Il 6 maggio è l’anniversario del giorno più brutto della mia vita

Il giorno ideale per ascoltare Il Giorno Di Dolore Che Uno Ha di Luciano Ligabue

Photo by Elena Torre


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Oggi è un giorno no.

Oggi è il mio giorno no, il nostro giorno no.

Lo è tutti gli anni, da ventidue anni a questa parte, anche se a volte capita lo sia meno, perché la frenesia della vita lo fa passare via senza concedergli la possibilità di morderci alla gola come lui, di sua natura vorrebbe. Pensiero che segue le stesse regole dello struzzo, in apparenza, mi nascondo sotto la sabbia, lui non potrà vedermi, ma che in realtà funziona, almeno parzialmente, perché poi è vero che ci raggiunge in altri momenti, a sorpresa, ma almeno non ci tormenta come vorrebbe e potrebbe.

Perché oggi è l’anniversario di quello che, fino a oggi, è il giorno più brutto della mia vita.

Non intendo spiegarvi perché oggi sia il giorno in cui ricorre l’anniversario del giorno più brutto della mia vita, in questo caso i dettagli non sono importanti. O meglio, lo sarebbero pure, ma non ho intenzione di concedervi il privilegio di conoscerli, come vi ho detto in altro capitolo, scritto in altro giorno di clausura, sono una persona cresciuta secondo pudore, e se ho lavorato e lavoro per abbattere lo stupido pudore legato al nascondere il corpo non intendo farlo rispetto a quello che mi spinge a nascondere certi sentimenti, della serie potrebbe anche capitare di vedermi il culo, non certo ogni singolo anfratto della mia anima rattoppata.

Non abbiamo questo tipo di confidenza, o meglio, magari a leggermi c’è chi ha questo tipo di confidenza, e quel giorno c’era, gli altri no, e va bene così.

Vi basti sapere che in qualche modo è un giorno che ha cambiato tutto, nella vita di Marina e nella mia, scombinato equilibri, confuso certezze che davamo per scontate, cambiato anche i nostri caratteri, costringendoci a prendere forme diverse che rimanessero comunque compatibili, ha decisamente spinto noi stessi verso noi stessi, con tutto quello che questa affermazione possa e voglia dire, ci ha forse anche fortificati, ma ne avremmo volentieri fatto a meno, sempre che sia vero che i dolori fortificano e non sia solo parte di quella stupida propaganda tutta sensi di colpa e espiazione con cui ci hanno cresciuto col vecchio catechismo, e che oggi, immobilizzato nel tempo fermo di questa estenuante clausura, è come se potessi riviverne ogni minimo secondo, esperienza affatto piacevole, perché certi dolori non hanno nulla da offrirci, neanche la consolazione morbosa del poter dire “però ce l’ho fatta”, ce la facciamo sempre tutti, in un modo o nell’altro.

Oggi, quindi, è un giorno no.

Uno dei tanti giorni no di queste settimane e mesi di clausura, verrebbe da aggiungere, ma un giorno no particolare, un no al cubo, che nessun subconscio potrà mai del tutto seppellire.

Intendiamoci, ne ho altri, di giorni no, di quelli che lasciano segni, anche se di quelli non ricordo mai l’anniversario, neanche lo so, l’anniversario, perché hanno avuto tutti altri finali.

