Sono fuori dalla grazia di Dio.
Lo sono spesso, ultimamente, potrebbe far notare qualcuno.
Grazie al cazzo, potrei rispondergli, sono settantasei giorni che vivo con la mia famiglia, reclusi in casa a causa di un virus e soprattutto a causa dell’incapacità di chi ci guida di affrontare un’emergenza, unico paese al mondo, oltre la Cina, a aver praticato il lock down duro, paese che, in rapporto alla quantità di abitanti e numero di contagiati e morti ha pagato fin qui il prezzo più alto, direi che essere fuori dalla grazia di Dio è una condizione naturale, poi potremmo discutere a lungo se siamo in questa condizione in quanto usciti dalla grazia di Dio o siamo fuori dalla grazia di Dio in seguito a questa condizione, ma sfoceremmo nel teologico, e per quanto io sia figlio di un diacono, ex catechista, e abbia anche scritto un paio di libri sotto pseudonimo su argomento religioso, uno dei quali recensito ottimamente da Radio Vaticano proprio per i contenuti teologici, lo confesso, al momento dovessi addentrarmi su questi temi temo finirei per essere bollato come apostata o blasfemo.
Sia come sia sono fuori dalla grazia di Dio, e lo sono perché questa seconda Fase, se possibile, mi sembra ancora più stressante della prima, o almeno lo è per me e la mia famiglia, cioè per tutto il mondo col quale sono in contatto diretto in questi giorni.
Mi spiego, come vi ho già detto, per noi, qui in casa, la fine del lock down non è ancora arrivata.
Io e Marina continuiamo a lavorare in casa, lo abbiamo fatto negli ultimi mesi, con Marina che si è impossessata legittimamente di quello che, fino a due mesi e passa fa, era il mio studio, nostro sulla carta ma mio nei fatti, perché lo usavo solo io, e io, che appunto anche prima del lock down lavoravo prevalentemente in casa, continuo a lavorare in casa, meno di prima, in termini di entrate economiche, è chiaro, ma non meno in termini di tempo impiegato e fatica profusa per impiegarlo, come vedremo a breve costretto a farlo tutti i giorni, weekend compreso, spesso anche dopocena.
I nostri quattro figli, idem, studiano a casa, le scuole sono chiuse, è noto, almeno fino a settembre, e la Azzolina, Dio abbia pietà della sua anima, se ne ha una, non sembra avere ancora idee sufficientemente chiare da metterci a nostro agio a riguardo, e uso la parola idea praticando un gesto di beneficenza, figuriamoci, i nostri figli sono quindi in casa con noi e non sono ancora usciti per due semplici motivi, motivi che a breve vi esporrò e che, lo avrete intuito, sono esattamente la parte fondante di questo mio essere fuori dalla grazia di Dio.
Il primo, semplice, ma arbitrario, è che io e Marina abbiamo deciso di seguire alla lettera le indicazioni che questi buffoni di politici ci hanno dato, non per fiducia nei loro confronti, sia chiaro, immagino che quel “buffoni” posto lì, non a caso, sia atto a esprimere appunto una scarsa fiducia nei loro confronti, quanto piuttosto per cautela, in casa con noi c’è mia suocera, oltre settant’anni, quindi a rischio, e vorremmo se possibile tutelarla.
Del resto, questo è scritto in quella sorta di commedia all’italiana che risponde al titolo di Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sono vietate le passeggiate (anche se poi sono consentite le attività motorie), nei parchi sono chiuse le aree giochi dedicate ai più piccoli e sono proibite le attività ludiche, non si possono incontrare gli amici (i nostri congiunti sono lontani), quindi nei fatti se mai dovessero uscire sarebbe per camminare, e camminare a Milano, oggi, di nuovo piena di auto, per di più con mascherine e guanti, non mi sembra attività così entusiasmante.
Non basta, i figli devono ovviamente essere accompagnati dai genitori, almeno i più piccoli, che hanno otto anni, e farli uscire per negare loro ogni forma di divertimento, suppongo, sarebbe ancora più difficile che dire loro di non uscire, tenersi per mano coi guanti di lattice, evitare di fare assembramenti, respirare a fatica come mi capita di fare quando vado a fare la spesa, ancora non ce la stiamo sentendo. Lo faremo, o forse dovrei dire lo faremmo, quando avremo (avremmo) abbastanza tempo per andare in un parco grande, dove quantomeno anche senza poter giocare ci si potrà svagare passeggiando senza rischi di incappare in gruppi di runner o ragazzi che si danno alle ritrovate apericene.
