al posto dei suoi disegni cancellati dai muri di Bologna il titolo del bellissimo romanzo di Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, dedicato alla banda Bonnot ho pianto, più radicale di Banksy che taglia la sua opera dandole ancora più lavoro, senza rimorsi, appunto.

Come se ci fosse bisogno di qualcuno che certifichi cosa significa quel senso di vuoto lì, dai, fate i bravi.

Non credevo mi sarebbe mancato il silenzio, quindi, mi ripeto.

Del resto ho scelto di applicare un mestiere e una forma d’arte, o una forma d’arte e un mestiere, a seconda di come la si voglia leggere, e prima ancora immagino un talento, e se dico “immagino” è giusto per buttare lì un pizzico di modestia, modestia che non ho, sia chiaro, ho scelto di applicare un mestiere e una forma d’arte, o una forma d’arte e un mestiere, a seconda di come la si voglia leggere, la scrittura, alla musica, che contempla sì i silenzi, ma per evidenziare i suoni, parlo di dinamica, di profondità del suono, di differenze tra analogico e digitale, dai, fate i bravi, non andate a citare John Cage, vi prego, non è certo il silenzio quel che sono andato a cercare in questa vita.

Non dico che ambissi a vivere costantemente dentro un disco degli Helmet, riff affilati su ritmica possente, monolitica, intendiamoci, seppur in qualche anno della mia vita credo di esserci proprio vissuto, in loop, dentro un disco degli Helmet, a occhio direi Betty, ma neanche finire in una clinica del sonno, silenzi ovattati tutti intorno a me.

Il fatto è che, da una settimana a questa parte, di colpo casa mia si è nuovamente riempita di rumori, e detto da uno che ha passato gli ultimi settantanove giorni recluso con altre sei persone, di cui quattro figli, la televisione sempre accesa, i suoni dei videogiochi degli smartphone costantemente a fare da colonna sonora, le videochiamate, le litigate, le chiacchiere e i telegiornali, direi che la cosa dovrebbe quantomeno suonare singolare.

Vivo in una zona semicentrale di Milano. Vivo in una strada poco battuta, ma con parte della casa affacciata su una piazza costeggiata da una via molto trafficata, credo una delle più trafficate di Milano, di quelle che spesso compaiono nelle classifiche più vie più trafficate di Milano, addirittura del mondo, tipo il bar peggio frequentati di Caracas esibiti per pubblicizzare i liquori. Certo, sto al settimo piano, e il fatto che io non abbia palazzi di fronte, sono appunto affacciato su una piazza, da questo lato, non ci sono palazzi altrettanto alti, dall’altro, dà al tutto un’aria decisamente aperta, spesso il vento la fa da padrona su porte e finestre, libera, ma di fatto, me ne sono reso conto già una settimana fa, il giorno in cui è apparentemente iniziata la Fase 2, i rumori del traffico si sentono eccome.

O almeno ora si sentono, mentre prima erano quella parte del paesaggio che non abbiamo mai notato finché qualcuno non si è preso la briga di farcelo notare, nello specifico una pandemia.