Ricordo perfettamente, per dire, il giorno in cui quella anziana ginecologa, alla clinica Mangiagalli, ci ha detto che non si sentiva il battito del cuoricino di uno dei due gemelli, lì nella pancia di Marina, a poche settimane dal parto, concordato per fine ottobre, Chiara, nello specifico. Era quindi sicuramente un giorno di metà settembre, la data del parto concordata l’avrebbe poi mandata a puttane Francesco, rompendo le acque e spingendo i medici a un taglio cesareo anticipato, nelle prime ore dell’alba di un sabato mattina di fine settembre, ma questo sarebbe successo qualche giorno dopo questo aneddoto, aneddoto che ha per protagonista una anziana ginecologa che mentre visita Marina, i soliti macchinari che dopo un po’ ci sono diventati familiari, dice che non sente il battito del cuoricino di Chiara, e so che usare la parola cuoricino in questo aneddoto è da stronzo, che è debole, quel battito, troppo debole, e lo dice con la faccia che perde colore velocemente, passando da rosa a bianco, correndo con gli occhi intorno alla stanza, come a cercare certezze da darci, certezze che però al momento non ha. Sì, quel giorno ci ha detto così, “il battito della bambina è debole, troppo debole”, e subito sia io che Marina siamo corsi con la testa al ricordo, indotto ovviamente, del mio fratello gemello Francesco, Francesco come nostro figlio Francesco, l’altro gemello, nome che gli abbiamo dato anche per ricordare il mio di gemello, morto durante il parto perché strozzato dal cordone ombelicale, erano anni in cui non c’era l’ecografia, in cui era difficile tutto, quando si trattava di medicina, parlo di quando sono nato io e quando Francesco, il mio gemello, è morto, io e Marina a vivere con apprensione la sua gravidanza gemellare, perché la morte del mio fratello gemello, Francesco, morto il giorno in cui sono nato io, quindi il cui anniversario della morte coincide col mio compleanno, perché la morte del mio fratello gemello, Francesco, è sempre stata lì, nella mia vita, una presenza assenza pesante, importante, mia madre a piangere di nascosto in camera il giorno in cui avrebbero dovuto tutti essere felici per me, e chissà che sforzi che in effetti facevano tutti per mostrarsi sempre felici il giorno del mio compleanno, questo finché non sono cresciuto, in quell’età nella quale non si festeggiano più i compleanni in famiglia, se non con un brindisi la sera, mai andato a vedere la tomba di mio fratello io, forse memore di quanto avevo letto a riguardo di Philip K. Dick, anche lui gemello sopravvissuto a sua sorella, Philip K. Dick che però era sopravvissuto a fatica al parto, infatti i genitori gli avevano già fatto preparare la tomba a fianco a quella di sua sorella, con tanto di data di nascita e spazio per inserire quella della morte, di quelle lapidi piccole, immagino, perché le tombe dei bambini occupano meno posto, le bare sono ovviamente meno spaziose, bianche, ma questa è una ricostruzione che mi sono fatto io a posteriori, perché in realtà non ci sono mai andato di mia volontà perché non ci volevo andare, non amo andare per cimiteri, non ci vado mai, a trovare i miei nonni, accompagno giusto Marina a trovare i suoi cari, ma lo faccio per quella forma di amore che ci spinge a fare come fossero naturali gesti che altrimenti non faremmo mai, io voglio che il mio cuore venga seppellito sul Monte Conero, l’ho scritto chiaramente, non voglio che nessuno venga a trovarmi coi fiori, gli occhi inumiditi, odio i cimiteri, anche quelli belli che all’estero si vanno a visitare da turisti, io che non ho mai messo piede al Monumentale di Milano, e comunque io mi sarei dovuto chiamare Francesco, non Michele, mi hanno sempre raccontato, perché i due nomi scelti erano quelli, Francesco e Michele, ma Francesco piaceva di più ai miei, e immagino dovendone scegliere solo uno, quello del sopravvissuto, appunto, è su Francesco che sarebbe ricaduta la scelta, solo che una suora, lì nella clinica dove io sono nato e Francesco è morto, una suora francescana, ha battezzato mio fratello dandogli quel nome, ha battezzato mio fratello già morto, per tutta quella faccenda del limbo, che poi non ricordo che papa ha ovviamente spazzato via come si fa con l’immondizia, chiamando lui Francesco, così io mi sono chiamato Michele, nome che per altro mi piace molto, mentre Francesco è il nome che io e Marina abbiamo scelto per il nostro gemello maschio, appena abbiamo saputo che sarebbero stati due gemelli, cosa che, per dire, non avevamo fatto, immagino sempre per qualcosa che ha a che fare col pudore, quando dovevamo decidere i nomi degli altri figli, figli dei quali abbiamo scoperto il sesso quando sono nati, Lucia era un nome che sapevamo entrambi avremmo usato in caso di una figlia, perché entrambi lo amavamo molto, addirittura io lo avevo usato come pseudonimo di Marina per chiamare il personaggio a lei ispirato per i miei romanzi poi finiti nella trilogia Avrei Voluto Tutto, ma se Lucia fosse stata un maschio lo avremmo chiamato Mattia, nome che poi è uscito di scena quando si è trattato di decidere come chiamare Tommaso, vedi a volte come girano le cose, e se non sbaglio, e so che Marina si incazzerà nel constatare che ho dimenticato un passaggio così importante della nostra vita di coppia, amen, se ne farà una ragione e me ne farò una ragione anche io, Sofia è il nome che avremmo scelto nel caso che Tommaso fosse stata una femmina, ma per i gemelli nessun dubbio, appena abbiamo scoperto che erano maschio e femmina, e lo abbiamo scoperto prima, con la villocentesi, abbiamo scelto Francesco e Chiara, perché stavano bene insieme, perché ci piacevano entrambi, e perché Francesco era ovviamente Francesco, una sorta di pareggio col karma, il sapere che avremmo avuto gemelli, la scelta di chiamarlo proprio Francesco, e adesso c’è questa anziana ginecologa che ci lascia capire che Chiara potrebbe non farcela, non superare questo problema accorso, il cuore che batte più lento, i cuore che batte troppo lento, cuore che però poi ha ripreso a correre, veloce, velocissimo, così, di colpo, senza un motivo, velocissimo come corrono in genere i cuori dei bambini, e i nostri cuori col suo, e ora Chiara è di là, a guardare la tv in sala, mentre lui, Francesco, sta giocando con lo smartphone di mia suocera, sulla testa una finta cresta punk ipercolorata, pagliaccio come suo padre, chissà se anche pagliaccio come sarebbe stato suo zio, me lo sono spesso chiesto, perché ho sempre sentito un sacco di storie sui gemelli, storie che ho anche già raccontato, dal fatto che i gemelli non fanno i gemelli a quelle che vogliono i gemelli legati da una sorta di legame sovrannaturale, capace di superare i linguaggi verbali e gestuali, e mi sono spesso chiesto cosa ci saremmo detti, io e il mio gemello, senza avere ovviamente risposta, perché il Francesco che è di là è sì il mio gemello, ma nel senso che è il gemello di cui sono padre, Francesco che sta giocando con lo smartphone di mia suocera, sua nonna, fratello gemello di Chiara, che in questo ricordo è dentro la pancia di Marina, ma ha il battito che si è fatto troppo flebile, quei pochi minuti di terrore li ricordo benissimo, come fosse successo adesso. Un altro giorno decisamente no, quello, seppur finito decisamente meglio.