Ma questa è solo una parte del problema, e se contribuisce a farmi stare fuori dalla grazia di Dio, e contribuisce, ovviamente, perché tenere i figli in casa mi addolora, non lo fa in maniera altrettanto potente come l’altra parte del problema.
L’altra parte del problema è, direbbe Feltri, fattuale.
Lavoro in casa, l’ho sottolineato più volte. Marina anche in questo periodo lavora in casa, molto più di prima, lo smart working prevede questo, subdolamente.
Io lavoro senza interfacciarmi con altri che non siano me stesso e il mio editore, oltre che i miei lettori, ma il mio interfacciarmi con queste due entità, una delle quali siete voi che mi state leggendo, in un tempo indeterminato che potrebbe anche essere proiettato molto in avanti nel tempo, tra anni, il mio interfacciarmi con queste due entità, quindi, non prevede che io debba lavorare in orari determinati, specifici, lavoro, spedisco, pubblicano, leggete, amen.
È così da sempre, fatte le debite eccezioni per quando devo andare in radio, in tv, fare delle dirette sui social, intervistare qualcuno o incontrare qualcun altro, fatto, questo che sia così da sempre, che spesso spinge me e Marina a impostare la nostra vita familiare giocando su questa mia presunta flessibilità, se c’è un’emergenza, se c’è qualcosa da fare in orario d’ufficio, se, per dire, un figlio ha la febbre a scuola e tocca andarlo a prendere con urgenza, ecco che intervengo io, quello che lavora in maniera flessibile, e ben so che spesso questa lettura del mio lavoro spinge alcuni, anche Marina stessa, temo, a pensare che io non faccia un cazzo. Lungi da me il tirar fuori l’opinione che gli atri hanno del mio lavoro, intendiamoci, non mi interessa cosa gli altri pensano del mio lavoro, anche quello è fattuale, io sono quello che fa il lavoro figo, che prevede che vada ai concerti, che conosca i cantanti, che stia in radio o in tv, quello che, quindi, presumibilmente non lavora davvero, lo so bene, foste anche voi dei cazzo di scrittori e critici musicali come me potreste farlo anche voi, sarà per un’altra vita. Andiamo avanti.
In questi mesi di clausura, quindi, il mio lavoro flessibile ha portato a questa situazione specifica, il mio studio, mio e di Marina, tecnicamente, ma che ho sempre usato solo io, salvo le rare occasioni in cui Marina ha praticato lo smart working prima del Coronavirus, quindi mio per uso capione, il mio studio è diventato il suo studio, col risultato che io mi ritrovo a lavorare in giro per la casa, come un classico tappabuchi, o forse dovrei dire riempibuchi, appena vedo una stanza vuota mi ci fiondo, mi sposto dove non creo disturbo agli altri, mobile oltre che flessibile, ma questo mi fa più ridere che incazzare, lo confesso, perché sembra che la famosa frase di Conrad, mia moglie non sa che anche quando guardo dalla finestra sto lavorando, sia applicabile a situazioni anche più assurde, mia moglie non sa che anche quando sono steso sul letto a guardare l’iPad o in balcone al telefono io sto lavorando, per dire. L’altra situazione, e questa mi fa immensamente incazzare molto di più della faccenda dello studio espropriato, è che io lavoro quando ho tempo di lavorare, perché ci sono i bambini da seguire e i bambini da seguire portano via una numero impressionante di ore.
Chiaro, Marina organizza compiti e lezioni, la sera, dopo che ha finito lo smart working, spedisce alle maestre i compiti fatti e tiene i contatti con maestre e genitori, oltre che gestire la casa, con l’aiuto di mia suocera, ma nei fatti, ogni giorno da oltre due mesi io passo quattro, cinque, a volte anche sei ore a fare i compiti con loro, cioè a far fare loro i compiti, a far vedere loro i video mandati dalle maestre, far sentire loro i file audio, spiegare quello che i file audio e i video evidentemente non riescono a spiegare, perché non prevedono le domande, le integrazioni, io collego il mio iPad o il mio computer per le videolezioni, seguo addirittura le lezioni di scacchi o di teatro che avevamo pagato a suo tempo e che, come i vari mesi di piscina pagati a maggio scorso, mesi di piscina che sarebbero dovuti terminare a giugno 2021, il Comune di Milano a fare cassa con oltre un anno di anticipo, ladri infingardi, nessuno ha neanche vagamente pensato di risarcire restituendoci quanto abbiamo già pagato.
