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Favolacce, arriva in streaming il bellissimo film dei fratelli D’Innocenzo con Elio Germano

Vincitore dell’Orso D’Argento a Berlino, il film dei giovani registi de “La Terra Dell’Abbastanza” sfugge ai luoghi comuni del “film sulle periferie”. E fotografa la realtà in un racconto corale dal filtro nero e fiabesco

di Stefano Fedele
11/05/2020
INTERAZIONI: 668

INTERAZIONI: 668

Favolacce

Favolacce esce oggi, on demand, su diverse piattaforme, Sky Primafila Premiere, TimVision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital e Rakuten Tv, prodotto da Pepito con Rai Cinema, e distribuito da Vision, che vista l’emergenza continua nella strategia di lancio di alcuni titoli sulle piattaforme, come già accaduto per 7 Giorni Per Farla Innamorare, D.N.A., Tornare.

Ed è francamente un peccato che il secondo film dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, programmato inizialmente al cinema per il 16 aprile dopo la vittoria dell’Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino, debba essere confinato alla visione casalinga. Perché è un’opera pensata in termini prettamente cinematografici, con una cura formale e un’impaginazione visiva plasmata sull’ampiezza del grande schermo.

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Il soggetto di Favolacce i due gemelli l’avevano scritto a 19 anni, oggi ne hanno poco più di trenta, e grazie all’ottimo esordio de La Terra Dell’Abbastanza sono riusciti a convincere i produttori che fosse possibile investire su un racconto volutamente respingente, che non offre appigli riconoscibili allo spettatore, immergendolo dentro una vicenda corale apparentemente slabbrata e senza centro, eppure costruita con una progressione drammaturgica di coerenza disperante.

La storia è quella di una sterminata periferia alle porte di Roma di villette a due piani con giardino e area barbecue. Dove vive una classe sociale indefinita, una piccola borghesia che pare essersi appena issata oltre le origini proletarie e galleggia nella fragilità di uno status che potrebbe essere perduto alla prima crisi. Come teme Bruno (Elio Germano), marito e padre di due ragazzini bravissimi a scuola, però disoccupato e senza prospettive.

Favolacce
I fratelli D’Innocenzo con l’Orso d’Argento vinto a Berlino

La mollezza della calura estiva rende le giornate ancora più vuote, l’esasperazione più stridente. Gli adulti non riescono a essere un modello per i figli, che trattano con sbrigatività, quando non con aperta sgradevolezza. In questo contesto culturalmente informe i ragazzini sono abbandonati a sé stessi, alle domande circa identità e pulsioni, con una crescente consapevolezza dell’infelicità costituiva della loro fetta di universo. Di fronte alla quale si assumono la responsabilità di scelte risolutive.

Non si può dire di più della trama di Favolacce, che sembra ondivago e sfuggente e invece è assai stringente. Sarà il caso di seguire la traccia fiabesca del titolo per allargare il significato dell’operazione e non pensare che il film voglia essere una fotografia del genere “racconto delle periferie”. Come hanno sottolineato anche i due registi, la prospettiva non è quella della cronaca ma dell’archetipo, in cui il dato sociologico è sublimato attraverso la dizione di uno stile che scarta continuamente dalla messinscena naturalistica.

Dall’idea di un racconto che riproduca pedissequamente la realtà mette in guardia la voce fuori campo, di Max Tortora. Che è semplicemente un tale che ha ritrovato nella spazzatura il diario d’una ragazzina e comincia a leggerlo. Avvertendo lo spettatore che “Quanto segue è ispirato a una storia vera. La storia vera è ispirata a una storia falsa. E la storia falsa non è molto ispirata”.

La forma del racconto esaspera questa ambiguità, in bilico tra restituzione della realtà e appunto archetipo fiabesco da “c’era una volta”. A partire dal tono del narratore che scarta da qualunque prevedibilità ed è trasognato e straniante, letterario ed eccessivamente delicato, parlando di “calligrafia acerba e sognante”, di “sensazione di misteriosa reticenza” che i fatti narrati gli provocano.

Ma la trama della fiaba è nera e dura e il film procede a raccontarla puntando su uno stile spesso freddo e oggettivo. Favolacce impiega immagini riprese in campo lungo delle villette, che osservano distaccate i rituali in cui la famiglia simula una inesistente felicità, che frana miserabilmente alla prima incertezza – il boccone di carne con cui uno dei ragazzini rischia di strozzarsi.

La composizione calibrata delle inquadrature fisse, gli esterni a distanza e certi interni dettagliati fanno pensare a un approccio debitore di esperienze da fotografia iperrealista – per esempio i lavoratissimi scatti di Gregory Credwson, che ritraggono enigmatiche aree suburbane. E l’iperrealismo, a proposito della dialettica tra vero e falso posta dalla voce narrante, è lo stile che più di tutti s’è mosso sul crinale di una realtà ritratta in maniera così minuta e precisa da sconfinare nell’artificiosità, rivelando quanta finzione – e indirettamente angoscia, disperazione – si nasconda dietro la superficie di un mondo apparentemente ordinato.

Allo stesso tempo, e nonostante la forse ironica inquadratura iniziale di un gruppo di formiche – che rimanda al luogo comune del regista entomologo che guarda tutto insensibilmente da lontano –, la misura favolistica consente ai fratelli D’Innocenzo anche di trovare una forma di pietà e di partecipazione, tutta dalla parte dei giovanissimi, di cui mostra lo smarrimento di fronte alle scoperte dell’età, il sesso prima di tutto. Che, a sentire i loro padri, dovrebbe essere vissuto in maniera sbrigativa e asentimentale, e invece ha bisogno, come istintivamente percepiscono, di tempo e tenerezza.

La tenerezza è ciò che manca lungo tutto il film, incapaci i genitori, incapaci gli insegnanti a esprimerla. La scorza ormai indurita della realtà lascia poche soluzioni ai ragazzi, se non il rifiuto lucido. Favolacce però non è un affresco sull’Italia di oggi, come si potrebbe pensare anche per la struttura corale del racconto. La radiografia, che descrive spazi e tipi indefiniti, né città né campagna, né proletariato né borghesia, mira a qualcosa di più vasto, che ha a che vedere sì con la società, ma soprattutto con l’interiorità delle persone e con l’incomunicabilità tra generazioni in cui i supposti adulti, identitariamente fragili, non sono più in grado di trasmettere nulla ai più giovani. Non un sapere, non una morale, non la dolcezza.

Tags: cinema italiano

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