Del resto coi figli funziona così, ci sono sempre momenti nei quali le nostre certezze sono spazzate via, nei quali la nostra volontà di controllo viene messa in discussione, annullata, sospesa, credo che anche questo sospenderla, imparare a convivere con l’impossibilità di avere tutto sotto controllo, sia parte dell’essere genitori, del resto, sia una sorta di prova fisica e psicologica cui i genitori devono essere costantemente sottoposti, temprati come si fa con il vetro e il fuoco, questo immagino io e Marina e tutti gli altri genitori dovremo affrontare quando si ripartirà, se nel mentre il Coronavirus non sarà sparito, imparare a convivere anche con queste nuove terrificanti paure, come quando, questo è successo pochi mesi fa, lui, Francesco, è cascato dal triplo letto a castello che abbiamo nella camera dei ragazzi, ve ne ho parlato qualche settimana fa, a proposito del fatto che Tommaso aveva provato a portare giù il materasso del terzo piano per fare gli esercizi di ginnastica, mentre lui, Francesco, era al terzo piano come si sale su una casa sull’albero, per cercare un po’ di solitudine, di privacy, lo faceva spesso, prima di quel giorno, non lo ha più fatto dopo, e era al terzo piano per leggere, lui che è così appassionato di libri, specie di libri che ruotano intorno al calcio, da quelli sulla sua amata Juventus a quelli di Luigi Garlando, la serie Goal e Supergoal, poi si è addormentato, questo siamo riusciti a ricostruire, cadendo dal terzo piano fino a terra, sul parquet, di testa.