Faccio, in sostanza, il maestro, pur non avendo studiato per fare il maestro. Intendiamoci, non voglio dire di essere in difficoltà nello spiegare a bambini di terza elementare quel che mi chiedono, fatico a ricordare certi passaggi, sicuramente non ho metodo né sono aggiornato, ma conosco gli argomenti trattati in terza elementare, stavo semplicemente andando oltre. Andavo, cioè, in un luogo nel quale il non aver studiato per fare il maestro comportasse una mia precisa scelta, non una mia peculiare pecca, la scelta specifica di non fare il maestro, scelta che ho sposato, inseguito e che, per contro, ho sostituito con la scelta di fare altro, il mio mestiere, mestiere per il quale invece ho studiato e ancora studio molto, e per il quale vengo pagato, ahimè, mano di quanto dovrei essere pagato.
Non ho studiato per fare il maestro ma faccio in sostanza il maestro ad honorem, senza essere pagato per fare il maestro, mi sentirei di aggiungere con una nota di rammarico, e, ironia della sorte, non potendo nel mentre lavorare, quindi non guadagnando per fare un mestiere che non volevo fare e per il quale non vengo pagato.
So che nelle mie condizioni si trovano tanti altri genitori, quasi tutte mamme, ne ho precisa coscienza, ma questo è il mio diario, non un diario collettivo, quindi parlo della mia specifica condizione di maschio che segue i compiti dei figli, fate finta che io sia una donna, se ne sentite necessità.
Di più, perché c’è di più, e veniamo al vero motivo per cui ora, proprio ora, sono fuori dalla grazia di Dio, il fatto che io passi buona parte della giornata a fare un lavoro che non è il mio, e che non mi viene ovviamente retribuito non essendo il mio, mentre per il quale viene retribuito giustamente qualcun altro, questo mio scrivere di didattica a distanza non intende ovviamente mettere in risalto aspetti negativi degli insegnanti, quanto proprio dell’idea stessa di didattica a distanza, qualcun altro che, per contingenze, non può fare come avrebbe fatto non ci fosse stato il Coronavirus, certo con malessere, il diritto al lavoro è sancito dalla Costituzione, certo con difficoltà, nessuno era preparato a tutto questo, il fatto che io passi buona parte della giornata a fare un lavoro che non è il mio, e che non mi viene ovviamente retribuito non essendo il mio fa sì che, una volta che smetta di fare questo mestiere non mio, il maestro ad honorem, ripeto, io debba necessariamente iniziare a fare il mestiere per il quale vengo pagato, molto meno che in epoca non emergenziale, perché alcune aziende si sono date alla macchia, perché alcuni progetti sono entrati in stand by, perché alcuni progetti sono definitivamente morti, progetti per i quali avevo già molto lavorato, sia chiaro, il fatto che io passi buona parte della giornata a fare un lavoro che non è il mio, e che non mi viene ovviamente retribuito non essendo il mio, il maestro ad honorem, io debba necessariamente iniziare a fare il mio mestiere, pagato meno ma non per questo meno impegnativo, perché proprio lo stato emergenziale mi costringe, come molti, a farmi venire nuove idee, sviluppare nuove idee, proporre qualcosa che sia praticabile a distanza, che sopperisca alla momentanea morte del sistema musica, sistema musica nel quale mio malgrado io ho deciso di lavorare ormai parecchi anni fa.
Tradotto, passo parte della giornata a fare il maestro ad honorem, e nessuno provi a dire che faccio semplicemente il genitore, perché fare il genitore non prevede anche assecondare i deliri di un ministro come la Azzolina, non scherziamo, e se mai qualcuno di voi avesse pensato di usare la parola “mammo”, manco fosse un articolo di Repubblica, vi prego, smetta immediatamente di leggere e si incammini a larga falcate a fare in culo, “mammo” un cazzo, sono un padre e sono un padre constretto a assecondare una ministra incompetente facendo il maestro ad honorem, questo è quanto, padre che per il resto della giornata si ritrova quindi a fare lo scrittore e il critico musicale, con la fatica che farlo in clausura, senza input esterni, e anche con la fiacca dello stare sul divano comporta, senza più avere un minuto che sia uno di tempo libero, per me e per i miei cari, figli compresi.
Anche nei fine settimana, ovviamente, che diventano una lunga sequela di compiti e di lavoro, esattamente come tutti gli altri giorni della settimana. Scuola e lavoro, lavoro e scuola.
E basta.
Fin qui tutto male, verrebbe da dire, ma ancora non è niente.