Del resto, credo non a caso, lo chiamano inquinamento acustico, andando quindi a pescare un termine che, nel gergo comune, è associato allo smog o all’inquinamento delle acque, ai bidoni di sostanze mefitiche sotterrati nei campi, quindi a qualcosa i cui effetti sono più nascosti, certo sentiamo la puzza nell’aria, vediamo le acque sporche dei fiumi, ma lo smog non lo si vede chiaramente, se non in quelle foto che ci fanno vedere la Lombardia e la valle Padana coperta da una coltre grigia, coltre grigia che, in effetti, chi vive a Milano ben conosce, perché è la stessa che copre il cielo, ci impedisce quindi di vedere le stelle, di notte, o di vedere il celeste, di giorno, ci sporca la macchina parcheggiata in strada, mangiandone la vernice, ma che impedisce anche alla nebbia di essere ancora tra noi, ricordo che i primi tempi in cui mi ero trasferito a Milano la nebbia, al pari della Lega, allora Lega Nord, erano uno degli argomenti più frequenti quando tornavo in Ancona, tutti a chiedermi come fosse vivere dentro la nebbia, nebbia cui, per altro, da anconetano, ero sin da sempre abituato, Ancona è una città costantemente avvolta da una nebbia fitta e bastarda, che arriva dal mare e ti penetra le ossa, ti causa reumatismi, ti impedisce di vedere bene, quando devi guidare, ma che a Milano non ho mai visto in città, sarà capitato due o tre volte in ventitré anni, hai voglia a spiegarlo alla gente, incredula, e che, come me di fronte al rumore del traffico che anche adesso sento distintamente, come chi di colpo ha scoperto a cosa cavolo serviva quel determinato pulsante nel telecomando che ha sempre visto ma non ha mai saputo a cosa servisse, è sempre stata inconsapevole di viverci immersa dentro, alla nebbia, continuava a chiedermene conto manco fosse in dotazione con i sacchetti della spazzatura, sacchetti della spazzatura che per altro a Milano il Comune non passa, poi un giorno parlerò anche della raccolta differenziata, e volendo anche del lavaggio strade, voi non potete immaginarvi il mio stupore quando, nei primi tempi in cui ero a Milano, guardavo a questi strani balletti dei miei vicini di casa, che una determinata sera la settimana, sempre la stessa, scendevano tutti dopocena a mettere le auto sul marciapiede, salvo poi farle scendere la mattina presto, appunto per permettere il lavaggio strade notturne, i vigili che non mettevano le multe alle auto parcheggiate momentaneamente sui marciapiedi ma a quelle lasciate in strada sì, strano senso civico i vigili di Milano, che quando poi ci ha provato, anni dopo, il Comune di Ancona, ovviamente facendolo a cazzo di cane, due interi quartieri la stessa sera, senza alternare le strade, a Milano così si faceva e in alcune zone ancora si fa, così oltre che parcheggiarli sui marciapiedi, mica tutti i marciapiedi sono abbastanza larghi per parcheggiarci le macchine, puoi spostarla in vie limitrofe, mai tutto un quartiere oggetto del lavaggio la stessa sera, sarebbe impraticabile, così invece avevano pensato in Ancona, che quindi uno avrebbe dovuto infilarsi la macchina in tasca, nottetempo, immagino, o andarla a parcheggiare a qualche chilometro da casa, figuriamoci, l’unico a spostarla sono stato io, un vero coglione milanesizzato, come è stato quando, tornato a Milano, ho provato a fare differenziata quando la differenziata non c’era, per altro nella nostra prima casa milanese, casa ricavata dentro l’appartamento di un leghista di merda, sposato con una calabrese diventata a sua volta leghista di merda, sempre lì a dire a me e Marina che noi del sud arrivavamo a Milano per rubare il lavoro ai milanesi, il tutto mentre ci subaffittavano un monolocale ricavato dentro due stanze del loro appartamento, il tutto rigorosamente in nero, nella nostra casa milanese, una stanza microscopica con angolo cucina, io che avevo visto un monolocale solo nel film di Pozzetto, quello in cui diceva in continuazione “tac” mostrando i vari accorgimenti per trasformare una stanza in una casa, non ricordo il titolo, Pozzetto mi ha sempre fatto abbastanza cagare, almeno da solo, con un bagno molto più grande della stanza, entravamo da una porta blindata in un ingresso di appartamento che poi, a sua volta, dava dentro altre tre porte, quella del nostro monolocale, quella di un altro monolocale, e quella dell’appartamento della coppia leghista, che aveva anche un figlio sfigatissimo, uno che a occhio sarebbe tranquillamente potuto essere un serial killer, sempre con un panciotto con le penne infilate nei taschini, troppo stereotipato anche per finire in una serie TV italiana, a dirla tutta, uno a cui, poi non l’ho fatto, il giorno in cui ce ne siamo andati avrei voluto pagare un giro a puttane, perché mi sembrava davvero troppo represso, e per altro la via nella quale abitavamo, vicino anche a dove abito adesso, abbiamo sempre vissuto nello stesso spicchio di Milano, era pieno di prostitute notturne, di quelle che si appoggiano alle auto, anche a quelle che una sera alla settimana venivano spostate sui marciapiedi per il lavaggio strade, e ce n’era una particolarmente singolare, sopra i settant’anni, l’aspetto da dirigente scolastica, con la giacca appoggiata sulle spalle e un paio di occhiali da vista a forma di occhi di gatto, mia madre ne aveva un paio simile negli anni Settanta, ricordo, al punto che io e Marina la chiamavamo “la preside”, ma quella era un’altra Milano, va detto, quella dei Albertini e della Tolleranza Zero, Tolleranza Zero su tutto tranne che sulla prostituzione, quando andavamo al cinema, quasi sempre al Plinius, in viale Abruzzi, tornando a casa facevamo una mangiata di culi di nigeriane davvero impressionante, impressionante per la quantità di nigeriane e anche per i culi, va detto, in quella casa, chiamiamola così più per l’affetto che si deve alla prima casa nella quale si è abitato insieme al proprio amore, Marina, nonché alla prima casa che non fosse la mia casa nel senso della casa della mia famiglia di provenienza, ma non era una casa, era una stanza con un gigantesco bagno, stanza che però, eravamo giovani, all’epoca, abbiamo ospitato decine e decine di amici, non tutti in contemporanea, praticamente tutti quelli che conoscevamo e che, incuriositi dal fatto che ci fossimo trasferiti a Milano avevano deciso di venirci a trovare, tanto per scoprire che a Milano, in effetti, non c’era la nebbia, ma c’era, questo sì, la raccolta differenziata, ma non in quella casa lì, continuiamo a chiamarla casa, anche se stavolta è più per evidenziare la storpiatura di abitare in una casa in cui non ci sia modo di fare la raccolta differenziata, anzi, proprio di raccogliere la spazzatura, perché il leghista di merda, il padrone di casa che ci affittava quella stanza a prezzi proibitivi in nero, dicendoci pure che noi meridionali arrivavamo a Milano per rubare il lavoro ai milanesi, aveva subaffittato anche la cantina, dove si sarebbe dovuto trovare lo spazio per la raccolta della spazzatura, col risultato che, di nascosto come ladri, noi, dovevamo uscire e gettare la spazzatura dentro i cestini che si trovavano, allora, attaccati ai pali della luce, attenti a non farsi accorgere dai passanti, che, immagino, da bravi milanesi, avrebbero avuto da ridire su questi cafoni fuori sede che non praticavano il vivere civile, ogni tanto lo vedo ancora, il figlio del padrone di casa leghista, sempre il panciotto con le penne, la pettinatura con la riga da una parte, avrei proprio dovuto offrirgli un giro a puttane, mi ripeto ogni volta, ma è per scherzare, lavaggio strade e raccolta differenziata, dicevo, quelle sì anomalie che ho conosciuto una volta arrivato a Milano, lo chiamano inquinamento acustico perché, come lo smog o come certi veleni sversati nei fiumi o al mare, certi bidoni di diossina sotterrati sotto un campo di insalata, inquina, sta lì a rovinare il paesaggio, a avvelenarci, a distruggere silenzioso la nostra vita, a renderla un po’ meno vita di quanto non fosse.