La porta della camera era chiusa, nessuno ha sentito il rumore, il tonfo, nessuno tranne Chiara, che era lì con lui, a giocare al pian terreno di quello stesso letto. Io ero in studio, non proprio attaccato alla camera, ma ho sentito attraverso la porta chiusa un pianto strano, non da Francesco, e per quel sesto senso che ci spinge, appunto, a raddrizzare antenne che neanche sappiamo di avere, sono corso per controllare, giusto il tempo di vedere lei, Chiara, china su Francesco, steso a terra, lei che mi guarda e dice “Lo stiamo perdendo, lo stiamo perdendo,” come in una puntata di Grey’s Anatomy, una puntata di Grey’s Anatomy che probabilmente non avrebbe dovuto vedere, una scena surreale, che a scriverla, ora, potrebbe anche far ridere, come se invece che in una scena di Grey’s Anatomy o, prima, E.R. fossimo in una scena di Scrubs, serie che però mi ha sempre fatto molto cagare, perché non credo che ci sia un cazzo da ridere, quando si tratta di dolore, e perché, anche se la scena è in effetti piuttosto surreale, al momento Chiara che mi dice “Lo stiamo perdendo” mi si conficca in testa come un chiodo in una di quelle scene da film horror in cui il malcapitato è inquadrato in primo piano, gli occhi fissi in camera, quando di colpo da uno dei suoi bulbi oculari spunta qualcosa di appuntito, che so?, un coltello, un ferro da lana, colto di sorpresa dal mostro protagonista del film, morto stecchito, niente da ridere, solo da impaurirsi a morte, mentre Francesco piange, si lamenta, è confuso, io lo vedo e capisco subito che non è una semplice caduta, i bambini sono fatti di gomma, vi direbbe qualsiasi genitore cercando di spiegare come sia possibile che un bambino faccia una caduta anche piuttosto violenta senza però farsi nulla, una caduta che, la avesse fatta un adulto, ci avrebbe messo mesi di gesso e fisioterapia per rimettersi in piedi, sempre che un adulto fosse sopravvissuto a un volo del genere, senza magari rimanerne per sempre menomato, mentre lui, il bambino, è già lì in piedi a saltare come niente fosse, i bambini sono di gomma, ma non è questo il caso, è evidente che non è questo il caso, è evidente che è successo qualcosa di grave, che Francesco si è fatto molto male, provo a chiedere a lui cosa sia successo, ma è confuso, non ricorda, non riesce a parlare, piange e si lamenta, non riesce neanche a rimettersi in piedi, la faccenda che se trovi un corpo a terra non lo devi muovere è buona per i film americani, diciamolo chiaramente, chiedo allora a Chiara, che mi dice che ha visto Francesco cadere dal letto, specificando che crede stesse all’ultimo piano, come del resto è solito fare da tempo, la sua casa sull’albero, appunto, luogo fondamentale anche in una casa grande come la nostra, se ci si vive in sette, chiamo Marina, urlo a Marina di prepararsi, lei mi guarda e non chiede, si prepara, non siamo gemelli, io e Marina, ma stiamo insieme da una vita, ci capiamo, sappiamo parlarci anche senza parlare, gli infilo le scarpe, la giacca a vento e tenendolo in braccio faccio lo stesso con me. Corriamo, corriamo giù in ascensore, anche se l’ascensore va sempre alla solita velocità, corriamo verso la macchina e miracolosamente mi ricordo subito dove l’ho parcheggiata, e poi corriamo verso l’ospedale più vicino a casa nostra, quello di cui ci fidiamo di più tra quelli più vicini, viviamo a Milano, ci sono tanti ospedali, e corriamo al pronto soccorso dove ci fanno subito entrare. Ecco, il momento in cui il dottore ci dice, dopo aver consultato la tac alla testa, che c’è una microfrattura alla base del cranio, in corrispondenza dell’orecchio sinistro, che ci sono due piccoli versamenti di sangue e che, se non dovessero riassorbirsi, lo dovranno operare alla testa, che non è detto che ritorni a usare l’orecchio, ma questo è un discorso che si potrà fare solo dopo che i due versamenti saranno risolti, la frattura rientrata, così, senza troppi giri di parole, senza nessun tentativo di rassicurarci di coccolarci, è un altro di quei momenti che non dimenticherò mai, quelli che in genere si ricordano usando espressioni come “ho perso dieci anni della mia vita”, e in effetti è vero, credo, ho perso dieci anni della mia vita, anche se poi tutto è rientrato e dopo qualche giorno di ricovero Francesco è tornato a casa, e dopo un paio di mesi di controlli sarebbe anche potuto tornare all’attività fisica, per altro sentendoci benissimo, pronto a riprendere anche lo sport, lui che è un grande appassionato di calcio anche giocato, pure piuttosto bravino, come suo padre, che poi sarei io, uno lezioso, quindi, che ama stare davanti e segnare, i suoi amici lo chiamano Bomberito, anche se sono convinto che è un nome che si è inventato lui e glielo ha proposto, forte di quella sua verve da istrione che lo fa sempre star lì a chiacchiera, in campo come del resto fa anche a casa, e temo anche a scuola, uno appassionato di calcio anche giocato e che fa calcetto nel doposcuola, perché di farlo giocare in una squadra di calcio neanche ci penso, mi fa orrore il mondo del calcio, anche del calcio giovanile, fa calcetto a scuola oltre che nuoto nella piscina che è nello stesso isolato della scuola, girato l’angolo, fa piscina con Chiara, una volta la settimana, non fosse che poi sono arrivate le vacanze di Natale, l’incidente è successo a novembre, Tommaso che ha accusato il colpo andandoci sotto, psicologicamente, troppo sensibile per affrontare tutto questo a soli quattordici anni, la paura di perdere suo fratello, Lucia, in apparenza più forte che ci si è legata ancora di più, lei e Francesco hanno questo marchio da pecore nere che li tiene in simbiosi, Chiara che di colpo si è fatta ancora più coccolona del solito, protettiva come del resto è sempre stata nei confronti del suo gemello, e poi la piscina è stata chiusa per problemi al riscaldamento, e poi è arrivata l’influenza, e poi il Coronavirus che ha fatto chiudere tutto, e la prima volta che potrà correre all’aria aperta, Francesco, ma anche Chiara, non lo potremo fermare neanche sparandogli alle gambe, non lo vorremo fermare, e fanculo ai cartelli che sono apparsi nei parchi di Milano, cartelli che dicono che nei parchi si può camminare a un metro di distanza, correre a un metro di distanza, stare seduti a un metro di distanza, ma non si può giocare, stare insieme agli altri, fare sport, divertirsi, vivere, ché Francesco e Chiara si meritano di correre per tutta Milano, tutta la Lombardia, forse anche tutto il mondo, come Forrest Gump, film di merda, correre finché poi ci si ferma, sono stanchino.