Perché in tutto questo ci sono le persone, e nello specifico le persone che ci sono in tutto questo sono i miei figli, Lucia, diciotto anni, Tommaso, quattordici, Francesco e Chiara otto.
Tutti in casa da un numero impressionante di giorni, settantasei, e tutti costretti a stare in casa per ragioni che capiscono, con le debite differenze di età, ma fino a un certo punto, perché poi si affacciano sul balcone, e sotto vedono una marea di gente che passeggia, va in giro in bici, chiacchiera con o senza mascherina, le auto che sono tornate a sfrecciare nella via fino a pochi giorni fa deserta. Per non parlare dei famosi video online, quelli della gente ai Navigli, che suona bonghi nei parchi, parlo solo di quello che vedo coi miei occhi.
Attenzione, non sto facendo lo sceriffo, il delatore, o quella roba lì, non mi interessa. Solo che questo succede, e succede in virtù di decreti scritti col buco del culo che permettono tutto e il suo contrario, e che ovviamente lasciando al buon senso della gente la loro applicazione hanno risultati discutibile.
Non sono tra quanti predicano la clausura come scelta di vita, intendiamoci, l’hikikomori di cui vi ho parlato qualche giorno fa mi fa cagare, ma avevo capito che sarebbe stata una ripartenza graduale, senza per dire incontri di gruppo con amici, mentre vedo tutt’altro, e va bene così.
Non sono tra quanti predicano la clausura ma in casa mia abbiamo deciso di applicare la prudenza, seguendo cioè le indicazioni di questi buffoni che ci guidano e di parte degli scienziati, al momento spesso anche più buffoneschi dei politici nell’inseguire le luci della ribalta, e soprattutto pensando a tutelare chi avrebbe possibili problemi dovuti a nostra imprudenza, mia suocera, appunto. Ci sono quindi i miei quattro figli che non sono ancora usciti, da una parte per questa nostra scelta prudente, dall’altra, e veniamo al vero motivo che mi manda fuori dalla grazia di Dio, proprio perché il mio dover fare il mio mestiere nel tempo che il fare il maestro mi concede, situazione non troppo diversa da quella che si trova a vivere Marina, che con lo smart working lavora ovviamente più che in ufficio, e che quando smette deve organizzare lo studio e i compiti per il giorno seguente , mandare i compiti alle maestre, star dietro alle comunicazioni con gli altri genitori, insomma, fare la sua parte di madre di quattro figli che fanno scuola, il mio dove fare il mio mestiere nel tempo che fare il maestro ad honorem mi concede, unito al dover fare la maestra ad honorem nel tempo che il suo lavoro le concede, parlo per Marina, fa sì che io e Marina non abbiamo davvero un minuto di tempo libero, i weekend identici al resto della settimana, anche se speriamo di ritagliarci almeno un’oretta per azzardare una prima uscita, con Marina che mentre io seguo i compiti si occupa della casa, ragion per cui, anche avessimo voluto assaporare questa nuova libertà concessa e consentita (termine orribile usato da Conte), non avremmo potuto, per assenza di tempo, neanche un minuto di tempo da dedicare a noi, neanche un minuto di tempo da poter dedicare ai nostri figli.
Siamo, in sostanza, ostaggio della didattica a distanza, oltre che del Coronavirus, didattica a distanza che, parlo per me, non voglio farlo anche a nome di Marina, trovo una cagata immensa, non per demeriti degli insegnanti, tutti più o meno volenterosi, più o meno, tutti a ingegnarsi per metterci una pezza, anche se sul concetto del “ce la metto tutta” applicata al lavoro vorrei prima o poi aprire dibattito, ma proprio perché incapace di trasmettere nozioni utili ai bambini nel poco tempo concesso loro, comunque probabilmente anche troppo passato davanti ai device, oltre che incapace, ovviamente, di trasmettere quell’empatia che lo stare in classe ovviamente porta con sé, perché va bene ricevere le coccole delle maestre, ma farlo da uno schermo per pochi minuti a settimana è davvero poca roba.
Fin qui tutto molto male, quindi.
Ma non basta ancora.