Non credevo mi sarebbe mancato il silenzio.

Forse perché, abituato al rumore, non lo conoscevo abbastanza, il silenzio.

Immagino che ci metterò poco a riabituarmi all’idea del rumore, succede immagino ogni volta che, tornato dalle vacanze, mi riabituo a svegliarmi alle prime luci dell’alba, a rimettermi le scarpe, a riprendere i soliti ritmi di merda, figuriamoci se non posso riabituarmi al rumore dell’ auto di sotto, neanche mi svegliano, non dormo già di mio, insonnia di merda.

Quello a cui però non credo mi abituerò mai, spero non mi abituerò mai, e dopo ventitré anni di vita milanese penso davvero di averla sfangata, per dirla con le parole oggi divenute consuete penso di esserne ormai immune, con anticorpi capaci di tenere alla larga rischi, è questa orribile retorica pedagogica per la quale, mi tocca ancora una volta parlare di Beppe Sala, il governate di turno mi deve spiegare come io mi debba rimettere in piedi, con prudenza, stavolta, che #MilanoNonSiFerma è ancora lì, che brucia, puzza di morte, ma pronto a ripartire.

Non voglio, infatti, neanche prendere in considerazione quella merda di video della Regione Lombardia, Fontana e Gallera spero vengano presto processati come a Norimberga per i morti che hanno sulle coscienze, io avrei optato meno civilmente per portarli in piazza, come si è fatto giustamente un tempo, perché che la Lombardia è pronta a ripartire è una grande menzogna e perché sentirselo dire da chi, proprio per non volersi fermare, ha permesso tutto questo è una aggravante insopportabile. Preferisco concentrarmi su quello messo online da Beppe Sala, video stucchevole e zuccherosissimo con Ghali come testimonial, cioè, ci siamo capiti?, Ghali dovrebbe spiegarmi che devo ripartire, Ghali?!?!, provando a concentrare il mio sguardo incattivito, desideroso di sangue, proprio sull’estetica della comunicazione che in questi giorni di ipotetica ripartenza mi tocca subire, tramite i social, ovviamente, ma non solo, anche tramite le interviste, i comunicati, le indicazioni alla cittadinanza.