E chiaramente, funziona così, potrei anche star qui a raccontare il momento esatto in cui io e Marina abbiamo pensato di perdere anche Tommaso, di quando Lucia ha avuto il suo momento no ve l’ho accennato parlandovi di quella volta che con Gianni Biondillo, amico e collega, più amico che collega, siamo andati al concerto dei Die Antwoord, lui, Tommaso, di appena una settimana, io e Marina prima in balia di un coglione, un medico del pronto soccorso di Ancona che, se lo incontrassi adesso, anche adesso che dobbiamo tenere la distanza sociale, gli butterei giù tutti i denti con una testata, salvo poi rimettermi a distanza di sicurezza, la mascherina in faccia, mascherina che mi sarei tolto solo nella speranza che mi riconoscesse, anche se un coglione così avrà fatto talmente tanti danni che immagino dovrebbe avere la coda davanti casa di gente che gli vuole buttare giù i denti a testate, figuriamoci se si ricorda di me, di noi, per poi passare nelle mani di una pediatra tedesca, con la voce da pediatra tedesca, l’empatia di una pediatra tedesca, e fortuna che intorno a noi c’era sempre Nadia, la mia compagna delle medie, una delle nostre più care amiche, anche lei pediatra presso il medesimo ospedale di Ancona, quello nel quale sono nati Lucia e Tommaso. Potrei raccontarvi anche questo aneddoto, le paure, il panico, ma vi ho già a sufficienza angosciato, e ancora una volta, come un po’ succede nella vita, lui, Tommaso, il figlio di mezzo, quello nato dopo una femmina dalla personalità ingombrante e prima di due gemelli, deve accontentarsi di un ruolo marginale, lo so, mi sento una merda mentre me ne rendo ancora una volta conto, mi sento ancora di più una merda nello scriverlo, ma è la vita, e Tommaso ha questa sua capacità di esserci sempre e comunque, magari infilandosi negli spazi che gli altri gli lasciano, spesso angusti, comunque presente, una certezza, se vi sembra poco, potrei quindi raccontarvi anche questo aneddoto, ma credo di aver reso abbastanza l’angoscia che questo giorno, 6 maggio 2020, ennesimo 6 maggio della mia vita, ennesimo 6 maggio della mia vita dopo che il 6 maggio è diventato il giorno più brutto della mia vita porta con sé.