Perché giustamente non tutti vivono nelle medesime condizioni, c’è chi sta decisamente peggio, parlo non solo di chi ha subito lutti o ricoveri, ma anche di chi ha meno possibilità, meno possibilità che vivere in casa ha reso dolorose, ma c’è anche chi sta meglio, perché ha più possibilità, e, per dire, magari non sta lavorando in questo periodo perché non lavorava neanche prima, quindi, sempre per dire, fare il maestro o la maestra ad honorem non gli pesa perché ha tempo libero, sempre e comunque partendo dal presupposto che non starebbe a noi seguire così pedissequamente le lezioni, gente che non faceva un cazzo che, quindi, finite le lezioni può andare al parco coi figli, passeggiare coi figli, insomma, uscire e dare un senso alla cosiddetta Fase 2.
Fase 2 che, è normale, direi, è entrata, seppur di passaggio, nelle videolezioni dei medesimi figli, con i compagni di classe a dire, parlo di alcuni, che bello è poter di nuovo uscire e andare al parco, e altri compagni di classe, penso ai miei, a starli sentire attoniti.
Ero presente, come sempre, stiamo parlando non solo di bambini collegati alla rete, ma anche e ovviamente di minori collegati alla rete, a una videolezione nella quale tutto ciò è avvenuto, anche perché non ho più il mio studio e il mio solito orario di lavoro e dovevo controllare che tutto funzionasse, mio il device, quando ho sentito con le mie orecchie tutto ciò, provando prima rabbia, poi sgomento. Sgomento appena smussato dal carattere istrionico di mio figlio Francesco, lì a dire che non era uscito, ma che si era travestito da Vichingo, come se vestirsi da vichingo fosse una valida alternativa a poter andare finalmente fuori.
Vi giuro, quando ho sentito la frase “Io mi sono vestito da vichingo,” detto con orgoglio, ma anche con un po’ di sconforto, mi si è aperta una voragine al posto del cuore. Avrei voluto prendere l’iPad e schiantarlo contro il muro, gettarlo di sotto, farlo a pezzi.
Mi sono vestito da vichingo.
Non, sono andato a passeggio, non, ho ripreso a uscire come prima, no, mi sono vestito da vichingo, anche una risposta figa, a dirla tutta, ma comunque colma di un disorientamento, uno spaesamento, come a dire, chissà perché papà e mamma a noi non ci hanno fatto uscire?
Ho provato, lo confesso, un senso di sgomento che raramente ho provato in vita mia, manco avessi tenuto i miei figli reclusi in una cantina come il mostro austriaco che seviziava sua figlia.
Lo stesso che ho provato quando mia figlia grande, Lucia, l’altro giorno si è messa a piangere perché non riesce più a vivere il suo diciottesimo anno di vita chiusa in casa, ogni due minuti viene a cercarmi con un video di gente che fa festa in una qualche parte di Milano, lei col fidanzato in un altro comune, della cinta milanese, lei con buona parte delle amiche di altri comuni, la scuola che frequenta non è infatti a Milano. Se penso ai miei diciott’anni e li lego all’idea di stare chiuso in casa mi sanguina il naso, vederla piangere è davvero una cosa più grande di me.
Sono fuori dalla grazia di Dio, ripeto.
Sono senza parole.
E ribadisco, sono senza parole anche perché, nell’emergenza, la didattica a distanza, che assorbe tempi ai genitori, al loro lavoro, e che quindi influisce poi anche sul tempo libero dei bambini, perché se io lavoro quando potrei portarli a fare una camminata poi loro la camminata non possono farla, la didattica a distanza si sta dimostrando solo un problema nel problema.
Fatico, come Marina, a gestire lo stress dei nostri quattro figli, questo sì parte del nostro compito di genitori, genitori a loro volta stressati.
Perché è difficile essere genitori in tempo di pace, tanto più lo è in una situazione così innaturale come questa.
Stiamo facendo sacrifici incredibili, non vi dico la rabbia quando leggo sui social commenti come “li avete fatti, ora teneteveli”, come se non lo facessimo già tutti i giorni da una vita, ma fare sacrifici con un senso di abbandono da parte dello stato, che è desolante, mai cagati prima, non cagati ora, è davvero avvilente. E nessuno provi a dire “la scuola non è un parcheggio”, perché, direi, sfido chiunque a dimostrare il contrario, non ho mai pensato alla scuola come a un parcheggio e perché, comunque, che la scuola sia obbligatoria e quindi il mandarceli un tot di ore al giorno è qualcosa che è stato stabilito da altri a monte, e se mi fossi rifiutato di mandarceli, prima dell’emergenza, ne avrei pagato le conseguenze, stare ora a fare il coglione dicendo che non devo pensare la scuola come il luogo nel quale, per consuetudine, i bambini passano parte della giornata, quindi anche con la valenza sociale di supporto ai genitori che lavorano, è un dato di fatto incontrovertibile, chi dice il contrario è appunto un coglione.