Tocca essere responsabili, mi si dice con la voce accondiscendente, quella stessa che prima tuonava che ero irresponsabile e colpevole di non so bene quanti morti e catastrofi, io che sono murato vivo dentro casa, tocca, quindi, non farsi fottere dalla paura, perché altrimenti la macchina non si riaccende, l’assioma produci-consuma si inceppa, la locomotiva d’Italia non riprende a sbuffare, puf pun, sbam, clang, come dentro un manifesto futurista marinettiano, ma il tutto con garbo, sia chiaro, estetica da calzino arcobaleno, locomotiva col cuore, quel tono di voce di uno che si fa chiamare Beppe, come un parente stretto, un congiunto si direbbe ora che tutti abbiamo scoperto che per parente di sesto grado non si intende in effetti un parente lontanissimo di cui nessuno ha mai sentito parlare, ma semplicemente i figli dei cugini buoni, di primo grado, tocca essere responsabili ma muoversi, uscire di casa, rimettersi a costruire, a lavorare, non fate i pigri, non abbiate paura, prudenza ma non paura, cautela ma fuori di casa, a laurà, certo senza il cattivo gusto di un Renzi che parla per bocca dei caduti di Bergamo e Brescia, non scherziamo, ma il succo è lo stesso, prudentemente in prima linea, come se avessimo davvero bisogno di sentirci spiegare la vita dal sindaco o dal governatore della regione nella quale abitiamo e paghiamo le tasse, e se non usi la bicicletta non vuoi bene al pianeta, e i paesi civilizzati usano le biciclette, e i nostri nonni usavano le biciclette, mica è una faccenda da radical chic che non ha un cazzo da fare e può permettersi l’andatura da bicicletta, e però aboliamo momentaneamente l’Area B e l’Area C, quindi tutti anche in auto, si sente dalla puzza di smog, si sente dal rumore delle auto, inquinamento dell’aria e inquinamento acustico che, però, è molto meno fastidioso e, credo, dannoso di questo senso di melassa e di pedagogico insegnamento, alzarsi ma stando alle regole, che gente che neanche è stata capace di capire cosa si stava trovando a gestire si sente in dovere di infliggermi.

Hanno mutuato questa orribile espressione inglese, distanziamento sociale, per intendere quello che nei fatti è il distanziamento fisico, il metro almeno di distanza che tocca tenere dagli altri finché il virus non sarà finito o il vaccino trovato, è un fatto.

Distanziamento sociale è quello che già consociamo da tempo tutti quanti noi che non siamo nati nelle classi più abbienti, quelli rimbalzati da certi ambiti, da certe feste, da certe situazioni favorevoli, avete presente i “salotti”, no?, ma quelli che, a dirla tutta, anche con un minimo di orgoglio, quelle distanze ci tengono a tenerle, perché quei “salotti” ci fanno schifo di principio e anche nello specifico, e siamo felici di esserci sudati quel che ci siamo sudati, ognuno nella propria bolla, di generazione in generazione.

Hanno mutuato questa orribile espressione inglese, quindi, distanziamento sociale, ma ora che ce ne siamo fatti una ragione, che abbiamo imparato, nostro malgrado, a starcene a casa, a guardare gli altri con sospetto e diffidenza, gli untori, i menefreghisti, gli irresponsabili, pretendono di prenderci per mano, ma come?, e il distanziamento sociale?, e accompagnarci verso una nuova consapevolezza, come fossero davvero un branco di coglioni che necessitano costantemente delle didascalie: devi fare questo e quello, non devi fare questo e quello. Ma mentre te lo dico ti accarezzo la testa, come si fa con un cucciolo, con un coglione, che si mette a posto nelle mutande, gesto non raffinatissimo ma utile.

Questa retorica mi avvelena il sangue, lo confesso, e so che nello scriverlo sembro isterico, uno che di colpo ha sbroccato, come se non avessi già sbroccato nei giorni scorsi, per di più uno che ha sbroccato per un motivo futile, perché basterebbe non guardare certi video e non leggere certe dichiarazioni.

Il fatto è che mai come oggi mi è evidente di essere capitato nel luogo sbagliato nel momento sbagliato, e di esserci capitato anche per mia volontà, quindi senza la possibilità di incolpare nessuno per l’accaduto.