Ora, chiaramente i titoli non si trovano lì per caso, non credo di dire nulla di particolarmente sconvolgente, quindi a questo punto dovrei tirare in ballo Ligabue e la sua canzone Il Giorno di Dolore che Uno Ha, canzone, per altro, dedicata dal cantautore di Correggio a un mio collega, Stefano Ronzani, critico musicale de Il Mucchio Selvaggio, all’epoca in cui Ligabue la scrisse, nella metà degli anni Novanta, sempre lì, gravemente malato di leucemia. Un modo, quello messo in atto da Ligabue, per provare a portare di sollievo a un amico in ospedale, anche se poi la canzone uscirà solo nel 1997, un anno dopo la morte di Ronzani per leucemia. Una canzone, quindi, che parla di dolore e di conforto, di speranza e di come la vita ci porti a vivere situazioni apparentemente inspiegabili, che però, lo confesso, pur capendone appieno le ragioni e la visione, non mi ha mai preso.

Credo di averlo già scritto più volte, consapevole, per altro, che il mio aver a lungo lavorato con Vasco, immagino magari di tornarci a lavorare in futuro, sempre che un futuro ci sia, possa in qualche modo rendere il mio parlare di Ligabue distorto, parlo dello sguardo di certi fan, ovviamente, ma ho molto amato il primo Ligabue, ricordo perfettamente quando io, Marina e gli amici di Piazza Cavour lo siamo andati a vedere in concerto davanti alla Fiera della Pesca di Ancona, poco prima del suo esordio, io che lo avevo visto da Red Ronnie, all’epoca il Red Ronnie che parlava dentro la mia televisione, e che ne ero rimasto colpito, un concerto sincero, rock, pieno di cover per riempire una scaletta altrimenti esile, ho molto amato sicuramente i primi tre album, andando poi negli anni a apprezzare alcuni brani, ma non necessariamente il complesso dell’opera, perché seppur io abbia apprezzato il suo tentativo di evolversi, certo seguendo anche in quella evoluzione la strada indicata dal Boss, quel passare dalla fuga della provincia di una parte di un noi, quelli del Bar Mario, a un tentativo di parlare di un IO che sposta sul personale l’obiettivo, il divorzio, i nuovi amori, la difficoltà di confrontarsi con un sociale che nel mentre è cambiato nei panorami, comunque provandoci, e nel quale per lui, a sua volta cambiato, da operaio di Correggio a rockstar acclamata, è assai difficile muoversi.

Ma c’è soprattutto una canzone del repertorio recente di Ligabue che mi è entrata sottopelle, capace di farmi ogni volta piangere, così, senza possibilità di frenare le lacrime, per un suo verso che, lo giuro, è davvero capace di riportarmi indietro a un passato che non so neanche se ho mai davvero vissuto o se è più il frutto di una mia qualche rielaborazione, comunque coerente con la mia vita, la mia vita familiare, intendendo con questo la mia famiglia di origine, con la mia storia.

Parlo di Per sempre, contenuta nel suo album Mondovisione, del 2013. Una canzone, questa, una ballad, che mette una a fianco all’altra delle fotografie della storia di Luciano Ligabue, da quando era bambino al suo prima amore, che a un certo punto, dopo lo special, chitarristico, propone queste due strofe che, anche ora che le scrivo mi si inumidiscono gli occhi, mi stende, come in precedenza era capitato credo solo a Le Case d’Inverno di Luca Carboni, parlando della capacità di riportarmi a un passato difficile, ma Luca Carboni, è noto, è uno dei miei tre cantautori, uno di quelli che hanno messo in musica me stesso, le mie visioni, le mie paure, i miei sentimenti, insieme a Enrico Ruggeri e Ivano Fossati, Ligabue no, è solo stato un cantautore che ho molto amato e poi perso di vista, tornando a apprezzarlo a sprazzi, finché un giorno non è tornato a cantarmi queste parole qui, in Per Sempre,  tagliandomi l’anima a fette sottili e cospargendole di sale: Mia madre che prepara la cena cantando Sanremo/ carezza la testa a mio padre e gli dice “vedrai che ce la faremo”.

Ecco, oggi, 6 maggio, il giorno di dolore che io e Marina, Marina e io, abbiamo, vorrei riuscire davvero a rovesciare questa immagine, passarle una mano nei capelli rossi, quei capelli che con tutto quel che c’era sotto me ne hanno fatto innamorare follemente trentaquattro anni fa, e poterle dire “vedrai che ce la faremo”. Lo dico a gran voce, ora, “Marina, vedrai che ce la faremo”, sul cantare Sanremo sorvolo, la amo ancora troppo per farle anche questo.