Quindi, d’ora in poi, chiunque si azzardi a tessermi le lodi della didattica a distanza si troverà catapultato in un nanosecondo in quello che Marc Augé chiamerebbe un non-luogo e che io chiamo fanculo, senza possibilità di ritorno, è scritto.
Non merita lodi, la didattica a distanza, nonostante gli sforzi, l’impegno e l’empatia di chi la pratica e di chi la segue. Non merita lodi perché la scuola è altra cosa, sia che si sia alunni che se si sia insegnanti, e lasciamo da parte che in entrambe le categorie ci sia chi svolge male il proprio ruolo, con le debite differenze che qualcuno viene pagato per farlo.
Poi, ma qui andiamo su un terreno diverso, probabilmente più minato dell’altro, potrei anche aprire dibattito sulla questione di come si sta affrontando la Fase 2. Potrei, cioè, non tanto chiedere che cazzo c’è da festeggiare, non mi interessano gli stati d’animo degli altri, non più di quanto non mi interessino normalmente, e siamo davvero vicini allo zero, quanto piuttosto chiedere perché ci si lamenti costantemente degli atteggiamenti degli altri, quelli che lasciano le cartacce in terra, quelli che parcheggiano in doppia fila, quelli che non pagano le tasse, per poi passare subito a fare il cazzo che si pare, senza tenere conto delle regole, perché se si dice mascherina obbligatoria si intende mascherina obbligatoria, se si dice visite a i congiunti con distanze di sicurezza e in tempi ridotti si intende visite ai congiunti con distanze di sicurezza e in tempi ridotti, perché se si dice che non si può incontrare gli amici e fare assembramenti si dice che non si può incontrare gli amici e fare assembramenti, invece se ognuno fa il cazzo che gli pare poi la prossima volta che uno vi parcheggerà l’auto sul passo carraio spero che seguirete la sola indicazione possibile in questi casi, vi attaccherete al cazzo e tirerete lungo.
Non ho fiducia nel governo, l’ho detto allo sfinimento, e non credo nella democrazia, ma vivo in questo paese, qui pago le tasse, e quindi mi adeguo alle regole che sono vigenti. Gradirei facessero altrettanto tutti i cittadini, ma vedo che esistono le regole e i classici modi per aggirarle, e questo mi immalinconisce.
Mai quanto però mi immalinconisce vedere i miei figli chiusi in casa e sentirsi in qualche modo figli di un Dio minore.
Ho più volte esternato la mia volontà, utopica, di essere altrove, e so bene che mettere le parole volontà e utopia nella stessa frase è qualcosa che non ha molto senso, ma davvero penso, come diceva giorni fa sul Corriere Houellebecq, usciremo da questo virus senza qualità peggio di come eravamo prima, eravamo stronzi, saremo molto stronzi.
Chiudo attaccandomi ancora una volta alla musica, quella che per anni è stato il mio rifugio, e che in questa landa desolata che è l’odiernità mi serve più che altro da innesco di quel detonatore che ho dentro la testa.
In questi mesi, come si sarà capito da questo capitolo del mio personale Decameron, abbiamo dovuto convivere con una stortura che risponde al nome di didattica a distanza, un fallimento epocale dietro il quale si nasconde una classe politica di pagliacci e anche un sistema scuola che si è dimostrato clamorosamente inflessibile e incapace di stare al passo coi tempi e con le contingenze, didattica a distanza che in molti si sono affrettati a chiamare D.A.D., manco fosse il nomignolo simpatico da dare a un robottino di quelli che fanno le dimostrazioni agli eventi scientifici. Bene, anzi, ripeto, male, io contrappongo alla D.A.D. gli assai più sensati D.O.A., band canadese da oltre quarant’anni portatori di un hardcore, in qualche modo addirittura genitori del genere in questione, coi Minor Threat di Ian MacKey e i Bad Brains. Nel loro ultradecennale repertorio scelgo Hardcore ‘81, a suo modo un classico dell’alternative, ma c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Il nome della band di Joey Shithead Keithley sta per “dead on arrival”, cioè “giunto cadavere”, e fa riferimento a quanto i medici del pronto soccorso scrivono nei loro referti nel caso, appunto, che un paziente arrivi in ospedale già morto.
Direi che lo si potrebbe serenamente applicare alla didattica a distanza, la D.A.D., con la sola differenza che almeno i D.O.A. sono buoni per pogare e farci sentire vivi.