Perché uno, chiunque, intendo, non un uno con certe caratteristiche specifiche, rare, elitarie, davvero il primo coglione che passa potrebbe dirmi: potevi andartene a vivere in campagna, in un paesello senza auto e inquinamento, magari un paesello dal quale partire per poi andare a lavorare a Milano, intendiamoci, è pieno di paesi satelliti di Milano intorno a Milano, quelli dei pendolari, o potevi proprio andartene in un paesello isolato e basta, quelli del Molise o della Basilicata che ci dicono non aver avuto ovviamente neanche un contagiato, e perché cazzo avrebbero dovuto averlo, visto che sono isolati e praticamente disabitati, quelli nei quali il comune ti regala per un euro una casa, a patto che tu ci vada davvero a abitare, non in vacanza, quelli infatti che poi si riempiono di inglesi, inglesi che non hanno un cazzo da fare, registi, pittori, poeti, potevi andartene in un paesello e applicare quel telelavoro che ormai tutti hanno imparato a praticare, fare l’evoluto che è cittadino del mondo e che in quanto cittadino del mondo può stare dentro un Faro di un’isola deserta, il mare di fronte, l’infinito di fronte, a fare un lavoro del cazzo al computer, o magari coltivavo le mangrovie, lavoravo maglioni la lana di alpaca, o facevo un qualsiasi altro lavoro che non prevede lavorare in città, men che meno in una città rumorosa e piena di smog come Milano, come la Milano prima e dopo il lock down.

Invece no, sono venuto a Milano, quella di Beppe Sala e i suoi calzini arcobaleno, dell’Expo, delle olimpiadi invernali con Cortina, la porta sull’Europa, la sola metropoli italiana, la locomotiva d’Italia, la locomotiva col cuore, e sono venuto a Milano perché volevo assaporare la vita metropolitana, lasciarmi inondare di input, entrare sottopelle al mondo dell’editoria, prima, a quello dello spettacolo, poi, poter andare in radio o in tv in macchina, impiegandoci pochi minuti, essere nel ventre della balena, nel cuore della macchina che mi sarei applicato a smantellare, che figo che sono che sto nella macchina e la smantello, dai, volevo sentirmi vivo e per sentirmi vivo, povero coglione, pensavo fosse necessario stare in un posto in cui tutti si sentono vivi, e per sentirsi vivi corrono, stereotipo che trova applicazione nella realtà, non credete al tono di voce pacato di Beppe Sala, qui si corre e se ci si ferma si muore, da sempre, si corre metaforicamente, produrre-consumare-produrre-consumare, e si corre fisicamente, si è tutti runner, si va di corsa coi mezzi pubblici, il car sharing, il bike sharing, il monopattino sharing, la città che è dei cittadini, quante volte abbiamo sentito dire che Milano è dei milanesi, sottintendendo di tutti quelli che ci vivono, non che ci sono nati, perché sembra che qui tutti ci siano venuti a vivere da ogni parte d’Italia, vai a capire poi perché e per come.

Sì, oggi è la giornata in cui ho realmente sbroccato, lo avrete capito. Il rumore delle auto, quello che da una settimana ormai è rientrato nelle nostre vite, mi ha semplicemente spinto oltre il parapetto, lasciando che il mio esile attaccamento alla lucidità andasse in pezzi, caduto dal settimo piano in mezzo alla strada. Non credo ci sia, in realtà, una relazione tra l’inquinamento acustico e il mio sbroccare. Penso sia più la stanchezza che, per quanto io provi a rimanere calmo per mostrarmi calmo ai miei cari, è ridotta ai minimi termini, è in coma.

Certo, il rumore della auto, specie la mattina, quando nelle ultime settimane sentivo solo gli uccellini fuori dalla finestra, aiuta, aiuta lo sbrocco, intendo. E allora adesso, dopo aver passato le solite cinque ore a fare lezione ai gemelli, la didattica a distanza sempre più un fallimento, perché alla lunga è evidente che le schede, i file audio, i video, i compiti, poggino tutti troppo su noi genitori, necessariamente presenti e anche impegnati nei compiti non nostri quali lo spiegare quel che un meccanico riproporre qualcosa in remoto non sempre riesce a fare, le auto che ancora sfrecciano sotto casa, i marciapiedi che si sono riempiti di gente, ma lungi da me fare lo sceriffo, figuriamoci, io ho sempre tifato per gli indiani e i bandini, anche da piccolo, lo sceriffo lo lascio fare a quelli che tifavano per i cowboy, mentre questo quadretto poco esaltante va in scena preferisco davvero ascoltare gli Helmet, quelli veri, con Page Hamilton a cantare e suonare la chitarra, in compagnia della sei corde di Peter Mengede, John Stanier e Henry Bogdan a suonare batteria e basso, che si tratti del già citato Betty, uscito proprio in quel 1994 che così tante volte è ricorso in queste pagine, o il precedente Meantime, con quel blocco di granito che risponde al titolo di Unsung, o l’esordio di Strap It On poco cambia, post-hardcore che sfocia nel metal o alt-metal che dir si voglia, musica che sembra essere uscito dall’impianto di fusione di un’azienda metallurgica. Perché se rumore deve essere, e a questo punto mi sembra scontato che sia così, che almeno sia rumore dotato di un senso e una ragione.